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Una gara di impopolarità: Clinton vs Trump



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Alberto Pasolini Zanelli
Gli “esperti” elettorali americani già preparavano un funerale: quello di Donald Trump. Un sondaggio dopo l’altro nelle ultime due settimane lo davano in declino costante e accelerato e soprattutto sempre più lontano da una trionfante Hillary Clinton. Un verdetto irrevocabile a due mesi dalle elezioni presidenziali, tanto sicuro che il grande pubblico a quei sondaggi aveva smesso di guardare.
Poi è arrivato l’ultimo, autorevolissimo, firmato Cnn e i primi lettori sono stati tentati di capovolgere il foglio che, letto così, sembrava proprio sbagliato. Invece è autentico e dà Donald Trump in testa. Di un margine minimo ma, se la tendenza verrà confermata, autore di un importante recupero, fruitore di una inversione di tendenza. Magari immeritata, ma che importa in questa campagna elettorale contrassegnata soprattutto dalle gaffe e dalle bugie; autore Trump soprattutto delle prime, manovratrice l’altra delle “distorsioni” di verità.
E invece. Mentre Trump si dedicava a una “doppietta” destinata, secondo gli esperti, a essere controproducente (un viaggio a Città del Messico per incontrarsi con il presidente di un Paese con cui egli è apparentemente in guerra a causa della sua posizione sull’immigrazione e la visita a un centro di mobilitazione religiosa e politica dei Neri americani) i computer elaboravano i dati di quei sondaggi: Trump 45 per cento, Clinton 43. Il candidato repubblicano ha avuto un sussulto di gioia e ha tweettato un grosso “Grazie”. Quella democratica si è precipitata a trovare conforto in un altro sondaggio condotto dalla Washington Post e su dati parziali che la vede invece in vantaggio di quattro punti.
In realtà queste intenzioni di voto raccontano un’altra storia, che non è quella di una improvvisa ascesa di Trump bensì quella di un crollo della sua avversaria. Riguardiamo i dati: col 45 per cento non si arriva alla Casa Bianca e il “recupero” del repubblicano è di dimensioni minime e non cambierebbe molto se non fosse invece per la frana della sua avversaria. Una chiave numerica dello spostamento deve includere a questo punto gli altri elettori, quelli che hanno rifiutato di scegliere fra i due e si sono orientati sugli altri due candidati, chiaramente di “disturbo”, il libertario Gay Johnson con il 7 per cento, l’ecologista Jill Stein con il 2 per cento. Va notato subito che quest’ultima può avere “rubato” una manciata di voti alla Clinton, ma che soprattutto Johnson avrà portato via gran parte dei suoi suffragi a Trump, cui è politicamente vicino. Lo spostamento, dunque, c’è ma costituito soprattutto da un rifiuto della candidata democratica.
Non è una sorpresa. Un altro sondaggio quasi contemporaneo consisteva in una domanda, rivolta a proposito di ciascuno fra i due candidati maggiori: “Vi piace Donald Trump?” e “Vi piace Hillary Clinton?”. Le risposte sono state “Non mi piace Trump” al 60 per cento, “Non mi piace Hillary Clinton” al 59 per cento.
Non è una sorpresa, allora. Lo sapevano tutti o quasi che questa campagna elettorale americana è una gara di impopolarità, che ha principalmente due motivi. Il primo, ovvio, è la scelta dei candidati: entrambi i partiti non potevano nominarne di peggiori. Trump per i suoi modi, per la sua faccia, per le sue gaffe; le stesse che gli hanno permesso di conquistare la candidatura “stracciando” di sorpresa tutti i leader storici del Partito repubblicano, ma che lo tormentano nella “finale” che ora che si è aperta con la scelta del rivale. I democratici, invece, soffrono del problema opposto: la nomina di Hillary era scontata, come prosecuzione di un ciclo dinastico o almeno familiare. Lei stessa l’ha espresso in una formula felice anche se demagogica e scontata: “Io sono la figlia di una madre e la madre di una figlia”. Niente padri, niente mariti, niente figli: non male per le militanti femministe. Ma in realtà Hillary è alle porte della Casa Bianca perché è “moglie di un presidente e madre, questo sì, di una figlia che anche lei vorrà un giorno diventare presidente”. I mezzi li ha, soprattutto finanziari, ma anche l’interno establishment, in modo più scoperto i mass media. La cui faziosità è stata espressa paradossalmente in una vignetta. Che mostra tre alte montagne sulle cui vette compaiono altrettante notizie: “Lo scandalo di Hillary a Bengasi”, “Lo scandalo delle e-mail di Hillary Clinton”, “Scandalo della Fondazione Clinton” e sotto sull’erba una dozzina abbondante di reporter della Washington Post muniti di lenti di ingrandimento e in ginocchio per scrutare un mucchietto di terra su cui c’è scritto “Trump”. È un’esagerazione, certo: ma che cosa non lo è in questa campagna elettorale Usa? Che potrebbe concludersi, contrariamente ai dubbi che insorgono oggi, con una doppia vittoria di Hillary Clinton: nella corsa alla Casa Bianca e nella gara di impopolarità.