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La “rivoluzione” del Nord era destinata ad essere bloccata....



Alberto Pasolini Zanelli
Lunga è stata la notte degli scrutini per il referendum in Scozia. Ma l’esito finale è stato identico a quello suggerito dai primissimi dati e, soprattutto, da quello profilato dai sondaggi. Il divorzio fra le isole britanniche è parso possibile solo all’annuncio del “plebiscito”. Già quando la campagna elettorale è entrata nella fase concreta, la convinzione generale era che la “rivoluzione” del Nord era destinata ad essere bloccata. Troppo forte e diffusa era l’opposizione, che si è servita di tutte le “armi” possibili e concepibili, dall’appello romantico in un linguaggio neomedioevale alle pressioni più concrete, politiche e soprattutto economiche. Londra ha giocato tutte le sue carte, calato sul tavolo verde tutti i suoi assi. A cominciare da Sua Maestà. Non è d’abitudine che la regina si schieri in una contesa elettorale. Lo ha fatto perché le è parso necessario, a lei e soprattutto all’establishment. L’abbraccio ai cari sudditi è venuto contemporaneo a un discorso più concreto, meno storico e molto pecuniario. “Se voterete sì all’indipendenza, cari scozzesi, vi caccerete in un sacco di guai e soprattutto ci rimetterete un sacco di sterline”. In tanti modi ma soprattutto perché le banche vi abbandoneranno, si sposteranno tutte quante a Sud di quella frontiera antica la cui età è già contenuta nel nome: Vallo di Adriano.
Il Regno Unito è tale formalmente da appena tre secoli, con quella operazione dinastica che agli scozzesi ha dato una apparente corona e agli inglesi il potere reale. Elisabetta II non lo ha ripetuto in questi termini, però con toni sufficientemente appassionati. Ha anche fatto ricorso, come nei momenti critici della storia d’Inghilterra, agli “aiuti americani”: “Suggerimenti” con un sottofondo di “rappresaglia”: un appello quasi sentimentale di Barack Obama e un altro “franco” e appassionato della donna che quasi sicuramente ne erediterà la Casa Bianca: Hillary Clinton. I sostenitori del “no” disponevano di tutte queste “armi”, quelli del “sì” potevano contare soprattutto su una passione antica ma risorta negli ultimi anni e su argomenti a un tempo appassionati e terra terra. Agli scozzesi si è detto e ripetuto a quali rischi andavano incontro, gli si è distribuito in forti dosi il liquore della paura: non illudetevi di diventare un altro Canada, non potete permettervelo, vi mancano i mezzi. La Scozia non potrà mai essere prospera ed economicamente stabile quanto quel gigantesco Paese dall’altra sponda dell’Atlantico e francamente neanche i nazionalisti hanno preteso di esserlo. I loro argomenti erano più modesti e partivano proprio dal riconoscimento di una certa “inferiorità”.
Non era neppure vero l’altro paragone avanzato dai “lealisti”, quello con la Spagna, che sta per affrontare una prova per molti versi paragonabile con un altro referendum “secessionista”, quello della Catalogna. Lo sbarramento a Barcellona è più solido e più forte che a Edimburgo e soprattutto più appassionato. Ma non è stato mai proposto dai nazionalisti scozzesi. Il loro discorso era e rimane basato soprattutto sulle cifre. Per lungo tempo i poco più di quattro milioni di scozzesi hanno potuto aggrapparsi a qualche “privilegio”, a una specie di sconto sul biglietto della restaurazione del Mercato dopo la fine del periodo di una Gran Bretagna keynesiana, “sociale” anche se non socialista, contrassegnata da uno Stato assistenziale che sui suoi vessilli recava uno slogan impegnativo: “Dalla culla alla tomba”. La Gran Bretagna di Cameron si rifà invece alla restaurazione thatcheriana, all’unisono con quella di Reagan sull’altra sponda dell’Atlantico e poi, nei più difficili tempi di oggi, alle rigidità in nome dell’Europa imposte nella versione teutonica di Angela Merkel.
Se gli scozzesi coltivano nostalgie, è piuttosto per l’epoca che ha visto la Gran Bretagna camminare in sintonia con i Paesi scandinavi, quelli di riforme sussurrate ma impegnative di stampo francamente “socialdemocratico”, con forme di Stato “assistenziale” che funzionarono negli anni della penultima recessione ma paiono indebolite da quando è scoppiata l’ultima, meno drammatica ma durevole e ostica. Uscendo dal linguaggio della nostalgia e degli orgogli nazionali, le similarità delineano altre frontiere e altri collegamenti. I nazionalisti scozzesi hanno perso una battaglia ma non la guerra. Nello stesso anno in cui gli “inglesi” hanno dato vita a una loro “secessione” dall’Europa (con il grande successo nelle elezioni europee), nel Nord della Scozia, nelle isole affacciate verso l’Artico, è nata una “scuola di pensiero” che non esclude neppure, come alternativa, delle strutture di solidarietà con Paesi come la Norvegia. Non si arriverà a tanto perché Londra, anche sotto la leadership di Cameron, è disposta a fare agli scozzesi concessioni importanti. “Privilegi” per i fratelli più poveri.