Translate

A liberare Aleppo sono stati i russi e non gli americani



Alberto Pasolini Zanelli
Il Paradosso si leva in queste ore sulle rovine fumanti di Aleppo. L’assedio è finito, i tagliagole dell’Isis sono scappati, un passo importante è stato compiuto verso la pace in Siria. Tutto il mondo dovrebbe esultare, in prima fila l’America che ha sempre esaltato il proprio ruolo di protettore – a volte anche ostetrica – della democrazia in tutte le parti del mondo. Anche in Siria i “moderati” guardavano a Washington, caricando addosso a Barack Obama una responsabilità più pesante delle sue capacità nelle settimane finali della sua presidenza.
Ma a Washington non si vedono segni di giubilo. Se ci sono, sono delicatamente segreti nel contesto di reazioni ufficiali imbarazzate e discordi. Forse gli elettori Usa, se dipendesse da loro, riuscirebbero a creare una atmosfera più serena anche se non proprio esultante. Ma gli elettori, uomini e donne dell’America Media, non dispongono di mezzi di comunicazione autorevoli e forse non hanno neppure il tempo da dedicare alla millenaria Aleppo, presi come sono dalle ansie o dalle tristezze della vita quotidiana in un’era contrassegnata dal malumore nel ceto medio. Il megafono ce l’hanno le élite, che si esprimono attraverso i mass media e che, quando parlano della Siria in queste ore, spargono attorno imbarazzi, malinconie e un vago sentore di sconfitta. Se gli armati iracheni avessero riconquistato Mosul con l’aiuto dell’America si capterebbe in giro qualche sincera ondata di giubilo pienamente legittimo. Ma Mosul non è ancora caduta, ovvero “liberata”. Aleppo sì, ma chiunque abbia avuto una pazienza durata cinque anni sulle vicende mediorientali? ha la fondata impressione che a “liberare” Aleppo siano stati i russi e non gli americani e che se il destino di quella città martoriata dovesse essere imitato dalla Siria intera, la conseguenza sul bilancio Usa sarebbe una vaga sensazione di sconfitta. Perché Washington e Mosca hanno seguito nei riguardi della guerra siriana due percorsi sempre più differenti e distanti. “Pace” per gli uni, passava e passa attraverso la sconfitta dei rivoluzionari “democratici armati” e un importante successo del regime di Damasco, .legittimo in tutti i cori internazionali anche se dispotico e non certo “liberale”. Analoga la differenza fra i bilanci delle due Potenze patrone. Washington ha cercato costantemente in questi cinque anni una soluzione negoziata ma basata sulla resa ed emigrazione, del presidente Assad, possibile solo se i "democratici” siriani avessero continuato ad espandere il proprio potere nel Paese e non avessero avuto concorrenti estremisti e integralisti. Un’attesa che continuava a prolungarsi mentre i rapporti di forze si trasformavano in guerra fra due estremismi. Una strategia derivata dalla “ideologia” di Obama e portata avanti con lucida pazienza dal Segretario di Stato John Kerry, pellegrino instancabile in tutto il pianeta di una causa nobile e sempre più debole sul terreno. Kerry è ancora in giro e probabilmente non rientrerà a Washington prima del giorno scritto nella Costituzione, che lo rimanderà alla vita privata, pensionato anch’egli come Obama.
Il suo successore è stato appena scelto da Trump assieme a tutta la nuova casta dirigente, repubblicana invece che democratica. È estremamente improbabile che egli riesca a strappare qualche concessione in un campo o nell’altro ed è anzi più verosimile, oggi come oggi, che a un novellino privo di esistenza democratica tocchi in buona sorte chiudere la pagina più triste e sanguinosa dell’intera era succeduta alla fine della Guerra Fredda. Ma è proprio per questo che almeno una parte dell’opposizione democratica indebolita e inasprita dalla sconfitta inattesa nelle elezioni presidenziali sembra ereditare una intransigenza rabbiosa nei confronti dell’amministrazione Trump, che ricalca la faziosità pregiudiziale della opposizione repubblicana negli otto anni della presidenza Obama. Nel campo della politica estera questa presa di posizione particolarmente marcata e personalizzata nel “no” pregiudiziale alle scelte di Tramp, siano le molte discutibili, o le poche promettenti.
E adesso hanno un altro nome, comprensibilmente inatteso e anche inquietante: Rex Tilloerson.Proco noto nell’ambito politico, modellino nella diplomazia, egli è da tempo un riconosciuto protagonista nel capo economico. Attualmente boss della Exxon Mobil, un executive particolarmente abile e “stagionato”, manager di una delle più grosse aziende del mondo. Ma l’inesperienza gliela potrebbero anche perdonare, a lui e non a Trump che si è circondato di “estranei” all’arte di governare (tranne per quanto riguarda i militari, da lui prediletti e inseriti in posti chiave non solo militari. Ma Tilloerson ha in mano un atout che è anche un bersaglio per l’opposizione. Come finanziere specializzato nel campo petrolifero, egli ha avuto molti contatti finanziari con Mosca, con cui ha concluso una serie di mega accordi che sono valsi miliardi alla sua azienda e per lui l’“Ordine russo di amicizia” e conseguentemente l’amicizia con Vladimir Putin. Coerentemente egli si è sempre opposto alle sanzioni contro la Russia imposte da Obama. Neanche il suo predecessore Kerry aveva osato tanto. E dal prossimo 20 gennaio il Segretario di Stato porterà con sé un legame prezioso ma vulnerabile con lo “zar” del Paese che fu coprotagonista della Guerra Fredda e che a tutt’oggi è il principale concorrente degli Usa nel campo militare e diplomatico. Una combinazione ideale per chi cerchi un nuovo equilibrio nel Medio Oriente che preveda per la prima volta un ruolo per il Cremlino. Ma per adesso la maggioranza dei democratici e dell’establishment politico-militare esprime a piena voce tutta la sua nostalgia non tanto per Obama quanto per Hillary Clinton, che anche in occasione di uno dei dibattiti elettorali si vantò di avere “messo nel sacco Putin e lo rifarei da presidente”. Una promessa che a quanto pare non le portò voti ma che anzi indusse l’estrema destra ad accusarla di “avere causato una delle più gravi sconfitte nella storia di questo Paese”. È solo uno dei motivi, ma è il risonante, per cui la liberazione di Aleppo dai tagliagole non può essere un successo contemporaneamente per la Russia e per l’America e per i due fronti contrapposti politicamente nei prossimi quattro anni di presidenza e presenza di Trump a Washington.