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La California vuol fare da sola?


Alberto Pasolini Zanelli

Alla Casa Bianca sta per entrare l’uomo che ha promesso di costruire un muro gigantesco per tenere fuori i messicani e i loro ospiti in transito. Una promessa difficile e costosa, i più la definiscono improbabile, ma gode, almeno come idea, dell’appoggio della maggioranza degli americani. Altri, già non pochi, ne delineano le possibili conseguenze negative. La più pesante è, per fortuna, anche la meno probabile, però fa chiasso. Prospetta la costruzione di un altro muro, questa volta non da Est a Ovest, lungo un grande fiume per separare da Est a Ovest gli Stati Uniti dal resto dell’America, bensì per tagliarla da Nord a Sud, su una cresta di montagna: quella Sierra Nevada che protegge la California e potrebbe isolarla. Sono pochi a propugnare apertamente una secessione, non si sa quanti ne siano tentati nell’intimo, qualcuno sta già cercando il nome. Li trovano nell’attualità: Califrexit, alla britannica, abbreviabile in Calexit o estendibile, quasi rilassato, Caleavefornia. Il governatore Jerry Brown, che ha detto testualmente: “Forse dovremo costruire un muro attorno alla California per difenderci dal resto di questo Paese”. Ha provocato reazioni così vive da sentirsi obbligato ad aggiungere che stava, anche, scherzando. Ma è riuscito a delineare in poche parole e in termini geografici la forma dell’eventuale nuova nazione, dalla Sierra Nevada al Pacifico e a mettere un sigillo ufficiale sulla rivelazione di una realtà: la California non è solo un “posto” ma è anche una realtà politica propria, separata e quindi separabile. Meno per la sua terra, molto di più per i suoi abitanti. Si è già costituito un raggruppamento politico, dal nome Yes California che vuole mettere la secessione ai voti in un referendum nel 2019.

Nelle recentissime elezioni presidenziali, che hanno visto il trionfo inatteso di Donald Trump, i californiani hanno plebiscitato Hillary Clinton con il 61,5 per cento dei voti, relegando il presidente eletto al 33 per cento. Non solo, ma hanno confermato schiaccianti maggioranze democratiche in Senato, alla Camera e negli enti locali, hanno votato a grande maggioranza per legalizzare la marijuana, hanno approvato misure di clemenza per i criminali non violenti, hanno aumentato le tasse ai ricchi, hanno investito per migliorare le scuole e restaurare l’educazione bilingue. Il capo della polizia di Los Angeles ha annunciato che i suoi agenti rifiuteranno di collaborare se il governo federale prenderà misure per deportare gli immigrati illegali. Il leader del Senato, Kevin de Leòn, ha dichiarato: “Non siamo mai stati tanto orgogliosi di essere californiani. Con un margine di diversi milioni abbiamo plebiscitariamente respinto politiche motivate da risentimento, da impulsi risentiti, bigotti e misogini. La California è un rifugio per la giustizia e per persone di ogni razza, età e aspirazioni senza distinzioni per l’aspetto fisico, per dove uno vive, quale lingua parla o chi ama”.

La California non è sempre stata così. Nel suo territorio il genocidio dei “pellerosse” è stato fra i peggiori. Nel tardo Ottocento lo Stato ha approvato una legge che escludeva gli immigrati cinesi e durante la seconda guerra mondiale ha incarcerato in campi di concentramento migliaia di cittadini di origine giapponese. Ancora negli anni della Grande Depressione gli immigranti scappati dalla siccità dell’Oklahoma sono stati accolti da cartelli con la scritta “solo per bianchi” all’ingresso dei ristoranti. Pochi anni prima del Duemila fu approvata una legge che proibiva allo Stato di mettere servizi pubblici a disposizione di immigranti illegali. Ma poi c’è stato un capovolgimento di sentimenti e dunque di decreti. Con un motivo centralissimo: l’evoluzione etnica. I “bianchi” (cioè gli anglosassoni e gli altri europei) non sono più la maggioranza dei californiani. Anzi non sono più nemmeno il gruppo etnico più numeroso. Sono stati superati dagli ispanici, che sono il 39 per cento contro il 38. Dato quasi altrettanto significativo, è calata la presenza dei “neri”, che sono solo il 6 per cento, mentre quelli di origine asiatica sono arrivati al 15. Los Angeles ha un sindaco di lingua spagnola, San Francisco è ormai una città asiatica. Gente cui la California ha molto da offrire: la sua fortissima agricoltura dipende dall’opera dei frontalieri, che attraversano la frontiera messicana ma vengono da un po’ tutta l’America Latina. La California ha oggi la sesta economia del mondo, superando fra l’altro la Francia, l’India e la Russia. Uno dei massimi investitori più recenti ha promesso di finanziare una campagna “per far diventare la California una nazione, pur rimanendo legata agli Stati Uniti d’America”. Ma molti sono anche coloro che amerebbero una vera secessione, se pacifica e l’adozione di sistemi di garanzie e sistemi di modello europeo o almeno canadese.

Pasolini.zanelli@gmail.com