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Sette come i peccati capitali...



Alberto Pasolini Zanelli
Sette come i peccati capitali, come le piaghe d’Egitto. Il Brasile calcistico ne è stato flagellato nella catastrofe dello stadio Belo Horizonte. Toccherà, adesso, anche al suo “allenatore” politico? Il Mondiale del pallone si è concluso ieri in una festa da cui i padroni di casa sono stati esclusi. Diamogli tre settimane per le recriminazioni e poi la partita ricomincia e questa volta è tutta una finalissima. In palio è il futuro di Dilma Rousseff e del team di ministri che hanno dato vita nell’ultimo decennio al “miracolo brasiliano”, soprattutto negli anni in cui in panchina sedeva “Lula il Metallurgico”, il Walesa carioca, il sindacalista di “base” che invece di scassare un’economia l’ha portata ad altezze senza precedenti. Opera completata da Dilma, un altro personaggio ancora e più improbabile, una nonna con un passato di guerrigliera nella giungla. Era per celebrare le imprese e la fortuna di questo tandem ineguale che il Brasile si è caricato di un doppio compito ambizioso e dorato: i mondiali di calcio e, appena due anni dopo, i giochi olimpici. Il futuro sembrava promettente, fino a non molto tempo fa, quando hanno cominciato a succedere cose imprevedibili quanto un disastro in campo come il 7-1 contro la Germania. Che non è stato un segnale d’allarme ma una conferma.
Che il vento della fortuna potesse girare e di tanto, lo aveva mostrato diversi mesi fa l’esplosione del malcontento nelle strade di una nazione che avrebbe dovuto, in quelle strade, ballare di gioia. Il 2013 era stato un anno denso di dolori e di malcontenti. Nessuno si era stupito, dunque, a vedere Madrid o Atene riempirsi di folle all’insegna dell’ira: in strada c’erano scese dopo anni di un purgatorio chiamato Austerity, ma quando lo stesso spettacolo invase Rio de Janeiro, Brasilia, Sao Paulo, esso giunse inatteso: una rivolta al colmo della prosperità. Il Brasile era stato una delle grandi storie di successo dell’ultimo decennio. L’economia era cresciuta in fretta e, cosa ancora più rara, i benefici erano stati distribuiti equamente fra tutti o quasi i suoi cittadini. Si rilanciava nel Sud del mondo la promessa di John Kennedy: “Quando l’acqua sale tutte le navi vanno più alto”. Non era mai accaduto nella storia del Brasile, terra di paragone delle massime disuguaglianze, rigorosamente spartito fra ricchi molto ricchi e poveri molto poveri. Eppure negli ultimi dieci anni quaranta milioni di brasiliani sono saliti nella classe media e di altrettanto è calato il numero dei davvero poveri.
Eppure le piazze si sono riempite di protesta e non si sono affollate di miserabili ma proprio di uomini e donne del ceto medio. Un paradosso, quasi contemporaneo all’ascesa della nazione fino a formare, in compagnia di poche altre, un blocco economico alternativo al G7, l’antico club dei ricchi: il Bric, Brasile, Russia, India e Cina. Quanto alla redistribuzione dei beni, in nessun’altra terra essa era stata più rapida e densa di quella carioca.
Perché, allora? Perché è stata proprio una rivolta dei beneficati, dei milioni che stavano meglio ma che si sentivano a disagio, volevano di più, se ne sentivano in diritto. Non ricevevano dagli aumentati guadagni un miglioramento adeguato delle condizioni di vita. Gente del ceto medio che in qualche modo continuava a sentirsi povera e da povera si comportava.
In termini, soprattutto, di scomodità. Rio de Janeiro è una della dozzina di città più care al mondo da viverci, molto più, per esempio, di New York. Il costo dei trasporti urbani a Sao Paulo è molto più elevato che a Parigi. E la qualità è inferiore. Il sindaco di Rio si è vantato anche di recente di non avere mai un centesimo in sussidi per i trasporti pubblici, in contrasto con i miliardi elargiti a futuristici progetti di architetti come Oscar Niemeeyer o, più modestamente ma non tanto, nel rinnovo dello stadio Maracanà, più i dodici miliardi già stanziati per le Olimpiadi del 2016.
I brasiliani si sono sempre aspettati molto dallo sport, un po’ per il loro proverbiale fatalismo, un po’ perché vi hanno a lungo trovato consolazione per sconfitte quotidiane di altro genere. Adesso che sono saliti nella scala planetaria, gli è toccato di incassare un 7-1 che qualcuno, con immaginazione davvero tropicale, ha paragonato a una Hiroshima o un Armageddon. E a tali malumori si offre adesso un’occasione di sfogo. Elettorale. Ad ottobre si vota, Dilma potrà essere trattata come Scolari, il trainer della disfatta sull’erba del Mineirao. I sondaggi non lo escludono: solo il 40 per cento è sicuro che voterà per rieleggere la presidente, oltre il 60 dichiara di avere soprattutto voglia di cambiare. Come si fa con gli allenatori.
pasolini.zanelli@gmail.com
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Ciao Signore,
a proposito dell'articolo di Pasolini Zanelli, i miei amici brasiliani mi dicono che la Dilma, oltre ad avere un curicculum meno stellare di Lula, ha ri alzato il livello di corruzione e sprechi che si era (solo lievemente) abbassato con Lula, e che ha portato ad un numero di miliardi spesi nel mondiale fuori controllo e maggiore di non si sa quanto del preventivo originale (solito trucco di aspettare di essere in reitardo e poi avere spese extra per il "rush service"), in un paese dove circa il 50% della popolazione non ha ancora acqua potabile.
Quindi le lamentele in strada non sono immotivate, perche' guadagnare qualcosa di piu' non compensa inadeguatezze delle infrastrutture di base.
E noi qui in USA ne sappiamo qualcosa, tipo in Vermont, dove un senatore democratico (e realmente di sinistra) e' stato eletto da gruppi di votanti estremamente conservatori, ma non benestanti, in virtu' degli investimenti in infrastrutture (e relativi posti di lavoro) che ha saputo portare a casa dal governo federale.
E adesso ne parlano come di un possibile candidato persino alla presidenza.
Clark