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Una nuova politica europea di (buon) vicinato?



 Unione europea

Gianfranco Verderame
Nel marzo 2003, in previsione del grande allargamento che sarebbe diventato operativo il 1° maggio dell’anno successivo, nella comunicazione dal titolo “Una nuova cornice per le relazioni con i nostri vicini dell’Est e del Sud” la Commissione europea scriveva: “L’Unione dovrà cogliere l’opportunità offerta dall’allargamento per rafforzare le relazioni con i suoi vicini sulla base di valori condivisi e per evitare che si creino nuove linee di divisione in Europa…L’allargamento dovrà servire a rafforzare le relazioni con la Russia e ad accrescere quelle con Ucraina, Moldavia, Bielorussia e con i paesi del sud del Mediterraneo sulla base di un approccio di lungo periodo che promuova le riforme, lo sviluppo sostenibile e il commercio.” Ed ancora: “L’Unione dovrà promuovere la cooperazione a livello regionale e sub-regionale e l’integrazione come precondizioni essenziali per la stabilità politica….nel nostro spazio condiviso”. Venivano così delineati i lineamenti di quella che sarebbe diventata la Politica Europea di Vicinato.
Dodici anni dopo, nel marzo del 2015, la Commissione scrive “ …Oggi il nostro vicinato è molto  meno stabile di quanto non fosse dieci anni fa. Ad est sfide crescenti per i Paesi del partenariato orientale - dalla crisi in Georgia del 2008 al conflitto in corso in Ucraina - sono poste da una politica estera russa sempre più assertiva…A sud la Siria è sconvolta dalla guerra civile dal 2011….. La Libia è un paese lacerato dai conflitti. Negli ultimi tre anni l’Egitto ha attraversato un complesso processo di cambiamento. Il processo di pace in Medio Oriente è bloccato ed ostilità sono scoppiate in molti teatri…”. Intanto, gli eventi della “primavera araba” hanno prodotto “qualche progresso, come in Tunisia, ma anche accresciuto l’instabilità e le tensioni politiche” nell’area del Mediterraneo.
Ed è nel quadro di questa drammatica divaricazione fra aspettative e realtà che si iscrive la comunicazione congiunta con l’Alto Rappresentante con la quale la Commissione ha recentemente lanciato una vasta consultazione per la revisione della Politica Europea di Vicinato che si concluderà il prossimo 30 giugno.
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Nella sua impostazione originaria, la Politica Europea di Vicinato comprendeva 16 paesi: 6 dell’est europeo (Armenia, Azebaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina), 5 della sponda sud del Mediterraneo (Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia), 4 del Mediterraneo orientale (Israele, Giordania, Libano e Palestina). Nata come un esercizio essenzialmente bilaterale, seppure all’interno di una cornice unica, è stata successivamente completata con un duplice quadro regionale: la Eastern Partnership a nord e la Euro Mediterranean Partenership a sud, che opera attraverso l’Unione per il Mediterraneo. Per il periodo 2014–2020 la dotazione finanziaria della PEV ammonta a 15,4 miliardi di euro.
Sul piano bilaterale il quadro di riferimento è costituito dagli Accordi Associazione con i vari paesi. Il suo campo di azione copre uno spettro estremamente ampio di settori, dallo sviluppo economico al commercio; dalle politiche industriali, agricole e sociali alla tutela dell’ambiente; dalla sicurezza energetica alla ricerca ed innovazione; dalla cultura alle politiche giovanili. Gli specifici obiettivi nei vari settori sono definiti con ciascun paese in piani d’azione (i c.d. Action Plan) nei quali vengono stabilite le priorità che si intende perseguire nel breve-medio periodo (dai 3 ai 5 anni). Nel 2012, a seguito degli eventi delle c.d. “primavere arabe”, la PEV fu rivista nel senso di una più accentuata attenzione ai temi della promozione della democrazia e del pluralismo ed al ruolo della “società civile” nel processo di riforma e di democratizzazione delle rispettive società.  Ai paesi partner venne offerta la prospettiva di un più ampio accesso al mercato europeo in un’area integrata di libero scambio rafforzata da un progressivo avvicinamento delle legislazioni (c.d. Deep and Comprehensive Free Trade Agreement–DCFTA), e di facilitazioni degli scambi interpersonali ed in materia di visti (c.d. Mobility Partnership).
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Ad est, solo Georgia e Moldavia hanno concluso accordi di libero scambio rafforzati, mentre l’attuazione dell’analogo strumento previsto con l’Ucraina dall’Accordo di Associazione è stata differita a fine 2015. A sud negoziati per accordi di libero scambio rafforzato sono in corso con Giordania, Marocco e Tunisia.
Per quanto riguarda la facilitazione degli scambi interpersonali e/o la liberalizzazione dei visti, accordi sono operanti con Armenia, Azerbaijan, Georgia, Moldova ed Ucraina ed in processo di negoziato più o meno avanzato con Giordania, Marocco e Tunisia.
Per varie ragioni il livello della cooperazione con gli altri paesi è molto più limitato.
Ad est è nota la situazione della Bielorussia e del “rapporto critico” dell’Unione con quel paese. La conseguenza è che con la Bielorussia non esiste nemmeno lo strumento di base della PEV, e cioè l’Action Plan. L’Armenia ha recentemente aderito alla Unione Economica Eurasiatica, con conseguenti riflessi sul livello della cooperazione con l’Unione. Con l’Azerbaijan, partner strategico per la sicurezza e la diversificazione energetica dell’Unione, il dialogo è fortemente condizionato dalle regressioni in materia di democrazia, diritti umani e libertà fondamentali.
A sud il rapporto con l’Egitto, nonostante il più volte riaffermato supporto dell’Unione per le riforme, è rimasto “de facto” sospeso per tutto il 2014, e la ripresa che se ne prevede nel 2015 partirà dalla riattivazione dei gruppi di lavoro tecnici, inclusi quelli su democrazia e diritti dell’uomo.  L’Algeria – persistendo nel suo tradizionale atteggiamento di sospetto per l’assunzione di impegni in un quadro che non sia assolutamente paritetico - non ha ancora negoziato un Action Plan, ed è quindi fuori dalla dimensione bilaterale della PEV (partecipa invece a quella regionale attraverso l’UpM). La questione palestinese pesa sul rapporto con Israele e con la Palestina. Praticamente inesistente la cooperazione con la Libia e con la Siria, anch’essi privi di Action Plan.
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Questo quadro dà bene la misura delle differenze di intensità che esistono nel rapporto fra l’Unione ed i suoi vicini del sud e del nord, e spiega l’accento che il documento congiunto Commissione/Alto Rappresentante mette sul concetto della differenziazione come uno dei principali elementi sui quali fondare la revisione della Politica di Vicinato. Mentre si prevede che l’approccio unitario alle due regioni venga mantenuto, si tratterà in sostanza di tenere conto, da una parte, che non tutti i paesi del vicinato nutrono lo stesso interesse a rafforzare la cooperazione con l’Unione, e dall’altra che la stessa Unione potrebbe avere interessi diversificati nel rapporto con i paesi in questione.
Ne deriva che la Politica di Vicinato dovrà, più che in passato, essere strettamente inquadrata nella politica estera complessiva dell’Unione, come espressione del suo interesse primario alla stabilità sulle sue frontiere. Si tratta di una profonda revisione dei presupposti sui quali era inizialmente basata la PEV, che aveva applicato al rapporto con i paesi vicini la stessa logica inclusiva del processo di allargamento appena concluso, del quale aveva in sostanza utilizzato gli strumenti, con la conseguente ambiguità circa la portata effettiva della politica stessa ed i suoi possibili sbocchi finali.
Questa ambiguità ha pesato in misura notevole nel rapporto con i paesi dell’est.
Nella comunicazione della Commissione del marzo 2003, che diede avvio al processo di definizione della PEV, si riconosceva che “l’incentivo alle riforme costituito dalla prospettiva della membership si è rivelato molto forte”, e che l’allargamento “ha rappresentato lo strumento di maggior successo della politica estera dell’Unione”, ma l’obiettivo veniva spostato nel medio periodo, subordinato tra l’altro ad un dibattito sulla definitiva estensione geografica dell’Unione (dibattito che – sia detto per inciso - non può non comportare la definizione, una volta per tutte, della natura stessa dell’Unione, prima ancora che dei suoi confini).
L’esperienza di questi ultimi anni ha confermato che nelle relazioni con i paesi situati nella “marca di confine” tra l’Unione e la Russia, la persistente ambiguità su questo punto può creare tensioni da aspettative non realizzate e da minacce paventate.  L’affermazione contenuta nel documento secondo la quale per il periodo del suo mandato il Presidente della Commissione esclude ogni prospettiva di ulteriori allargamenti dovrebbe fare la necessaria chiarezza a questo proposito.
Nel rapporto con il “vicinato” orientale, l’impostazione originaria della PEV prevedeva un duplice percorso parallelo: quello del rafforzamento del rapporto con la Russia e quello del consolidamento dell’integrazione con i paesi europei dell’ex impero sovietico. Ad un certo punto, sotto la pressione di circostanze diverse e concorrenti, alle quali non sono state estranee le percezioni dei paesi di nuova adesione e il complessivo deterioramento del clima delle relazioni della Russia con l’Occidente, i due percorsi si sono divaricati. La conseguenza è stata che la pressione della crescente assertività della politica estera di una Russia sempre più sospettosa delle intenzioni dell’Occidente si è scaricata in primo luogo proprio sui paesi cerniera alla frontiera orientale dell’Unione.  Oggi la domanda se tutto sia stato fatto per evitarlo non appare né impropria né “eretica”, e si ritrova anche nel documento della Commissione, laddove si introduce il concetto della necessità che nelle relazioni con i propri vicini l’Unione tenga conto anche dei riflessi che ne possano derivare in un quadro più ampio, e cioè quello dei rapporti della stessa Unione con i vicini dei vicini, che “potrà essere necessario associare più strettamente”.
Ovviamente il concetto dei “vicini dei vicini” ha una portata generale. Molti paesi sia dell’est che del sud fronteggiano sfide che provengono spesso dal loro “vicinato”, come quelle del terrorismo, della criminalità transfrontaliera, dell’immigrazione clandestina. Riferito però alla dimensione orientale della PEV, è difficile non vedervi il riflesso della consapevolezza del modo poco equilibrato con cui sono stati gestiti finora i rapporti con il paese dell’ex impero sovietico da una parte, e con la Russia dall’altra.  Si può forse recriminare che questa consapevolezza abbia cominciato a farsi spazio soltanto adesso, quando la situazione è giunta al punto descritto da Ferdinando Salleo nella Lettera Diplomatica n.1122 del 12 maggio, ma il fatto stesso che il concetto sia stato affermato appare significativo. Bisognerà vedere adesso come esso sarà concretamente declinato anche in questo ambito.  Intanto, nella prima valutazione - per altro molto positiva - che ha dato del documento della Commissione il Consiglio, pur facendo proprio il principio, vi ha aggiunto la specificazione che “spetta solo all’Unione ed ai suoi partners decidere come vogliono procedere nelle loro relazioni”. E’ facile prevedere che su questo aspetto il dibattito non è affatto concluso e proseguirà anche nel futuro prevedibile.
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A differenza che i paesi dell’est europeo, l’esclusione di ogni prospettiva di adesione per i paesi del sud del Mediterraneo è iscritta nell’ordine delle cose e negli imperativi della geografia. Ed anche se appare lecito chiedersi se essa non abbia in parte influito sulla modestia dei risultati nei confronti di quei paesi, i problemi per la PEV nell’area non vengono da questo versante.
Le vicissitudini dell’area del Mediterraneo in questi ultimi anni hanno riportato l’Unione all’antico dilemma di come conciliare stabilità e crescita democratica in un contesto che rende spesso non agevole interpretare correttamente i processi sociali e politici in atto e la pluralità degli attori che in essi sono coinvolti.
La complessità del quadro mediterraneo non consente di applicare la stessa logica a paesi e situazioni profondamente diversi. Nella Tunisia priva della rendita delle risorse energetiche, il percorso verso la democrazia che il paese ha coraggiosamente intrapreso richiederà misure di appoggio diverse dalla politica che potrà essere sviluppata nei confronti della ombrosa e diffidente Algeria, che la ricchezza energetica rende più incline ad attuare una politica indipendente rispetto agli altri paesi dell’area che hanno maggiormente bisogno dello sbocco dei mercati europei per i loro prodotti, soprattutto agricoli. Il rapporto con l’Egitto non potrà non tenere conto del peso che il paese potrà esercitare nella definizione degli equilibri nel Mediterraneo e nel complesso scenario medio – orientale. Per la stabilità assicuratagli, tra l’altro, dal prestigio di cui gode la monarchia, il Marocco è fra i paesi dell’area quello con il quale il dialogo e la collaborazione potranno proporsi obiettivi complessivamente più ambiziosi. Con la Libia di oggi è difficile delineare una politica che non sia quella di una concordia nazionale che non è ancora alle viste.
D’altra parte, differenziazione non può significare frammentazione o esclusione. Una più accentuata differenziazione nei rapporti con i vicini del nord e del sud potrebbe tradursi in pratica in una politica molto selettiva ed alla rinuncia da parte dell’Unione ad essere presente proprio nelle situazioni di maggiore criticità. Si tratta, in sostanza, del rischio che una politica di “more for more” per i paesi maggiormente avanzati e che abbiano dimostrato maggiore interesse a rafforzare le relazioni con l’Unione, si traduca in un “less for less” per altri che, per l’una o per l’altra ragione, non siano in condizione di farlo. Applicato alla regione del Mediterraneo ed alle crisi che la percorrono, questo rischio è particolarmente attuale. 
Questo aspetto è comprensibilmente molto presente alla riflessione dei paesi mediterranei dell’Unione, esposti in prima linea all’urto della instabilità nei paesi della sponda sud. In un documento congiunto italo – spagnolo del novembre scorso, sottoscritto anche da Francia, Portogallo, Grecia, Cipro, Malta e Slovenia, e che anticipa molti dei punti che si ritrovano poi nella comunicazione della Commissione, si legge: “ applicando una logica eccessivamente rigida di condizionalità (che è poi l’altro rovescio della medaglia della differenziazione), potremmo non essere in grado di dare risposta alle crisi nella regione del Mediterraneo, dalle quali l’Unione non può pensare di rimanere immune.”
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Nell’insieme, l’impressione che si ricava da questo avvio di riflessione sui lineamenti della possibile riforma della Politica Europea di Vicinato è quello di un approccio più realistico, nel quale l’entusiasmo dell’“embrassons nous” nato, specie per i paesi dell’est, dalla prospettiva di un nuovo e più cooperativo rapporto tra le diverse componenti della realtà europea sembra aver ceduto il passo ad una più disincantata presa d’atto della complessità della realtà circostante, con la necessità che ne consegue di adattare politiche e strumenti alle evoluzioni delle situazioni con le quali ci si trova volta per volta confrontati. Anche l’accento che viene posto sulla necessità di accrescere il senso di condivisione degli obiettivi della PEV da parte dei paesi interessati (la c.d. “ownership”) e della migliore definizione dei campi di intervento, che dalla quasi onnicomprensività delle origini si propone adesso di concentrare in particolare sullo sviluppo economico, sulla “ governance” e sulla sicurezza nelle sue varie declinazioni, si inquadra in questa consapevolezza.
Con l’importanza attribuita alla complementarietà della PEV con la politica estera complessiva dell’Unione, i nuovi indirizzi possono aprire la strada anche ad una ulteriore crescita di autorevolezza all’interno della Commissione della figura dell’Alto Rappresentante nel compito che ad essa attribuisce il Trattato di Lisbona, di assicurare la coerenza tra i vari settori della Commissione che concorrono all’azione esterna dell’Unione. Al tempo stesso, essi chiamano direttamente in causa le responsabilità degli Stati membri che spesso perseguono agende diversificate, quando non divergenti, fra di loro. Ma questo è un altro capitolo.
Un’ultima osservazione con riferimento al documento italo – spagnolo di cui si è detto in precedenza. Anche per l’ampiezza delle adesioni che ha ricevuto, l’iniziativa ha confermato che la concertazione fra paesi like–minded su una determinata questione può portare a risultati molto significativi: il documento della Commissione ne riprende, infatti, in larga misura l’impostazione e le linee di fondo. Una buona base, quindi, sulla quale i paesi mediterranei dell’Unione potranno costruire i seguiti della loro azione su un tema che li riguarda molto da vicino.


                                                                                                                    
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