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L’Irak tocca in questi giorni il fondo nero della sua crisi



Alberto Pasolini Zanelli
L’Irak tocca in questi giorni, in queste ore il fondo nero della sua crisi, la più grave dai giorni ormai lontani dell’attacco americano e della distruzione del regime di Saddam Hussein. Peggio anche della disgregazione che vi è seguita e che sta degenerando ora in caos. All’offensiva dei seguaci armati del Califfo, all’intervento aereo americano in extremis per evitare il genocidio di un’intera minoranza religiosa, ai dolori e alle angosce di un esodo in massa per sfuggire di terrore degli estremisti, si è aggiunta ora una crisi politica a Bagdad. Non molto diversa da un golpe o almeno da un tentativo di golpe. Il presidente della Repubblica nomina un nuovo primo ministro e quello defenestrato non solo rifiuta di dimettersi ma fa appello all’esercito che fa circondare le zone strategiche della capitale da un esercito che pare obbedire a lui personalmente e non alle istituzioni. Il tutto mentre gli americani rimasti in città – ormai pochi a causa dello sgombero ordinato da Obama – cercano di ricucire la lacerazione facendo appelli alle parti in gioco, anche con la presenza personale del segretario di Stato John Kerry. Con pochi risultati, finora. Caduti nel nulla paiono gli appelli per un governo di solidarietà nazionale, di emergenza. Assieme alle parole dei conciliaboli corrono per le vie Bagdad gli strumenti di un golpe: carri armati nelle strade, pattugliamento dei quartieri abitati dagli sciiti, che rappresentano la maggioranza del Paese, virtuale “assedio” dal di dentro della “zona verde”, i reparti militari che prendono direttamente ordini dal primo ministro. Maliki si difende con le ultime energie, apparentemente isolato come non mai, accusato da più parti di essere fra i principali responsabili della crisi politica che sta rigettando Bagdad nei vortici di una nuova guerra. La situazione potrebbe cambiare di ora in ora, ma non è chiaro il rapporto di forze sul campo, almeno nella capitale.
Sul piano politico-parlamentare il premier è in minoranza da tempo e sul terreno, fuori dalle mura dell’antica Babilonia, è guerra aperta. I guerriglieri del Califfo hanno subito la battuta d’arresto nell’attacco aereo americano ma danno segno finora di voler resistere e neppure di ritirarsi su linee meglio difendibili: sono ancora all’offensiva, anche se è migliorata e ha preso respiro la situazione degli yazidis, che cercano ora di “evadere” dall’assedio cui erano stati costretti su montagne inabitabili sotto la brutale offensiva degli integralisti. Una sorte non del tutto diversa da quella che incombe sui cristiani, anch’essi cacciati, minacciati di morte, in molti casi già uccisi. Sono, gli uni e gli altri, “infedeli” e se ne scoprono i corpi nei cimiteri, compresi le fosse comuni che ospitano i bambini. Molto, ma non tutto, dipende più che mai dagli americani, cioè dalla misura del loro impegno militare. Le dichiarazioni di intenzioni da parte di Washington sono, forse deliberatamente, vaghe ma rischiano anche di confondere le idee un po’ a tutte le parti in gioco. Obama cerca di stabilire una linea di credibilità che non impegni l’America in un conflitto a lunga scadenza. I raid dell’aviazione Usa, si sottolinea, hanno una funzione soprattutto “difensiva”, sono operazioni in linea con la dottrina delle “guerre umanitarie” sperimentata negli ultimi vent’anni in vari teatri di tensione mondiali, compresa la ex Jugoslavia. “Potremo rimanere anche a lungo”, fa sapere il Pentagono. Ma la Casa Bianca subito aggiunge che l’impiego di truppe di terra continua ad essere escluso. “Noi possiamo aiutare gli iracheni, ma la partita se la devono giocare loro”.
E l’attenzione di Washington non si può concentrare esclusivamente sul dramma iracheno. L’inquieta “estate del centenario” dello scoppio della Prima guerra mondiale ha troppi fronti per poter stabilire una strategia planetaria, troppi focolai per poter essere tenuti sotto controllo contemporaneamente, troppi misteri e troppe contraddizioni nelle interpretazioni e anche nel giudizio dei fatti. L’altro campanello d’allarme continua a suonare dall’Ucraina. Il governo di Kiev denuncia movimenti di truppe russe in direzione della contesa frontiera fra i due Paesi. E in America c’è chi dubita della versione ufficiale sulla tragedia dell’abbattimento dell’aereo passeggeri malese. L’atto criminoso è stato attribuito finora, sia pure come ipotesi, alla Russia o almeno ai guerriglieri russofoni sostenuti da Mosca. Ma nelle ultime ore una denuncia di contenuto opposto: l’apparecchio delle linee aree malesi non sarebbe stato abbattuto da un missile bensì dal fuoco delle mitragliere di bordo di un caccia di un modello in possesso dell’aviazione ucraina. A riferire e ad avanzare il dubbio alternativo è un esponente politico americano, Ron Paul, leader del movimento libertario e candidato due anni fa alla Casa Bianca nelle “primarie” del Partito Repubblicano.