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In ricordo di Ariel Sharon



Alberto Pasolini Zanelli
È stato al mondo 86 anni. Ne ha vissuti veramente 80. Per 72 è stato “attivo”: termine assolutamente insufficiente per descrivere l’intensità della vita di Ariel Sharon, la sua drammaticità, il suo coinvolgimento, quasi sempre centrale, in una vicenda drammatica e complessa come il destino della Palestina, radicata nelle sofferenze e nella sorte millenaria del popolo di Israele. Figlio di profughi dalla Russia e dalla Lituania (dalla terra che oggi si chiama Bielorussia), approdato in Israele quando Israele ancora non esisteva come Stato ma germogliava anche attraverso l’istituzione dei kibbutz, entrò in politica all’età di 10 anni nel movimento giovanile sionista Hassadeh, quando ancora in famiglia si parlava russo, la prima lingua “ufficiale” che imparò, Ariel Scheinermann prima di assumere il nome di Ariel Sharon. Sharon come “foresta”.
Ma “balilla” rimase ben poco: già quattordicenne fece conoscenza con la vita militare, come volontario nella Haganah, embrione delle Forze di Difesa di uno Stato che doveva ancora nascere. Nacque sulla guerra che Sharon visse col suo sudore e la sua pelle. A 16 anni fu gravemente ferito, a 21 fu promosso capitano e a 23 entrò nei servizi segreti, ma continuò a combattere contro i guerriglieri e i terroristi arabi, coinvolto con funzioni direttive nei combattimenti e nelle azioni di rappresaglia. Diventò paracadutista e, a 28 anni, fu promosso addirittura generale.
In tale ruolo egli partecipò alla guerra-lampo del 1956, quella che stabilì una supremazia militare di Israele che oggi ancora dura. Pare però che Ariel commettesse “errori” e per questo fu escluso dall’esercito per sei anni. Indomito, alla scadenza del “bando” si vide affidare il comando di una divisione corazzata e poi dell’intero Fronte Sud. I galloni di capo di Stato Maggiore parevano già pronti per lui, ma la sua promozione fu bloccata da un altro eroe storico di Israele, Moshe Dayan. Dayan era laburista, Sharon lo ripagò entrando in politica e militando in uno conservatore, il Likud, ma già l’anno dopo fu chiamato ad indossare l’uniforme, in una congiuntura drammatica: per la prima ed ultima volta Israele si lasciò sorprendere dagli arabi, da un attacco simultaneo dell’Egitto dal Sud e della Siria dal Nord. Sharon reagì con ancora più prontezza: lanciò uno sbarco sulla costa africana, accerchiò le forze egiziane di invasione, le distrusse e marciò direttamente sul Cairo. Era alle porte quando fu fermato da un armistizio che non gli piacque.
E rieccolo in politica, sempre nel Likud ma stavolta come stretto collaboratore del nuovo premier laburista, Yitzhak Rabin. Nel 1982 Sharon era ministro della Difesa. Fu lui a concepire e condurre l’invasione nel Libano come risposta ad azioni terroristiche di esuli palestinesi a Beirut. La vittoria fu rapida ma macchiata di sangue e di sospetti. Forse autorizzati e comunque in qualche modo “protetti” i miliziani di una fazione libanese cristiana, la Falange, penetrarono in un campo profughi palestinese e compirono un massacro rimasto nella storia con il nome di Sabra e Shatila. Si aprì un’inchiesta internazionale destinata a durare anni. Una commissione di inchiesta israeliana convenne che Sharon portava una “responsabilità personale” omettendo di proteggere la popolazione civile di Beirut. Come conseguenza Ariel fu destituito da ministro della Difesa ma ebbe in cambio un dicastero che in quel luogo e in quel momento era cruciale: il dicastero dell’Edilizia, incaricato dunque di gestire gli insediamenti ebraici nei Territori Occupati, anche oggi uno dei massimi ostacoli al compromesso fra Israele e i palestinesi.
Uscito dal governo per la sconfitta elettorale del Likud, Sharon divenne capo dell’opposizione e compì – eravamo nel 2000 – un altro gesto di sfida gravido di conseguenze: una “passeggiata” nella Spianata delle Moschee a Gerusalemme, quella su cui sorge la Cupola della Roccia, luogo sacro ai musulmani come base per una “cavalcata” di Maometto verso il cielo. Sharon intendeva riaffermare la sovranità dello Stato ebraico anche in quel luogo. La conseguenza fu una nuova Intifada, detta la seconda, in contrasto con quella precedente in cui la protesta araba si era manifestata in forme pacifiche. Alle urne però l’“incidente” giovò a Sharon, che riconquistò il potere e diventò primo ministro. Per prima cosa egli decise di confinare Arafat a Ramallah.
Scampato a un nuovo processo per i fatti di Sabra e Shatila, fu rieletto e lanciò ben presto due iniziative. La prima da “falco”, la costruzione di un “muro”, barriera difensiva al confine con la Cisgiordania; la seconda da “colomba”, decidendo il ritiro dalla Striscia di Gaza delle truppe israeliane e anche delle migliaia di coloni che vi si erano insediati. Per attuarlo l’esercito dello Stato di Israele fu chiamato ad usare la forza per rimpatriare i coloni ribelli. Di qui la rottura definitiva fra il Likud e Sharon, che se ne dimise per fondarne uno nuovo, il Kadima, “centrista” e liberale, che doveva diventare la piattaforma delle “colombe”, specialmente dopo che vi confluì anche Shimon Peres, premio Nobel per la pace. Anche il “nuovo” Sharon conquistò una vasta popolarità mondiale, ma la leadership della destra passò nelle salde mani del superfalco Netanyahu.
La carriera di Sharon dovette interrompersi definitivamente poco dopo non per una sconfitta politica ma per l’assalto del male. È dal 2006 che quest’uomo tremendamente attivo giaceva in coma sul letto di un ospedale, senza speranza di riprendersi. Quest’uomo tremendamente attivo si trasformò in testimone muto e impietrito di un dramma che continuava anche senza di lui e senza che nuove luci di speranza si accendessero. Né per la Palestina né per la patria che egli tanto appassionatamente e turbinosamente amava.