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La Merkel ha già deposto la scheda nell’urna



Alberto Pasolini Zanelli
Tecnicamente, la campagna elettorale greca non è ancora cominciata. Devono ancora, per esempio, stampare le schede da offrire alle urne. Sul piano politico, però, è cominciata eccome: in Germania. Gli elleni daranno la loro crocetta sul partito prescelto il 25 gennaio; anche la Merkel ha già deposto la scheda nell’urna, senza preoccuparsi affatto che il suo voto fosse segreto. Al contrario. Il suo governo ha già fatto sapere di ritenere “inevitabile” l’uscita di Atene dall’euro se le elezioni le vincerà quel partito Syriza che ha nel programma la “ristrutturazione” del debito greco. Con parole a loro rassicuranti: quello scenario è “controllabile”. E dunque Berlino dà per certo che Atene “manterrà le sue promesse”. Ancora più chiaro il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Scheuble, un “falco” al cui confronto la Cancelliera è una colombella: le elezioni “non cambieranno niente”. Come se, insomma, i greci a votare non ci andassero. Alcuni deputati della Cdu-Csu minacciano addirittura l’“espulsione della Grecia dalla zona euro”.
Ufficialmente queste non si chiamano pressioni, ma è difficile trovare un equivalente eufemistico. La realtà è che siamo tornati alla situazione del 2012. Anche allora l’Europa rischiò di perdere la sua rotellina ellenica e forse rimpiange ancora – almeno l’Europa alla Merkel – di non averla lasciata rotolare via. Rimane attaccata solo perché la Cancelliera si lasciò convincere all’ultimo momento dalle ripetute raccomandazioni di Paesi europei come la Francia e degli Stati Uniti, ma soprattutto delle insistenze della Banca Centrale Europea, che dipingeva il rischio di una depressione continentale immediatamente successiva a quella già aperta nel 2008. Da allora, è vero, la situazione è cambiata. Già nel 2010 la “troika” appena formata aveva cominciato ad imporre alla Grecia l’Austerity di ispirazione tedesca, promettendo sacrifici a breve e una ripresa entro due anni. Invece la Grecia perdette nel solo 2012 quattrocentomila posti di lavoro e da allora ha approfondito il suo declino, senza paragoni in Europa e semmai paragonabile, tenuto conto delle dimensioni, alla Grande Depressione degli Stati Uniti negli anni Trenta. La disoccupazione che avrebbe dovuto rimbalzare a partire dal 2012 continuò invece a crescere e ora oscilla tra il 25 e il 27 per cento. Circa novecentomila occupati su un milione e trecentomila non vedono un salario da più di due anni. Il malcontento, naturalmente, non ha fatto che crescere e già aveva trovato una espressione elettorale un paio d’anni fa, con un forte spostamento di voti dai partiti di governo ai movimenti di protesta, soprattutto di sinistra. Intervenne già allora la Germania con un “invito” molto chiaro ai greci perché tornassero a votare e facessero di meglio. Ubbidirono, ma adesso la loro pazienza deve essersi di nuovo esaurita e nelle elezioni anticipate di questo mese i sondaggi danno probabile la vittoria del più estremo tra i contestatori, il giovane Tsipras, sotto il cui nome si presentò alle elezioni europee anche una lista in Italia. Il partito si chiama Syriza, già arrivato in testa alle Europee, stavolta rischia di andare al governo con l’appoggio di altri due o tre movimenti di protesta. È ha un programma fin troppo chiaro per i gusti dei fedeli al verbo dell’Austerity. Promette di aumentare la spesa e diminuire il debito. Di stanziare 1,3 miliardi di euro in generi alimentari di prima necessità, spese mediche, riallaccio dell’elettricità alle tante famiglie che non possono più permettersela e, soprattutto, di “rinegoziare” il debito nazionale, che oggi costituisce il 175 per cento del Prodotto nazionale lordo. Il tutto con la giustificazione che “è impossibile far pagare i debiti a chi non ha denaro per farlo; si riesce soltanto a impoverirlo ulteriormente, ad approfondire la peggiore depressione della storia greca”. Per la dottrina dell’Austerity è la peggiore delle eresie. Di qui l’allarme che si è diffuso in Europa o almeno nell’Europa del Nord che condivide l’impostazione di Berlino. Ne è un esempio la Repubblica Ceca, il cui premier ha già invocato l’espulsione della Grecia dalla zona euro. Non la pensano così i governi dell’“altra Europa”, dalla Francia in giù, compresa l’Italia, che fanno osservare, senza cercare lo “scontro”, che certe cure esagerate possono avere effetti negativi. Che sono comprensibili le ansie dei mercati finanziari circa la Grecia, ma che quest’ultima è sì teoricamente in grado di pagarli, ma in questo caso non le resta niente per gli investimenti e quindi per la crescita, che sola può risolvere davvero i problemi di due terzi dei Paesi dell’euro. Anche perché le economie europee non determinano più l’andamento dell’economia mondiale. C’è però anche chi sostiene che la situazione è cambiata dal 2012 a oggi in più di un modo: allora la Grecia non poteva assolutamente permettersi di andarsene dall’Europa e la Germania non riteneva di potersi permettere di lasciarla andare. Oggi ambedue le possibilità sono meno impensabili. Ma non per questo meno pericolose.