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Renzi e la svolta europea



Guido Colomba

E' probabile che alla fine Renzi la spunti al vertice europeo ottenendo la nomina di Federica Mogherini alla guida della politica estera Ue (ruolo finora quasi evanescente). Se invece dovesse andare male, dal punto di vista di palazzo Chigi, i vantaggi per Matteo Renzi sarebbero comunque sostanziosi. Perche? Il premier italiano in questi giorni ha potuto sottolineare agli altri partner tre aspetti fondamentali che sfuggono all'opinione pubblica europea: 1) l'Italia, paese di 60 milioni di abitanti, è uno dei fondatori storici dell'Unione; 2) dal 2011, anno della crisi del debito sovrano, l'Italia in quattro anni ha contribuito alle spese Ue ben 24 miliardi all'anno per un totale nel quadriennio 2011-2014 di 96 miliardi; 3) per fronteggiare la crisi di diversi paesi membri (Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia, Cipro) l'Italia ha versato altri 54 miliardi che, a fine anno, saliranno a 61 miliardi. La somma, pari a 157 miliardi, supera ampiamente il contestuale aumento del debito pubblico italiano giunto, a fine maggio, al nuovo record di 2.166 miliardi di euro. Certamente si può obiettare che i fondi europei all'agricoltura e quelli strutturali restituiscono una parte di queste cifre all'Italia (che però subisce un meccanismo che le impedisce di spenderle integralmente). Si può anche obiettare che, nonostante l'aumento della pressione fiscale registrata nel quadriennio, la spending review non abbia finora registrato risultati apprezzabili (che fine ha fatto Cottarelli?). Ma, ciò detto, resta il dato politico di questo enorme contributo italiano all'Unione europea del tutto ingiustificato se confrontato con il fallimento della politica economica imposta da Berlino e dai suoi più stretti alleati come attesta la caduta (-1,2%) a maggio della produzione industriale europea e la crescita nel numero dei disoccupati a 25-26 milioni. E' probabile che le forti e continue critiche della Casa Bianca e della Fed (insieme al FMI) abbiano un peso specifico nel recente peggioramento delle relazioni diplomatiche tra Usa e Germania e nel freno alla trattativa per una zona di libera scambio tra le due sponde dell'Atlantico (curiosamente un plotone di "intellettuali" europei si è attivato contro questa nuova integrazione economica che può costituire un secondo piano Marshall). Ecco perchè, è di grande significato l'intervento di Mario Draghi, presidente della Bce, a favore di un "coordinamento" in sede europea delle riforme strutturali dei singoli paesi. Una proposta che va di pari passo con l'indicazione dell'eurogruppo (ministri finanziari) favorevole ad una simultanea politica di intervento sul "cuneo fiscale". Anche il discorso all'Europarlamento di Juncker, neopresidente della Commissione, che promette 300 miliardi in tre anni per crescita e lavoro (con il traino della Bei per i project bond), va in questa direzione. Torna in primo piano l'esigenza di un pieno ritorno al manifatturiero ridando slancio operativo all'obiettivo di portare l'industria europea al 20 per cento del Pil entro il 2020. Ed è l'unica strada per creare posti di lavoro stabili.