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Non è il “vertice dell’ebola”



Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Nessuno lo chiama così, quasi tutti lo pensano. Non è il “vertice dell’ebola”: è la più importante conferenza internazionale finora organizzata sull’Africa, con una cinquantina di capi di Stato o di governo invitati a Washington da un “figlio” del Continente Nero che di mestiere fa però il presidente degli Stati Uniti. Festa grande, dunque, per la comunità di colore in questo continente e in quello di origine, un po’ turbata tuttavia dal fatto che il primo “delegato” ad atterrare a Washington è stato un medico malato di ebola e trasferito in un ospedale. Per prudenza, però: sta meglio e il fatto è, fra l’altro, di buon augurio. Ma i delegati hanno parlato per tre giorni di vari argomenti ma, nonostante l’ennesimo ricorrere di quella esperienza, prevalentemente sulla base di buone notizie e sintomi incoraggianti. “Il virus – ha detto uno scienziato, Michael Osterholm – non è cambiato, ma l’Africa sì”.
Prima di tutto nelle prospettive economiche. Il potenziale del Continente Nero è migliorato e cresciuto come non mai nella storia, tenendo il passo, anzi correndo di più, di una impetuosa crescita demografica che in sé potrebbe essere destabilizzante. Negli ultimi lustri il mondo ha vissuto pagine di crisi, più di tutti forse l’Europa, ma ha visto anche una importante riduzione delle aree di estrema povertà. Il ceto medio della Terra sta diventando più povero, i poveri rimangono poveri, i poverissimi si “arricchiscono” attingendo il traguardo di diventare poveri e ciò accade dunque soprattutto in quel grande continente che finora è stato ultimo in classifica. I motivi sono diversi e concomitanti. Includono naturalmente le nuove tecnologie, l’impetuosa avanzata dell’elettronica (nelle più sperdute giungle e savane del pianeta fioriscono i cellulari e i tablet, in gigantesche aree che non conoscevano prima nessun’altra forma di comunicazione moderna. Si scoprono e si valorizzano risorse naturali, ma soprattutto si moltiplicano gli investimenti. La maggiore novità in questo senso è ovviamente la Cina, che si dedica all’Africa da anni con una strategia rimarchevolmente diversa da quella dell’Occidente, più spregiudicata ma dal più rapido successo. Pechino notoriamente non si sforza di esportare democrazia nel Continente Nero. Si limita a spedirgli tecnologie e investimenti. Che fa contare attraverso buoni rapporti con tutti i regimi, senza tentativi di indottrinamento ideologico, mettendo sullo stesso piano i poteri assoluti più arcaici e i regimi che si autodefiniscono rivoluzionari. Business is business. L’Europa e soprattutto l’America si sforzano invece di discriminare e di piantare in quelle savane ramoscelli di libertà e democrazia.
Con risultati misti: la grande maggioranza africana ha oggi regimi a mezza strada. Solo una minoranza sono dichiaratamente autocratici, un’altra, concentrata nell’Africa del Sud, può definirsi una democrazia. La maggioranza è una via di mezzo, dove a comandare non è uno solo ma i pochi che si contendono il potere con i vari mezzi a loro disposizione.
Poi ci sono, e sono tanti, i cosiddetti Stati Falliti, praticamente inesistenti, sempre numerosi e cui si è aggiunta da qualche tempo una nazione che per la sua economia potrebbe essere un leader, cioè la Libia, un’entità politica oggi distrutta in conseguenza – non prevista dagli improvvidi – di una “primavera” conclusa con l’eliminazione del regime di Gheddafi e sua personale. Al centro più “nero” del continente dilaga intanto una infezione che uccide ben più di ebola: l’integralismo incarnato da Mboko Olo. Ciononostante uno sguardo complessivo e a più lunga scadenza consente una certa fiducia nel futuro di questo continente negletto per secoli e oggetto dell’esperimento coloniale più breve e in genere peggio condotto.
I cinquanta leader ne hanno parlato a Washington, anche se un linguaggio comune è ancora una meta remota. In Africa non c’è ancora più libertà. Però c’è più cibo e anche, nonostante il fantasma dell’ebola, meno morbo. Incluso l’Aids, che pure di laggiù si è esteso nel mondo ma che ora indietreggia in conseguenza di un efficace e intenso programma. Il cui merito principale va riconosciuto proprio a un presidente americano: ma non al “kenyano” pacifista Obama, bensì al suo predecessore, bianco, “falco” e texano. Un George W. Bush che altre parti del mondo conoscono in una luce ben diversa.