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Obama visto da Specchio Economico

Barack Hussein Obama jr, presidente degli Stati Uniti
a cura di LUIGI LOCATELLI

Il 28 febbraio 2013 Barack Obama ha perduto l’autore dei suoi discorsi, quel Jon Favreau al quale deve il motto «Yes we can» indicativo dello «spirito di un popolo» che gli ha fruttato la prima elezione alla Casa Bianca il 4 novembre 2008 ed ha influito anche sulla seconda elezione del 6 novembre 2012. Conclusa una collaborazione che durava dal 2005, Favreau cercherà fortuna a Hollywood affrontando un test che per lui non ha precedenti perché gli speechwriter, ossia coloro che scrivono discorsi, slogan, frasi emblematiche degli ultimi presidenti, come Michael Waldman e Michael Gerson che servirono rispettivamente Bill Clinton e George W. Bush, una volta usciti dalla politica si sono dedicati a scrivere libri e articoli, o hanno ricevuto incarichi accademici.
L’incontro di Favreau con Obama risale al luglio del 2004 e rivelò subito la propria importanza. Il mondo degli autori dei discorsi è delicato, difficile, importante. Può influire su una vittoria o provocare un insuccesso. Ma soprattutto è sconosciuto, tutelato dal totale riserbo dei protagonisti. E si svolge dietro le quinte, nell’anonimato totale. Tutto il loro prodotto, i discorsi, le dichiarazioni nelle conferenze stampa, gli slogan, i testi, le linee da seguire o da sottolineare nelle più diverse occasioni, è per convenzione attribuito al leader politico. Ma è frutto della capacità dello speechwriter di saper intuire le attitudini psicologiche e culturali, prima delle aspirazioni del politico che li ha ingaggiati; di saper interpretare bisogni e aspettative anche individuali dell’ampia area politica alla quale si rivolgono: di attrarre gli indifferenti, convincere i dubbiosi, conoscere i problemi del momento, compresi quelli degli avversari politici.
Nel 2004 Favreau aveva 23 anni e lavorava nella squadra di John Kerry, candidato alla presidenza, il quale lo inviò da Obama per modificare insieme alcune frasi del discorso preparato, che gli sembravano poco innovative. Nel clima teso dei giorni preelettorali Jon, anziché scrivere, mise Obama al microfono per modificare dal vivo i testi, frase per frase, correggendo anche pause, tono di voce, ritmo. Da quel momento nacque tra loro uno stretto legame che ha lasciato l’impronta in tutti i discorsi di Obama. Da quello programmatico del 2009 sulle «sfide reali e serie da affrontare», dall’intervento al Congresso per promuovere la riforma sanitaria indispensabile «perché il tempo dei giochi è finito», al discorso d’apertura del secondo mandato, per il quale ha ritmato la frase «We, the people», evocando la Costituzione americana.
Secondo David Plouffe, architetto organizzativo delle vittorie elettorali 2008 e 2012, «il giovane speechwriter Favreau ha il merito unico di conoscere a tal punto la mente di Obama da saper parlare con la sua voce, e non ha mai presentato una bozza che non coincidesse con l’intento desiderato», costituendo una fonte inesauribile di idee e suggestioni. Per accreditarlo nel mondo dello spettacolo, dove Jon vorrà adesso lavorare come soggettista e sceneggiatore, Obama ha assicurato che «ciò che sa fare è scrivere racconti di valore», e al suo posto, alla Casa Bianca, ha incaricato Cody Keenan, originario di Chicago e suo braccio destro.
Campione di «beer pong», in cui vince chi beve più birra, per il discorso sullo Stato dell’Unione del 12 febbraio, l’ultimo per lui e il primo del secondo mandato del presidente, Jon ha fatto sedere in prima fila ospiti d’onore come la first lady Michelle e tre immigrati ispanici clandestini che sotto il profilo legale potevano rischiare una lunga pena detentiva e la deportazione. Ma che invece, per i membri del Congresso seduti dietro ai nove giudici della Corte Suprema, più delle parole del discorso hanno rappresentato l’immagine visiva della nuova America che Obama vuole creare.
Una nuova America tollerante e aperta verso gli 11 milioni di immigrati clandestini che potranno avere la cittadinanza purché non abbiano precedenti penali neppure nei loro Paesi d’origine; e verso le coppie gay che possono sposarsi e avere figli, ma implacabile verso chi trasgredisce le leggi. Barack Obama aveva già nominato il primo procuratore della Corte d’Appello Federale americana apertamente gay, Todd Hughes. Ora nel discorso di insediamento ufficiale alla Casa Bianca, ha voluto confermare la propria posizione a favore di una piena uguaglianza tra cittadini, affermando apertamente - primo presidente nella storia degli Stati Uniti a parlare nel discorso di insediamento dei diritti degli omosessuali -, che «il nostro viaggio verso la libertà non potrà dirsi completo fin quando i nostri fratelli e le nostre sorelle omosessuali non saranno trattati come tutti davanti alla legge; se è vero che tutti siamo creati uguali, allora l’amore tra ciascuno di noi deve essere trattato allo stesso modo».
Per questo stesso incarico già era stato nominato nel 2010 un altro giudice gay, Edward DuMont, ma il Senato di fatto aveva fermato la nomina, non arrivando mai a una vera bocciatura. A causa del veto di alcuni senatori repubblicani, rimasti sempre nell’ombra, DuMont si ritirò prima dell’audizione. Hughes invece sarà inserito nel Federal Circuit, l’organismo giudiziario composto da 12 alti giudici che si occupa di cause riguardanti la tutela della proprietà intellettuale dei brevetti industriali.
 Non solo gay e immigrati. È stato un discorso che sposta notevolmente a sinistra l’agenda politica di Obama il quale, con i numerosi e gravi impegni annunciati, ha voluto sottolineare che nel nuovo quadriennio sarà diverso il modo di agire e di decidere di un presidente che, dopo un primo ciclo poco brillante, si presenta con una sicurezza finora sconosciuta nell’affrontare i più significativi problemi, deciso a lasciare un’America nuova al termine del mandato: riduzione delle spese militari che da decenni non subiscono tagli, dimezzamento entro un anno del contingente americano in Afghanistan che conta 66 mila soldati, un ulteriore taglio delle testate nucleari da realizzare attraverso un nuovo accordo con la Russia.
Un deciso messaggio contro la lobby delle armi da fuoco in libera vendita ai civili, sottolineato dalla presenza, tra gli invitati, di un gruppo di ospiti d’onore particolarmente significativo: sedici parenti delle vittime che negli ultimi tempi hanno insanguinato scuole e strade. Come alcuni genitori dei 32 studenti uccisi nella strage dell’Università del Virginia Tech, dei 27 bambini massacrati nella scuola elementare di Newtown in Connecticut, come altri venuti dall’Arizona dove sette bambini sono stati uccisi ed è stata gravemente ferita alla testa Gabrielle Gifford, sopravvissuta con una grave disabilità motoria e neurologica.
Qui il pensiero non poteva non andare anche a Jimmy Lee Dykes, l’uomo che per una settimana ha tenuto in ostaggio in un bunker un bambino di sei anni che aveva prelevato da uno scuolabus dopo averne ucciso l’autista, ma che era stato eliminato pochi giorni prima con un rischioso blitz dagli uomini dell’unità speciale dell’FBI. E, per i problemi economici e sociali, lotta alla disoccupazione, misure per proteggere imprese e cittadini dai sempre più gravi attacchi informatici, ma su questo punto i cronisti hanno potuto notare, seduto al fianco di Michelle, Tim Cook, l’amministratore delegato dell’Apple che è in causa per gli smartphone contro la Samsung.
Inoltre verifiche delle energie verdi e rinnovabili con il rilancio delle misure di tutela ambientale, maggiore attenzione ai diritti civili e al rispetto della privacy, più equità fiscale eliminando alcuni sconti sulle imposte oggi a favore dei più ricchi, uno sforzo nella riduzione della spesa per contenere il debito arrivato nel 2012 a 11.580 miliardi, il 74,2 per cento del prodotto interno, e insieme un forte aumento del salario minimo, da 7,25 a 9 dollari l’ora; e asili nido pubblici per le famiglie in difficoltà, e 50 miliardi di dollari per il restauro delle infrastrutture fatiscenti ed altri 15 per recuperare le abitazioni abbandonate da chi non riesce a pagare il mutuo.
Questi e molti altri impegni, descritti in dettaglio in un programma denso, concreto, che esplicita la sua esigenza di cambiamento nella gestione del ruolo di presidente, con l’intenzione di lasciare un profondo segno nella storia dell’Unione più di quanto, d’abitudine, i presidenti nel secondo mandato abbiano mai fatto. Esigenza di cui Obama aveva dato un primo segnale all’avvio del secondo mandato, subito dopo il giuramento con la mano sinistra poggiata sulle Bibbie di Abramo Lincoln e di Martin Luther King che Michelle gli porgeva, mostrando di saper assumere interamente le responsabilità e le funzioni che l’America e il mondo si aspettano dalla persona che lavora e risiede al 1600 di Pennsylvania Avenue, ma dove la moglie coltiva l’orto, fa i piegamenti al risveglio, suggerisce alle mamme di non far ingrassare i figli piccoli, cancellando il ricordo di corna dei Clinton, tenendo sempre vicine le figlie Sasha e Malia ormai quasi signorinette, in una famiglia che alla fine della giornata dimentica le incombenze della first family e si lascia andare alla normalità.
«Noi affermiamo le promesse della nostra democrazia», è stato l’esordio del discorso inaugurale, proseguito con gli annunci del nuovo corso: «Ciò che ci fa eccezionali, che ci fa americani, è la nostra adesione a una dichiarazione vecchia di due secoli: tutti gli uomini sono creati uguali e hanno l’inalienabile diritto alla vita, alla libertà e all’aspirazione alla felicità». E più tardi, al ballo dell’Inauguration Day, come una felice coppia americana si sono stretti, lei in rosso con il nuovo taglio di capelli e la frangia scolpita, lui in giacca scura, già concentrato sulle incombenze del mattino seguente.
Un Obama diverso dal primo mandato, impegnato nei piccoli gesti per capire esattamente il contenuto del proprio ruolo, diventato consapevole quattro anni dopo di dover attuare con prontezza le profonde decisioni necessarie in un prolungato periodo di difficoltà economica, finanziaria, politica e militare mondiale. Un Obama nuovo rivelato a un occhio attento da un minimo gesto compiuto al termine della cerimonia del giuramento, mentre scendeva i gradini del Campidoglio: si è come assentato dalla circostanza protocollare, fermandosi per un attimo a fissare l’immensa platea di oltre 800 mila entusiasti americani in maggioranza di colore.
Un attimo in cui si è lasciato sfuggire un pensiero a mezza voce, catturato dai microfoni più vicini: «Non rivedrò più una cosa così», rivelando, senza volere, la propria capacità nascosta di giudicarsi in ogni suo gesto. In quel momento di fronte all’America, che per la seconda volta aveva votato lui, nero, sentiva di essere determinato a realizzare per tutti una grande evoluzione sociale e prometteva a se stesso di trasformare il tirocinio del primo mandato in un mandato effettivo, con piene capacità decisionali.
La prima conferma di questa svolta è avvenuta nei giorni immediatamente successivi con l’annuncio al Congresso di rivelare i principi legali e confidenziali che autorizzano l’uccisione con l’uso dei droni, i minuscoli aerei senza pilota guidati da una centrale elettronica, di quei cittadini americani all’estero ritenuti «alti dirigenti operativi» di Al Qaeda o di una sua «forza affiliata». Un gesto forte, imprevedibile, compiuto a poche ore dall’audizione, al Congresso, del nuovo capo della Cia, quel John Brennan che ha trascorso oltre 25 anni nella Central Intelligence Agency, ed ora è uno dei più ascoltati consiglieri di Obama. L’uomo, secondo il New York Times, che nel proprio ufficio nel seminterrato della Casa Bianca, aggiorna la kill list, l’elenco dei membri di Al Qaeda destinati ad essere a inquadrati dai droni.
Barack Hussein Obama Jr, statunitense, è nato il 4 agosto 1961 al Kapi’olani Medical Center for Women & Children di Honolulu, nelle Hawaii, da madre statunitense, Stanley Ann Dunham nata a Wichita nel Kansas, e da padre keniota di etnia Luo, Barack Obama Sr, nato a Nyang’oma Kogelo, nella provincia di Nyanza. Entrambi erano studenti universitari. Nel 1963 si separarono poi divorziarono; il padre andò all’Università Harvard e, dopo aver conseguito il dottorato, tornò in Kenya, dove morì in un incidente stradale nel novembre 1982. Aveva rivisto il figlio solo in un’occasione. La madre invece si risposò con Lolo Soetoro, da cui ebbe una figlia. Obama si trasferì con la famiglia a Giacarta, dove nacque la sorellastra, Maya Soetoro-Ng, e dove lui frequentò le scuole elementari da 6 a 10 anni. È il primo afroamericano a ricoprire la carica di presidente, come John Fitzgerald Kennedy era stato il primo di religione cattolica. Nel suo libro «I sogni di mio padre» Obama ha descritto l’esperienza di crescere con la famiglia della madre di ceto medio. Della sua infanzia, scrive: «Mio padre non sembrava per nulla come le persone a fianco a me, era nero come la pece, mentre mia madre bianca come il latte. Di lui me ne ricordo a malapena».
Scrive anche sul suo uso di marijuana e cocaina durante l’adolescenza per «spingere le domande su chi ero fuori dalla mia testa». Al forum civile per la candidatura presidenziale nel 2008, Obama definisce il suo uso di droghe come «il più grosso fallimento morale». Dopo il liceo, studiò al Columbia College della Columbia University laureandosi in Scienze politiche, con specializzazione in Relazioni internazionali. Per un anno impiegato nella Business International Corporation, società di notizie economiche internazionali, poi a Chicago per dirigere un progetto non profit delle chiese locali nei programmi di apprendistato per i residenti dei quartieri poveri nel South Side.
Dal 1988 per tre anni studia Giurisprudenza ad Harvard. Si è laureato alla Columbia University e nella Harvard Law School, primo afroamericano nominato presidente della Harvard Law Review. Nel 1989, durante uno stage estivo presso uno studio legale d Chicago, conosce Michelle Robinson, avvocato associato dello studio. Laureato con lode nel 1991, il 3 ottobre 1992 sposa Michelle nella Trinity United Church of Christ di Chicago. L’impegno politico comincia nel 1992, dopo un’aggressiva campagna elettorale, portando circa 100 mila voti a Bill Clinton nelle elezioni presidenziali. Nel 1993 sostiene Carol Moseley Braun, prima donna afro-americana a diventare senatrice. Obama è stato eletto al Senato dell’Illinois per tre mandati, dal 1997 al 2004. La vittoria a sorpresa nelle primarie democratiche nazionali del marzo 2004, su un folto gruppo di contendenti, accresce la sua visibilità e il discorso introduttivo alla convention democratica del luglio lo rende una delle figure emergenti del Partito Democratico. È stato quindi eletto senatore degli Stati Uniti d’America nel novembre 2004, con il più ampio margine nella storia dell’Illinois. Il 10 febbraio 2007 annuncia ufficialmente la propria candidatura per le elezioni presidenziali del 2008.
Alle elezioni primarie del Partito Democratico Obama batte, dopo un duro testa a testa, l’ex first lady e senatrice dello Stato di New York, Hillary Clinton. Il 3 giugno 2008 ottiene il quorum necessario per la nomination democratica, divenendo così il primo candidato afro-americano a correre per la Casa Bianca per uno dei due maggiori partiti. Il 4 novembre 2008 supera il senatore dell’Arizona John McCain, candidato repubblicano, e si insedia ufficialmente alla presidenza degli Stati Uniti il 20 gennaio del 2009.
Nello stesso anno è stato insignito del Premio Nobel per la Pace «per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Il 6 novembre 2012 si impone sul candidato repubblicano Mitt Romney, il 20 gennaio 2013 si insedia ufficialmente alla Casa Bianca per il secondo mandato consecutivo.
Quando, il 14 giugno 2012, Obama era salito sulla Freedom Tower per celebrare la ricostruzione di Ground Zero, l’intenzione era di rafforzare la propria immagine di difensore della sicurezza nazionale attuando una strategia elettorale diversa da quella basata sull’economia pianificata dagli uffici del partito. Ma a cinque mesi dal voto, i numeri del prodotto interno e della disoccupazione erano tali da imporre una decisa inversione di rotta.
Il Washington Post stava pubblicando indiscrezioni su una probabile cyberguerra contro l’Iran, suggerendogli inconsapevolmente di disegnare una nuova immagine di presidente guerriero, sostenuta anche dalla disponibilità dei funzionari dell’Amministrazione a lasciar trapelare l’esistenza della «kill list», ossia l’elenco dei jihadisti da uccidere. Il profilo di leader all’offensiva contro i nemici dell’America e impegnato nella sicurezza nazionale, oltre a sostenere il suo nuovo orientamento decisionista, si univa al consenso popolare per l’eliminazione di Osama bin Laden. Le indiscrezioni sulla guerra dei droni rappresentavano un vantaggio insperato, rispetto allo sfidante Romney, per mantenere quegli elettori moderati che nel 2008 avevano consentito a Obama di conquistare Stati conservatori come Indiana e North Carolina, ora in bilico a causa della crisi economica.
Finora Obama, nonostante le pressioni del Congresso, aveva sempre rifiutato di fornire i documenti classificati, ossia rigorosamente riservati e segreti, ma ora c’era la rivelazione della NBC del memorandum che elencava le regole da seguire per le uccisioni con i droni: minaccia imminente anche se priva di prove specifiche, cattura impossibile degli attaccanti, rispetto degli accordi con i Paesi in cui avviene l’attacco. La svolta c’è stata il 7 febbraio, con la decisione di consegnare al Congresso le carte segrete sui cittadini americani uccisi dai droni della Cia perché collegati con Al Qaeda. Accompagnata alla nomina di John Brennan alla direzione della Cia.
Gesti di durezza inconsueta, mitigata dall’annuncio della causa civile da 5 miliardi di dollari intentata contro la Standard&Poor’s a titolo di risarcimento per i danni causati nel 2008 dalla crisi dei mutui subprime con il contributo di questa agenzia di rating che avrebbe gonfiato le valutazioni di alcuni mutui ipotecari.