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A vincere è stato l’unico uomo politico Usa che non può gareggiare per la Casa Bianca.



Alberto Pasolini Zanelli
Gli americani sono tuffati in queste ore nel mare magnum della loro campagna elettorale, che si è aperta l’estate scorsa e non si chiuderà prima del novembre di quest’anno. Proprio in queste ore vanno alle urne ben quattordici Stati per una “tappa” che potrà o non potrà essere decisiva. Qualcuno, intanto, ha messo nel cassetto una vittoria elettorale molto più immediata e destinata ad avere ripercussioni anche nell’arena politica di Washington. E a vincere è stato l’unico uomo politico Usa che non può gareggiare per la Casa Bianca. Perché ci abita da quasi otto anni e dunque non è rieleggibile. Il suo nome, naturalmente, è Barack Obama.
Però ha vinto, per corrispondenza, in una consultazione elettorale singolare perché si è svolta in un Paese lontano e “nemico” degli Stati Uniti, soprattutto nella visione dei “falchi” che lo considerano irrecuperabile. Si tratta dell’Iran degli ayatollah, l’avversario che molti a Washington temono più di ogni altro nel Medio Oriente, anche nella confraternita di tagliagola che passa sotto il nome di Stato Islamico e che l’Iran, pure islamico, combatte con più decisione, forse, degli altri Paesi dell’area, una parte dei quali considerati alleati dell’Occidente. L’Iran si trova piuttosto nel campo opposto, tanto è vero che è stato oggetto fino a pochi mesi fa di sanzioni economiche severe, volte a impedire che il regime di Teheran entrasse a far parte del club nucleare dandosi armi con un potenziale aggressivo. Per quasi tutto il tempo dell’Amministrazione Obama uno dei principali temi di dibattito interno è stato il progetto, portato avanti dal Segretario di Stato John Kerry, di “superare” le sanzioni in cambio di un accordo solenne e credibile che contenga la rinuncia alla “atomica degli ayatollah” in cambio di un allentamento dell’assedio economico di Washington. È stato difficile arrivare a un testo, più difficile ottenerne la ratifica dei due principali contraenti, difficilissimo ottenere “segnali” che indichino la volontà dei contraenti di farlo vivere. La “battaglia” del Congresso Usa si è “risolta” temporaneamente con una ratifica “imposta” a Obama ed esposta a una cancellazione se il nuovo presidente sarà un repubblicano. L’incoraggiamento più importante, per ora, poteva venire solo dall’Iran e cioè dalle sue urne. Nei giorni scorsi si sono svolte laggiù due elezioni: una per il Parlamento, che non ha però nemmeno l’ombra dei poteri delle Camere e Senati occidentali in quanto sottoposto al controllo e sostanzialmente al veto di un altro organo riservato a un’assemblea “clericale” che ha un diritto di veto su quasi tutte le decisioni veramente importanti e che a sua volta esegue le direttive di un ayatollah in capo, cioè del successore di Khomeini, autore ed “eroe” della Rivoluzione del 1979 che rovesciò il regime filoamericano dello scià Reza Pahlavi per sostituirlo con una dittatura integralista. Di quegli anni turbolenti è ancora vivo il ricordo di alcuni episodi: l’assalto all’ambasciata Usa a Teheran, il sequestro dei diplomatici, il tentativo fallito dell’allora presidente Carter di liberarli, una prigionia durata oltre un anno, la “scarcerazione” puntuale al minuto nel momento della salita alla Casa Bianca di Ronald Reagan.
È da allora che l’Iran è dall’altra parte della barricata rispetto agli Stati Uniti, in particolare nel Medio Oriente. Il “golpe” dei preti islamici fece saltare, infatti, un “sistema” in cui Teheran, in un certo senso alleato di Israele, era parte di un “cordone di sicurezza” sul mondo arabo. Un capovolgimento che ravvivò rancori più antichi, che risalivano all’abbattimento, con l’aiuto americano e britannico, dell’unico regime più o meno democratico del Medio Oriente subito dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. A Teheran c’era un primo ministro eletto, Mohammad Mossadeq, laico e nazionalista, fautore della nazionalizzazione delle risorse petrolifere. Decenni e decenni e di rapporti oscillanti fra Usa e Iran, che sembravano non aggiustabili fino a che qualcosa cominciò a muoversi in Iran: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Hassan Rohani, colui che mise in moto le trattative per la revisione delle sanzioni in fattiva collaborazione con Kerry. Rohani era e rimane sottoposto ai veti dell’autorità clericale incarnata in Khamenei, ma se è riuscito a far passare quel trattato è anche perché l’opinione pubblica lo appoggia. La doppia elezione dei giorni scorsi ha infatti visto i moderati conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento (e addirittura la totalità dei distretti elettorali nella città di Teheran). La nuova “Camera”, ha dichiarato un portavoce “appoggerà il governo e la sua politica ragionevole e razionale”. Intenzioni che rimarrebbero tali se contemporaneamente non si fosse votato anche per il “Parlamento religioso”, che resta in maggioranza integralista ma che dovrebbe vedere indebolito il suo potere di veto nei confronti di una graduale “riconciliazione” con l’Occidente a cominciare dagli Stati Uniti.