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Parigi: chi mancava?



Alberto Pasolini Zanelli
Per quattro giorni si sono contate le vittime, al quinto i milioni. I milioni che hanno partecipato personalmente non solo al lutto per i morti della strage dei terroristi islamici a Parigi, ma a una protesta della Francia intera, dell’Europa e del mondo civile. Che hanno pronunciato un “no” che, se vogliamo usare il gergo dei politici, possiamo chiamare unitario. Un messaggio che dovrebbe essere superfluo ma di cui forse c’è bisogno e che è certamente utile, soprattutto se espresso con chiarezza dal milione e mezzo o due milioni di persone che hanno marciato per le vie di Parigi, degli altri due milioni che sono scesi nelle strade nelle altre città di Francia, delle dimostrazioni di spontanea solidarietà in tanti Paesi. Sottolineata, nella città insanguinata dalla violenza, dalla presenza di tanti leader. Vedere Francois Hollande camminare quasi abbracciato ad Angela Merkel e al presidente del Mali e affiancato da rappresentanti dell’Italia, della Gran Bretagna, della Russia e soprattutto, sul piano simbolico, di Israele ebrea e della Palestina araba. Qualcuno ha trovato il modo e il tempo di contare anche le assenze, quelle importanti che era poi soltanto una, evidentemente inattesa visto che ha sollevato reazioni aperte o immusonite, comprensibili ma forse non all’altezza dell’occasione.
Dietro le quinte si è parlato per qualche tempo di Barack Obama, colui che non c’era. Qualcuno ha tacciato il presidente americano di una specie di scortesia o addirittura aridità di sentimenti, altri si sono riallacciati al tradizionale riserbo alla intrinseca timidezza di Obama. Altri ancora hanno frugato nella sua astensione alla ricerca di reconditi significati. Il primo a essere sorpreso potrebbe essere proprio lui, perché la linea degli Usa è stata fin dal primo momento chiarissima, esplicita e anche calorosa e personale nelle parole di cordoglio e di solidarietà che l’uomo della Casa Bianca ha incaricato di porgere e il che il Segretario di Stato John Kerry ha pronunciato in francese, come a voler sottolineare una sorta di identità e di compenetrazione fra i due Paesi. Gli altri c’erano ma sono rimasti sulla cresta dell’onda dell’attenzione. Presto hanno restituito l’occasione ai veri protagonisti: i cittadini francesi, parigini di tutta Parigi al punto che veniva fatto di ripetere le parole con cui un giorno André Malraux nel presentare alla folla Charles De Gaulle: “Paris de tous ses quartiers, de la Porte d’Italie jusq’au rond-point de la Victoire”. Era un’occasione più festosa, quella, ma non interamente estranea a quella di ieri: in entrambe i casi l’ondata emotiva aveva avuto radici in una terra islamica. Era il 1958 e si festeggiava il ritorno al potere del Generale da cui si sperava venisse la soluzione del dramma algerino. Venne a costo dell’indipendenza e con conseguenze non tutte previste all’epoca di quel “divorzio”: non la presenza su suolo francese di cinque o sei milioni di musulmani, molti dei quali proprio provenienti dall’Algeria per vari motivi, arabi e musulmani ma al tempo stesso “pieds noir”, come rientrati en Metropole. Le storie che fanno la Storia non finiscono mai, trasmettono solo, magari trasformandoli, i problemi e le crisi del passato.
Che si possono riassumere appunto in quella cifra: se l’immigrazione “extracomunitaria” è un problema per l’Europa intera, la Francia lo deve affrontare in misura doppia di qualunque altro Paese. Un’eredità coloniale più vasta e differente, più “integrante” di qualunque altra. Assistendo anche di lontano a quello che è stato un rito funebre per i caduti di una “guerra di civiltà”, si rischia di dimenticare che fra tutte le province della cosiddetta Patria europea la Francia è stata finora quella in cui gli immigrati di cultura islamica si sono sentiti meno discriminati e più, in un certo senso almeno, a casa. Il doppio che in Inghilterra, molto di più che in Italia o in Germania. Non che fossero mancati nel frattempo episodi di violenza, ma la tensione è andata crescendo negli ultimi anni non solo per il continuo afflusso di nuovi immigranti ma anche perché essi arrivano in una Europa impoverita dalla recessione economica, inasprita dall’Austerity, coi nervi a fior di pelle. La Francia è il Paese più importante fra quelli in crisi, è stata la prima dal cui suolo è scaturita una reazione politica ed elettorale. Il Front Nationale è già diventato nelle elezioni europee il primo partito di Francia, rischia di diventarlo nella prossima competizione per l’Eliseo. Marine Le Pen potrà diventare la bandiera dell’anti Islam. Per questo, per paura – comprensibile – delle reazioni e delle divisioni che avrebbe potuto suscitare la sua presenza alla grande Marcia in Parigi, la si è esclusa dall’invito. Facendo così salire a due il numero degli assenti importanti. Il più lontano cui si rimprovera di non avere voluto venire da Washington e la più vicina che si è fatto in modo di tenere lontana. Francois Hollande ha dichiarato che “la Francia è in guerra”. Ha parlato come George W. Bush all’indomani dell’11 settembre 2001. Che parlava sull’onda di tremila vittime del terrorismo in un giorno. Ma le conseguenze di certi gesti non si prevedono solamente in base alle cifre.