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Preoccupazione per le elezioni americane




(Ospitiamo questo articolo dell'ambasciatore Salleo che ha lasciato un grande ricordo a Washington)
 
Ferdinando Salleo


Man mano che si avvicina il traguardo di luglio delle conventions dei partiti e la lista dei contendenti si assottiglia, la stagione delle consultazioni “primarie” per designare i candidati alle elezioni presidenziali vede crescere negli Stati Uniti una preoccupazione, diffusa tra il ceto politico e gli osservatori, per l’atmosfera di aspra contrapposizione tra i due schieramenti e per l’ostilità personale che mostrano i candidati. Questi partecipano con aggressività maggiore che nel passato a quella che dovrebbe essere una leale, anche se serrata, competizione nel nome dell’ideale condiviso di democrazia rappresentativa caratteristico della tradizione americana.
In casa repubblicana sono “tutti contro tutti”, senza esclusione di colpi. Il fenomeno Trump ha scompaginato ogni regola legittimando l’insulto senza alcun riguardo per la conoscenza dei problemi, tenendosi anzi il candidato alla larga da fatti e cifre per ricorrere al più becero sbraitare, persino annunciando provvedimenti bizzarramente estremi in caso di conquista della Casa Bianca. Perdente nello Iowa e vincitore in misura non esaltante nel New Hampshire e nel Nevada, ma trionfatore nel South Carolina e primo anche nel “super Tuesday”, Donald Trump apporta al patrimonio del conservatorismo repubblicano una congerie disordinata di proposizioni sguaiate piuttosto che un vero programma, un tessuto di proclami stravaganti e irreali, una strana miscela in cui l’esaltazione dell’individualismo (la self reliance del dogma americano) in chiave anti-stato e anti-politica convive, paradossalmente, con l’appello al ripristino della grandezza degli Stati Uniti. Non manca la feroce opposizione all’immigrazione fino all’espulsione di massa di milioni di persone e all’erezione di un muro al confine con il Messico che il candidato promette di costringere i messicani a pagare, per finire con il divieto d’ingresso ai musulmani. La sua chiave resta sfrontata, la presentazione volgare e clownistica in un partito conservatore che era stato deriso in passato perché ritenuto elitario e perbenista. “The Donald” è nazional-populista in un partito internazionalista; protezionista in un partito libero-scambista; aspramente critico dei magnati di Wall Street pur essendo egli un miliardario erede di imprese, anche se forse non tanto ricco quanto pretende (il New York Times non crede alle cifre che Trump sventola); avido costruttore in spregio all’ambiente e soprattutto al buon gusto; malgrado qualche bancarotta, si vuole imprenditore prestato alla politica che ha invece frequentato assiduamente; difensore infine dei valori tradizionali nonostante tre o più mogli e la proprietà di varie bische. E così via, le cronache quotidiane danno di lui un quadro dettagliato.
Tant’è, nel generale discredito che colpisce la classe politica, Donald Trump è in testa tra i Repubblicani. Ritiratisi ormai o polverizzati i pochi moderati, due soli competitori sono rimasti in lizza a distanza, i senatori cubano-americani Ted Cruz e Marco Rubio, che lo rimbeccano con foga, anch’essi in chiave populista: più estremista il primo, con toni meno aggressivi il secondo attorno al quale si aggrega parte delle élites repubblicane esautorate, spinte dal timore che Trump, vinte le primarie, porti in novembre all’inevitabile sconfitta il partito che fu di Lincoln e di Eisenhower.
Meno folkloristica, ma non meno drammatica, è la lotta tra i Democratici, solo due. Hillary Clinton, è stata First Lady per i due mandati di Bill - finiti, come ricordiamo, nello scandalo e nel discredito di un presidente carismatico, amato e tuttora popolare - eletta senatore di New York, poi candidata sconfitta alle primarie contro Obama nel 2008, da quest’ultimo infine nominata Segretario di Stato per un solo mandato. Contro un personaggio di tal genere, corre l’anziano senatore del remoto Vermont, il “socialdemocratico” Bernie Sanders, rappresentante monocorde di un’austera sinistra di stile scandinavo, buon polemista, unico a rifuggire dall’attacco e dall’insulto personale. Fuori dagli schemi e privo di carisma, Bernie seduce, però, molti giovani unendo alla critica al grande capitale e alle banche programmi e schemi sociali alieni alla tradizione americana, a noi più familiari come l’assistenza sanitaria per tutti e speciali provvidenze per l’educazione e la ricerca che configurano, agli occhi dei conservatori, un’indebita invasione di campo da parte del governo federale.
Dopo un inizio modesto nelle due primarie iniziali, Hillary ha trionfato nel South Carolina e si è decisamente affermata nel “super Tuesday”, forte del consenso della minoranza afro-americana e del voto femminile. Battuta in breccia nella pubblica opinione per i sospetti di scarsa trasparenza alla guida del Dipartimento di Stato dove adoperava la posta elettronica personale anziché quella del governo, con la conseguenza che mancano agli atti milioni di files, anche classificati, compresi i documenti riguardanti l’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore americano, Hillary è poi accusata di scarsa trasparenza nel maneggio del denaro per aver accumulato tesori nella fondazione che condivide con il marito - compresi, accanto ai versamenti di banche e industriali americani, anche generosi finanziamenti provenienti da paesi stranieri (si include l’Arabia Saudita…) - e oggi anche di aver ricevuto enormi compensi per discorsi il cui contenuto ha rifiutato di svelare, tenuti a porte chiuse ai dirigenti delle grandi banche che sono oggetto di attacchi violenti da parte dell’estrema destra, dai famosi Tea Party e, da sinistra, dai movimenti del genere di Occupy Wall Street. Una puntigliosa ricostruzione del massiccio bombardamento americano in Libia, del modo con cui Hillary giunse alla decisione e delle conseguenze che seguirono l’uccisione di Gheddafi, tra cui lo svuotamento dei suoi immensi arsenali a beneficio dei terroristi, armi moderne oggi diffuse dalla Siria alla Nigeria, e l’aumento geometrico del tribalismo e della guerriglia, mette ora in risalto il ruolo personale avuto e il temperamento irruento e impulsivo dell’allora Segretario di Stato cui fa riscontro adesso l’operosa prudenza del successore John Kerry.
La crisi mondiale cominciata proprio qui poco meno di dieci anni fa, le crescenti diseguaglianze sociali e il senso del declino della potenza americana nel mondo costituiscono l’humus del diffuso scontento. Assorbito dall’economia americana lo stimolo finanziario elargito subito da Washington e ottenuta l’indipendenza energetica grazie al risparmio e agli idrocarburi da scisti bituminosi, la ripresa economica è certo migliore che in Europa, ma è percepita nella pubblica opinione come insufficiente e soprattutto asimmetrica perché privilegia i più ricchi: tra l’altro, all’aumento dell’occupazione, tornata ai vecchi livelli, non corrisponde quello della massa salariale cosicché, di fatto, è calata la qualità dei nuovi posti di lavoro con conseguenze sulla struttura sociale. La crisi ha mortificato la classe media che si sente esclusa, le diseguaglianze sono molto cresciute e incidono sui programmi sociali, la polemica contro le banche e Wall Street si acuisce, le infrastrutture pubbliche sono consunte, l’invasione sfrenata dei finanziamenti ai candidati semina dubbi sull’indipendenza dei concorrenti, le divergenze sulle questioni etiche infiammano gli animi e sfociano talora nella violenza privata, non priva a volte di risorgenti accenti razziali. I fattori etico-sociali e religiosi, infatti, tagliano anch’essi attraverso lo spettro politico: dall’assistenza pubblica per le famiglie povere all’aborto e alla violenza usata spesso ai medici che lo praticano, dal possesso personale di armi malgrado i ricorrenti fatti di sangue ai diffusi timori di risorgente razzismo, dal geloso potere delle congregazioni evangeliche nel sud e nel sud-ovest alle lobby che si formano aggressive attorno a interessi particolari.
La politica estera non porta voti, si dice, ed è quindi quasi assente dal dibattito: tuttavia, quel che gli elettori sembrano chiedere e i candidati promettere in maniera confusa e velleitaria, il ripristino cioè dell’assetto interno dell’America, è in realtà la necessaria premessa per la riconfigurazione del ruolo mondiale degli Stati Uniti. Il paradosso risiede nell’aperta contraddizione tra questa domanda e le virulente critiche anti-sistema che accomunano nell’ostilità l’Esecutivo e il Legislativo.
Il trasversalismo politico che appare nei candidati di entrambi i partiti sembra fatto poi per confondere ulteriormente un elettorato già disorientato e inquieto. I Repubblicani tradizionali non si riconoscono nelle proposte di Trump e nei proclami di Cruz e Rubio in cui non ritrovano le amate dottrine conservatrici e l’ottimismo di Reagan. La tradizione dei Democratici è a disagio di fronte alla disinvoltura di Hillary e non apprezza il richiamo “socialista” di Sanders.
I partiti americani sono sempre stati molto diversi da quelli europei: non hanno vere strutture permanenti o uffici studi che preparino i programmi – i candidati si servono di enti e think tank politicamente e ideologicamente affini o creati per l’occasione – e hanno piuttosto forma di club o consorterie, organizzandosi in previsione delle elezioni, soprattutto in funzione dei candidati alla presidenza, al Congresso o ai governi statali. Avevano tuttavia conservato sinora un importante potere di aggregazione del consenso e di orientamento quando le urne si avvicinavano. Completando un percorso iniziato da qualche anno, i partiti americani stanno invece andando in dissolvenza, si avvicinano all’irrilevanza più che al rinnovamento, soppiantati dallo spontaneismo tribunizio e dagli slogan dei movimenti nazional-populisti. Non è però, come sappiamo, un fenomeno limitato agli Stati Uniti.
Tuttavia, sinora, gli americani non hanno disertato il processo politico: l’affluenza alle urne e ai caucus (riunioni di partito al termine delle quali si vota) non è crollata, la campagna attrae molti giovani, attivisti o solo incuriositi, alle manifestazioni eccitate e spesso frenetiche, uno spettacolo che sembra contraddire la tradizione dei dibattiti televisivi relativamente composti e dei comizi elettorali coloriti, ma razionali e propositivi. Il discorso politico realista, il dialogo aperto e il vantato pragmatismo americano sembrano un ricordo di ieri.
È un panorama sconfortante in cui la fiducia nei candidati e nella loro credibilità, l’immenso flusso di denaro (almeno Trump dice di autofinanziarsi…) dopo che la Corte Suprema ha abrogato i limiti quantitativi e le garanzie di trasparenza che vigevano, la stravaganza dei propositi della maggior parte dei contendenti e la scarsa serietà del reale fondamento delle loro idee convivono scomodamente in queste strane primarie. Senza parlare dell’acredine che ciascuno mostra verso gli altri, quelli del proprio partito in particolare, e degli insulti beffardi cui tutti ricorrono nei confronti dei rivali.
Sui candidati si è rovesciata l’espressione di un diffuso scontento che va oltre i dati socio-economici, quindi è più indicativo perché intimamente sentito, specie tra i giovani inquieti e disorientati, e colpisce anzitutto la classe politica. La prolungata aspra battaglia del Congresso dominato dai Repubblicani che ricorrono a mezzi estremi contro Obama ha paralizzato, infatti, l’attività del governo e dello Stato: il presidente degli Stati Uniti ora esercita i poteri esecutivi quasi solo per decreto. Accanto alle istituzioni, divenute disfunzionali quando la Casa Bianca, il Congresso e persino la Corte Suprema battagliano senza quartiere, gli elettori hanno dinanzi agli occhi un panorama politico in cui la critica degenera nell’asprezza e la reciproca delegittimazione nel rifiuto del dialogo.
Se il voto delle primarie sembrava inizialmente soprattutto un “voto contro”, quello del “super Tuesday” conferma anche una domanda politica che si dispiega su due versanti, forse complementari pur se potenzialmente contraddittori: cambiamento e credibilità. Di contro alla generale sfiducia nella classe politica si profila infatti - paradossalmente, ma non tanto in un sistema presidenziale in cui il popolo depone il potere ai piedi dell’eletto diversamente dalle democrazie mediate, parlamentari - una domanda “di politica” che traspare, molto sentita tra i giovani, quella di un governo efficace e autorevole, un segnale che reca in filigrana un sentimento di speranza e di fiducia nell’America e nel suo destino che si traduce nella domanda di leadership e di un paese forte e ordinato. In questo senso, il messaggio che queste primarie lanciano implicito è l’auspicio di una Casa Bianca che eserciti una ferma guida del Paese nella consapevolezza dell’unicità, del cosiddetto “eccezionalismo” e della missione nella Storia del “grande paese tra due oceani”.
Il populismo umorale o ideologico, malattia che l’America condivide con l’Europa, dilaga intanto da ambo le parti e nutre apertamente scontento e sfiducia verso il panorama politico, tra Tea Party e Occupy Wall Street, cristiani evangelici e fautori dei diritti sociali, conservatori ideologici e progressisti sognatori. La marea nazional-populista dilaga, infatti, negli Stati Uniti assumendo persino carattere ricattatorio, soprattutto nelle primarie: i movimenti minacciano apertamente i candidati del proprio partito di spostare i voti sui concorrenti se non si allineano prontamente alle loro posizioni estreme. Hanno già mostrato la loro forza nelle passate elezioni legislative sostituendo rispettate personalità con improvvisati tribuni.
Può apparire paradossale, ma nelle società avanzate sembra di vedere un parallelo con la trasformazione che avvertiamo nello scenario internazionale dove gli Stati sono incalzati da enti non statuali, spesso più potenti e meglio armati della maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, certo in grado di interagire con quelli. L’autorevolezza congiunta che la comunità internazionale credeva di essersi data a New York con le Nazioni Unite può funzionare solo se i principali attori raggiungono un consenso, legittimato ex post all’ONU: il concerto delle Potenze di felice memoria potrebbe ritrovare ora un possibile ruolo decisivo a condizione che la consapevolezza del dovere comune prevalga sulla tattica episodica e sulle alleanze casuali. L’alternativa su cui spesso si trova un consenso nelle crisi locali, è invece per ora quella di una navigazione a vista.
Così, nelle nazioni, specie in molte di quelle avanzate, le società post-moderne si diffondono in tanti rivoli e aggregazioni differenti che tendono a esautorare l’autorità centrale dello Stato e a sostituirvisi: stentano quindi a riconoscersi nei partiti. Non sarà l’avanguardia della “società liquida” di Zygmunt Bauman, certo è però che la fine delle ideologie, delle “grandi narrazioni” del secolo scorso, come lo stesso schema multipolare che prevale dopo i cinquant’anni di quello bipolare, il contrasto tra la globalizzazione vittoriosa che cancella le frontiere e abolisce la censura, da un lato e, dall’altro, la frammentazione dello scenario nelle crisi locali gestite sovente da gruppi informi e da élites irresponsabili - un contrasto che si riflette poi sul piano interno nelle metafore raffigurate dai problemi personali o familiari rispetto a quelli nazionali o addirittura globali – sono tutti fenomeni che influenzano il funzionamento dei sistemi politici e sociali.
Comunque vadano le primarie adesso e le elezioni a novembre, si avverte già il senso generale degli umori diffusi che attraversano l’elettorato americano, così variegato nella geografia e diverso nella struttura socio-economica. Le primarie riservano spesso sorprese. Tuttavia, la sfida di novembre per la Casa Bianca sembrerebbe restringersi a Hillary Clinton e Donald Trump, almeno per il momento, anche se l’establishment repubblicano cerca affannosamente un candidato credibile da contrapporgli alla Convenzione di Cleveland. A parte Rubio, su posizioni estreme anche lui pur se meno appariscenti ma che comunque il GOP preferisce a Cruz, violento e imprevedibile, oppure la comparsa di un’improbabile scoperta dell’ultimo momento, si parla anche della discesa in campo dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, ma come indipendente o con un nuovo partito, un’esperienza finora rivelatasi sempre perdente persino per Theodore Roosevelt.
Qualunque sia il risultato delle presidenziali, saranno fondamentali per la governabilità le elezioni per la Camera e per un terzo del Senato: su queste la delusione popolare si sfogherà nella medesima aspra contrapposizione politico-ideologica che vediamo oggi e che rischia di produrre un Congresso non migliore dell’attuale. Il pericolo che si profila, infatti, è che guadagni la Casa Bianca il “meno peggio” dei contendenti con il risultato che si affiderà di fatto al Congresso, diviso e anch’esso impopolare, le sorti della principale potenza di un mondo senza centro: sarà la condivisione dei poteri, o piuttosto la paralisi dell’Esecutivo, l’incubo storico dei sistemi presidenziali?
Se Atene piange, Sparta non ride. Se gli americani sono preoccupati per le prospettive politiche e istituzionali del loro Paese, dovremmo esserlo anche noi. L’eclissi dell’America nello scenario globale, il ritorno all’isolazionismo che vedemmo tra le due guerre mondiali, il rifugiarsi della maggior potenza nel volterriano giardino di Candido per la preminenza data agli assetti interni, il distacco, infine, dagli organismi multilaterali che pur l’America ha creato nel dopoguerra accrescerebbero il disordine mondiale. Portatori tradizionali dei valori che condividiamo, gli Stati Uniti, nonostante errori, esitazioni ed eccessi, restano un attore indispensabile della comunità delle nazioni, la potenza militare che ha garantito sinora l’equilibrio mondiale assumendosene la maggiore responsabilità, il socio di maggioranza dell’Alleanza occidentale. L’America non è solo la maggiore economia del mondo, malgrado l’alterna rincorsa cinese, possiede anche un perdurante primato tecnologico ed educativo, ha il potenziale che offre una cultura avanzata, non solo quella popolare che viene a volte frivolamente derisa, ma soprattutto quello che si esprime nella capacità di coniugare la cultura e la tecnologia in forme che influenzano il progresso della vita delle società avanzate.
Con molto ottimismo, si dice che la personalità di un leader si forma nell’esercizio delle sue alte funzioni. Tuttavia, un presidente americano eletto come “il meno peggio” difficilmente avrebbe l’autorità etica necessaria per guidare efficacemente la superpotenza nel mondo, né gli si riconoscerebbe in casa propria il cosiddetto bully pulpit che contiene l’appello al popolo caratteristico del sistema presidenziale, specie poi se fosse incapacitato o menomato dalla lotta senza quartiere di un parlamento ostile di segno contrario. Il Congresso possiede, infatti, una fondamentale funzione legislativa e il controllo del bilancio, un ruolo dominante nelle nomine ai vertici di una struttura di Stato che si rinnova ogni quattro anni e sarebbe attratta o intimidita dalla contestazione. In queste condizioni, il Presidente non avrebbe poi l’autorevolezza, il prestigio, la capacità anche morale che la diplomazia internazionale richiede per mobilitare il peso che gli Stati Uniti possiedono, per esercitare credibilmente nelle crisi l’alterna missione di persuasione e di pressione. Non dimentichiamo infine che il Congresso detiene gelosamente il potere di dichiarare la guerra, come appresero Wilson e Roosevelt.
Il panorama mondiale è segnato dal disordine internazionale, scriveva Ennio Di Nolfo. La Cina, seconda potenza globale, rafforza il proprio potenziale militare, navale e spaziale, avanza sorniona in Asia Centrale e nel Mar Cinese meridionale, dove costruisce isole artificiali, vere basi militari, e minaccia i Paesi minori del Pacifico con pretese territoriali. Semina inquietudine in Corea del Sud e in Giappone anche per il comportamento ambiguo verso l’avventura nucleare di Pyongyang. Pechino nasconde poi il PIL cedente e le contraddizioni insite nelle crescenti diseguaglianze generate all’interno del capitalismo del partito-Stato, nella trasformazione demografica, in quella sociale e nell’inurbamento che generano una forte domanda interna; cela infine nella conclamata serenità gli squilibri del suo assetto valutario e il crollo delle borse.
Nonostante il declino economico e demografico, il crollo del rublo e del petrolio (la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia) il calo della borsa, l’inquietudine sociale e politica, le sanzioni per la crisi ucraina - queste ultime causa solo parziale del declino - la Russia, seconda potenza nucleare pur con un potenziale strategico oggi di fatto inutile, ma proprietaria di enormi forze armate convenzionali, dotata di una catena di comando verticistica che risiede al Cremlino, vive l’esaltazione nazionalista che nutre la popolarità di Putin e, ignorando il lento assedio della Cina ai confini, azzarda in ogni teatro l’impiego dei grandi strumenti tattici di cui dispone nell’obiettivo primario del riconoscimento dello status di potenza globale cui ritiene di aver diritto, del sogno di ripristinare la parità strategica con gli Stati Uniti che l’URSS aveva. Le potenze emergenti stentano ad affermare un vero ruolo internazionale per il quale non possiedono la cultura politica, né l’ormai lontana necessaria tradizione.
L’Europa vive giorni tragicamente sconnessi tra la crescita molle da cui non riesce a emergere, i problemi politici che condivide purtroppo con l’America, l’assedio dei disperati alle frontiere, l’obiettiva divisione interna che la strazia nelle crisi e nel dissenso dalla Grecia al Regno Unito, e il travaglio che contrappone le opposte grettezza e faciloneria che animano tanti dei suoi litigiosi membri. Ha difficoltà a guardare a un vero orizzonte mondiale, al compito che le avevano assegnato i Padri Fondatori.
Con una Casa Bianca indebolita sarebbe ben difficile immaginare quale equilibrio mondiale possa formarsi e con quali protagonisti, sperabilmente più lungimiranti che imbaldanziti, qualora Washington non ne fosse parte traente e determinante. In queste circostanze e facendo astrazione dalle rispettive turbolenze interne, possiamo solo guardare con la petrarchesca “paventosa speme” alle elezioni americane perché alla fine si riesca a pervenire a una collaborazione internazionale di lungo respiro, politicamente strategica in cui, legati da valori e tradizioni comuni, gli Stati Uniti e l’Unione, ma non soli, operassero come forza aggregante di un concerto mondiale nella missione storica di un nuovo ordine internazionale. Tuttavia, nelle prospettive tutt’altro che improbabili cui dobbiamo, nonostante tutto, guardare, la diplomazia transatlantica e quella europea per prima sarebbero chiamate dalla loro stessa storia e dalle circostanze incombenti a un compito ben difficile, alla prova empirica della conclamata vitalità della società internazionale sopravvissuta alla fine della Guerra Fredda.


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