Translate

Non è finita la guerra



Alberto Pasolini Zanelli
Tutti ormai si sono resi conto che la battaglia di Aleppo si è davvero conclusa. Ma molti cominciano ad accorgersi che non è finita la guerra, quella di cui Aleppo è stata la più famosa e sanguinosa battaglia e che non si ferma però necessariamente ai confini della Siria. Della fine di quella battaglia gran parte del pianeta esulta o almeno prova sollievo, in particolare l’Occidente, più esposto alle sue conseguenze e più sensibile, prima di tutto, alle sofferenze umane che ne hanno costellato il corso inquieto e complesso. Senza precedenti per la lunghezza: Aleppo ha superato Verdun e anche Stalingrado, cui ha assomigliato di più per il carattere di assedio. Verdun non ebbe dei veri vincitori, Stalingrado sì, che in parte sono gli stessi di oggi: i russi. Ma anche i loro alleati, probabilmente occasionali, geograficamente e storicamente più prossimi come l’Iran o addirittura sul terreno come la Siria. E che sono decisi adesso a sfruttare il successo completandolo e costruendo, nella misura del possibile, una pace nella vittoria. Quello che si è riunito subito dopo la resa del nemico e l’evacuazione dei superstiti è stato un minicongresso di Vienna, duecento anni dopo e con la spartizione dei frutti. Immediati e vitali per Assad, per oltre cinque anni con le spalle al muro ad opera di una coalizione di nemici contemporaneamente nemici l’uno dell’altro e con differenti “protettori”.
Se Putin si era sempre schierato a favore del regime di Damasco, la Turchia aveva cercato invece soprattutto di difendersi dalla spinta emancipatoria dei curdi verso una patria negata da un secolo. Erdogan aveva appoggiato inizialmente i ribelli, rischiando una rottura con Mosca, ma da qualche tempo c’è invece l’abbraccio in un’alleanza difficile suggellata dai timori di Ankara per i recenti successi militari dei “secessionisti” del Kurdistan non limitati alla Siria disarticolata ma in rilancio anche in Paesi vicini in cui sono sopravvissuti come minoranze vittime di un’ennesima pace sbagliata, quella del 1919.
Quanto all’Iran, la sua “guerra” è da gran tempo con i Paesi e governi sunniti dell’area e poi sempre di più con le espressioni jihadiste di queste ultimi, dal Califfato Isis al risorgente Al Qaida. I frutti maggiori, comunque, potrebbero o dovrebbero toccare alla Russia, che Putin ha presentato fin dall’inizio come protettore dei leader “legittimi” contro il tumulto delle ribellioni incoraggiate se non addirittura fomentate dall’Occidente “emancipatore”, con un particolare impegno dell’America, culminato in Siria in un conflitto internazionalizzato da aiuti politici, finanziari e più o meno militari. Dalla fine, almeno temporanea, della battaglia di Aleppo è nata l’ipotesi di un nuovo tripartito dei vincitori che Putin cerca di formare e che sarebbe il risultato peggiore per l’America, ideologa e gerente di una “primavera araba” ormai da tempo relegata a nobile ma sterile nostalgia. Lo smacco per Washington è reso più visibile dalla coincidenza con una campagna elettorale arroventata e in alcun modo conclusa con il cambio di potere e l’imminente consacrazione di Donald Trump alla Casa Bianca. Obama è stato a lungo spinto verso un intervento pieno. Ha oscillato memore delle sventurate esperienze irachene e ora viene catalogato non solo fra gli sconfitti ma anche, in qualche modo, fra i colpevoli. E in certi aspetti addirittura “linciato” dai repubblicani. Non tanto da Trump, che conduce tra l’altro un suo gioco con il leader russo, quanto da altri esponenti del partito, i “superfalchi” non tanto militari quanto “ideologi”, che non gli perdonano a non essersi deciso a un intervento militare diretto. Per esempio proteggendo i “ribelli” con la proclamazione di una “no fly zone”, distruggendo, per cominciare, l’intera aviazione siriana o/e rendendo inusabili gli aeroporti in modo da prevenire l’entrata in campo della Russia. Misure che sarebbero equivalse alla mutilazione dell’arma principale del governo di Damasco e avrebbero potuto, o dovuto, assicurare la vittoria delle “opposizioni” compresa l’Isis, insediata ad Aleppo dopo aver conquistato Palmira e che tuttora controlla Raqqa e vaste fasce della Siria e dell’Irak.
Obama, pur oscillando, rifiutò questa strategia totale. Trump non si è pronunciato e formalmente non si pronuncerà prima di ascendere alla Casa Bianca. E prima, forse, avrà una “franca spiegazione” con Putin. Senza l’intenzione di riaccendere la Guerra Fredda. E poi Obama non è stato forse così completamente “colomba”. Dati ufficiali confermano, per esempio, che l’America ha esportato l’anno scorso armi per 40 miliardi di dollari, 37 dei quali nel Medio Oriente ai Paesi di marca sunnita.
Pasolini.zanelli@gmail.com