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Le sette guerre dell'America



Alberto Pasolini Zanelli
Da quando alla Casa Bianca siede un Premio Nobel per la Pace, l’America non è mai stata coinvolta in tanti conflitti, contemporaneamente, ai quattro angoli del globo. Guerre guerreggiate, guerre diplomatiche, guerre economiche. Aerei, missili e droni americani hanno salvato la vita a migliaia di arabi “eretici” assediati su cucuzzolo di una montagna dalle milizie integraliste nel bel mezzo del deserto iracheno. Armi made in Usa affluiscono alla causa dell’indipendenza curda. Tecnologia da guerra si sta trasferendo in Ucraina. Da tempo, in questo caso senza risultati, Washington appoggia una “rivoluzione” contro il regime siriano, che la vede paradossalmente “alleata” con un’altra branca dell’“esercito jihadista”. Il restaurato regime militare in Egitto gode oggi di nuovo dell’appoggio degli Usa. Nel bel centro della preoccupazione della Casa Bianca per il Medio Oriente di nuovo tutto in fiamme, il presidente Obama e il Segretario di Stato Kerry si affannano a proporre tregue e “moderazioni” nella insanguinata Striscia di Gaza e nel resto della Palestina. In Afghanistan un generale americano è stato ucciso da un militante talebano in quella che si può definire una delle ultime “battaglie” di una guerra nata tredici anni fa. E riaffiorano temi e protagonisti della Guerra Fredda, spentasi vent’anni fa in un “miracolo” della Storia che ha coinciso con la più grande vittoria degli Stati Uniti.
Eppure in America il conflitto armato di cui si parla e le scene di “guerra” su cui concentra l’attenzione della gente, non vengono dal Medio Oriente né dalla frontiera russa né dalle montagne afghane, bensì da un piccolo centro dello Stato del Missouri. Si chiama Ferguson, ha 22mila abitanti, da dieci giorni i tre canali televisivi gli dedicano ore e ore di cronache in diretta, di immagini di schieramenti militari, spari e fiammate di bottiglie molotov, silhouette di carri armati, barricate, scene complete di una “sommossa”. Che è in corso ma, spontaneamente o meno, è quasi interamente pacifica. Il sangue era scorso prima, ne è la causa non la conseguenza. Tutto il mondo sa ormai a memoria (almeno chi se ne cura) la tragica sorte di un ragazzo nero di 18 anni ucciso da un poliziotto con sei colpi di pistola in uno scenario pacifico e sorprendente, senza che prima non fosse volato neppure un sasso. Di qui la ribellione e l’escalation della repressione, quella le cui immagini riempiono gli schermi, mostrando armamenti sempre più sofisticati, il succedersi delle “forze dell’ordine”, dalla polizia locale alle varie branche del potere statale, al limite di un intervento federale che riesumerebbe il clima degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli della lotta degli americani di pelle nera per i diritti civili, dei tumulti nei quartieri delle metropoli, dei Musulmani Neri e di Martin Luther King.
Impressioni forse giustificabili, che però ingannano. Lo scontro che si sta avviando a Ferguson non è un rigurgito di una guerra razziale. L’America non è più segregata, tanto è vero che un uomo di pelle nera siede alla Casa Bianca. Le preoccupazioni sue e di tutti gli altri politici responsabili dovrebbero invece concentrarsi sul problema reale, sulla causa autentica: che è la trasformazione (che si può chiamare anche degenerazione) delle strategie delle “forze dell’ordine”, da strumento di pace civica in forza militare. Basta guardare, su quei teleschermi che sono specchi, gli arsenali della polizia, anche quella di un piccolo paese del Missouri: carri armati, elicotteri, lanciagranate, autoblindo a prova di mina, fucili a ripetizione. Cose che servirebbero, anzi sarebbero richieste da un intervento militare all’estero. Non è una guerra razziale che ritorna in America: è la conseguenza di una “mutazione” in gran parte dovuta all’esplosione del terrorismo islamico o almeno alla sua “rivelazione” l’11 settembre del 2001. Quel massacro a New York suscitò panico, ira ed è all’origine di una trasformazione, a tratti capovolgimento, della strategia americana nei Paesi interessati; con successo o meno, anche se il bilancio è finora piuttosto negativo, dalla Libia all’Egitto, dalla Siria all’Afghanistan e, naturalmente e soprattutto, all’Irak. In un Paese come l’America dove il porto d’armi è un diritto riconosciuto, era inevitabile che l’allarme nazionale portasse a un’ondata di riarmo e che il “cop” si trasformasse in guerriero, la polizia in un esercito. Questo è il problema vero, che preoccupa e quasi distrae dalla grande partita che si gioca su diversi continenti. Ma è anche il più difficile. Quello con le radici più profonde.