Translate

Diane Rehm celebrata dal Washington Post

 

Il Washington Post le ha dedicato l'apertura in prima pagina con tanto di fotografia. Diane Rehm e' un'icona della radio americana. Ma non solo: il suo show che va in onda da decenni, e' ritrasmesso da oltre duecento stazioni negli Stati Uniti e nel mondo e totalizza piu' di due milioni e mezzo di ascoltatori.

L'interesse dimostrato dal quotidiano della Capitale americana sta non solo nel fatto che Diane Rehm tra poco compira' gli ottanta e dal prossimo anno lascera' la conduzione del suo programma.

Ma anche perche' questa grande professionista del mondo dei media americani si e' fatta paladina di un movimento che ha come scopo il suicidio assistito dei malati terminali.

Tutto nasce dall'esperienza vissuta con il marito ammalato di Parkinson e immobilizzato in una casa di cura. Al rifiuto del medico di praticargli una morte indolore, John decise, d'accordo con la moglie, di sospendere l'assunzione di cibo e acqua. La sua agonia e' durata dieci giorni prima che spirasse.

Diane Rehm e' nota anche per la sua voce roca che contrasta con l'impostazione perfetta di cui godono tutti quelli che alla radio lavorano professionalmente.

Ammalata di ' spasmodic dysphonia' Diane Rehm e' passata da uno specialista ad un altro senza risultati, ma anzi aggravando lo stato della sua voce gia' precaria.

Poi, come racconta in un suo libro, “Finding My Voice”, incontro' un giovane medico che le fece iniezioni di botulino nelle corde vocali, arrestando l'aggravarsi della malattia e consentendole di restare al microfono.

Diane Rehm nel suo show ha ospitato i massimi protagonisti della vita politica americana. La sua storia personale e' quella di una ragazza che non aveva i soldi per andare al college e si diplomo' in dattilografia con un record di 120 battute al minuto. Come segretaria conobbe un avvocato che lavorava per il governo e sono rimasti insieme per 54 anni.

Diane ha stuoli di amici ma anche legioni di antipatizzanti per via del suo carattere spigoloso che non fa sconti ad alcuno.

Ne sanno qualcosa quelli che provano a fare i furbi in sede di intervista senza rispondere alle sue domande.

Piu' di dieci anni fa, insieme al carissimo amico Giovanni Lani, ci siamo inventati lo "Urbino Press Award", un premio internazionale sostenuto dal creatore di moda Guidi.

Questo premio vuole mettere in risalto il successo e la professionalita' di un giornalista americano sia della carta stampata che della TV e digitale.

Quando si tratto' di scegliere il primo candidato la mia scelta cadde su Diane Rehm che inauguro' le celebrazioni annuali di questo award con "l'incoronazione" nel palazzo ducale di Urbino ricevuta da figuranti in costume rinascimentale.

Il caratteraccio di Diane venne fuori quando, per un disguido della sua banca locale, il premio di diecimila dollari tardo' ad esserle accreditato. Ovviamente a farne le spese fu il sottoscritto  nella convinzione che si trattasse del solito inghippo all'italiana. Poi tutto si tranquilizzo' anche se ancora attendo un biglietto di scuse.

Ma a Diane tutto si perdona perche' e' troppo brava e troppo bella.

How the GOP’s dishonesty led to the rise of Donald Trump and Ted Cruz


To understand why the current conservative crack-up so confounds the Republican establishment, you have to recognize that the party is facing two separate but simultaneous revolts: one led by Ted Cruz, the other by Donald Trump.
The first is well described by E.J. Dionne Jr. in his important new book, “Why the Right Went Wrong.” For six decades, he explains, conservatives promised their voters that they were going to roll back big government. In the 1950s and early ’60s, they ran against the New Deal (Social Security). Then they railed against the Great Society (Medicare). Today it is Obamacare.
But they never actually did anything. Despite nominating Goldwater and electing Nixon, Reagan and two Bushes, despite a congressional revolution led by Newt Gingrich, these programs endured, and new ones were created.
The simple reason for this is that while Americans might oppose the welfare state in theory, in practice they like it. And the bulk of government spending is on the middle class, not the poor. Social Security and Medicare take up more than twice as much of the federal budget as all non-defense discretionary spending . One middle-class tax exemption — for employer-based health care — costs the federal government more than three times the total for the food stamp program.
Whatever the reality, Republicans kept promising something to their base but never delivered. This has led to what Dionne calls the “great betrayal.” Party activists are enraged, feel hoodwinked and view those in Washington as a bunch of corrupt compromisers. They want someone who will finally deliver on the promise of repeal and rollback.
Enter Cruz. How did a first-term senator, despised within his party both in Washington and Texas, get so far so fast? By promising to take on the party elites and finally throttle big government. Cruz has said that he will repeal Obamacare, abolish the IRS and propose a constitutional amendment to balance the budget — which would mean hundreds of billions of dollars in spending cuts.
Trump’s supporters, on the other hand, are old-fashioned economic liberals. In a powerful analysis, drawing on recent survey data from the Rand Corp., Michael Tesler shows that the Trump voter is very different from the Cruz voter. “Cruz outperforms Trump by about 15 percentage points among the most economically conservative Republicans,” he writes. “But Cruz loses to Trump by over 30 points among the quarter of Republicans who hold progressive positions on health care, taxes, the minimum wage and unions.” Trump is well aware of this fact, which explains why he has said repeatedly he won’t touch Social Security or Medicare, spoke fondly of the Canadian single-payer system, denounces high chief executive salaries, promises to build infrastructure and opposes free-trade deals.
Trump’s voters reflect an entirely different revolt. Since the 1960s, some members of the United States’ white middle and working classes have felt uncomfortable with the changes afoot in the country. They were uneasy with the social revolutions of the 1960s, dismayed by black protests and urban violence, and enraged by the increasing tide of immigrants, many of them Hispanic. In recent years, they have expressed hostility toward Muslims. It is this group of Americans — many of them registered Democrats and independents — who make up the core of support for Trump. (Obviously there are overlaps between the two candidates’ supporters, but the divergences are striking.)
In his analysis, Tesler shows that, statistically, “Trump performs best among Americans who express more resentment toward African Americans and immigrants and who tend to evaluate whites more favorably than minority groups.” The New York Times’s Nate Cohn points out that Trump’s support geographically is almost the opposite of that of the last major populist businessman to run for president, Ross Perot. Perot did well in the West and New England, but poorly in the South and industrial North. Trump’s support follows a different but familiar pattern. Cohn writes: “It is similar to a map of the tendency toward racism by region.” To be clear, many people back Trump for reasons entirely unrelated to race, religion or ethnicity, but the correlations shown by scholars are striking.
Could these revolts have been prevented? Perhaps, if the Republican Party had been honest with its voters and explained that the welfare state was here to stay, that free markets need government regulation, and that the empowerment of minorities and women was inevitable and beneficial. Its role was to manage these changes so that they develop organically, are not excessive and preserve enduring American values. But that is the role for a party that is genuinely conservative, rather than radical.

Carly Fiorina, assatanata contro Hyllary



 Carly Fiorina unleashes a litany of zingers against Hillary Clinton at Fox News debate
Alberto Pasolini Zanelli
Il 2016 resterà forse nella storia americana come il grande anno delle donne. Non solo perché ci promette almeno il 50 per cento delle probabilità di portarci in regalo il primo presidente femminile nella storia, ma anche perché non è solo una donna (in questo caso ovviamente Hillary Clinton) a guidare l’elenco dei candidati più forti, bensì perché ce ne sono altre, in entrambi i partiti, che conducono o subiscono una campagna elettorale centrata in buona parte sulla “guerra dei sessi”, esasperata nei toni, nel vocabolario, nelle indiscrezioni, nella tempra combattente delle signore e, forse la novità più “piccante” di tutte, un’esplosione di antifemminismo, maschile e anche femminile. Questa raffica, o concerto se si preferisce, si inaugurò con una serie di gaffes, anche grossolane, di un candidato esplicito come Donald Trump, ma è culminato nelle ultime ore in una “guerra intestina” all’interno del gentil sesso. L’ultimo episodio, finora, è un duello fra due candidate alla Casa Bianca. Una democratica e di primissima fila, l’altra repubblicana e classificata nei sondaggi molto vicina all’ultimo posto. Carly Fiorina ha aperto così il suo ultimo intervento in un dibattito: “Come tutti voi anch’io sono arrabbiata”. Poi ha spiegato un perché alquanto originale: “Ma non arrabbiata come quell’altra donna in gara. Io a differenza di lei sto volentieri con mio marito. Non faccio come la moglie di quel Bill, non mi tiro dietro in una gara per la Casa Bianca degli scandaletti da adulteri”.
In realtà Carly Fiorina aveva motivi suoi per essere di malumore: applicando un “regolamento” senza precedenti e assai discutibile, la rete televisiva che ha organizzato l’ultimo dibattito ha deciso di limitare il numero dei candidati secondo le quotazioni dei sondaggi e di relegare gli ultimi in un orario e un tavolino a parte: “Quello dei piccoli”. Ma il caratterino irritabile di Carly Fioritina si era già mostrato prima ed è del resto coerente con la sua non banale biografia, che comprende una vertiginosa carriera nel mondo degli affari, forse massima nella storia americana, una altrettanto clamorosa caduta, precedute entrambe da capitoli eccentrici di geografia. Carly Fiorina, per cominciare, non si chiama così. Sangue italiano nelle vene non ne ha: il padre è di origine inglese, la mamma tedesca. Il nome dal suono italico, però, si combina con una esperienza culturale, questa autentica. Per sette anni la “fiorina” ha vissuto in Italia, completandovi una parte dei suoi studi e vivendovi con il suo primo marito. E precisamente a Bologna, in un appartamento di una delle strade dal nome più tradizionalmente bolognese: via San Petronio Vecchio, il nome del Patrono. Lui ci ha fatto l’università, lei l’equivalente del liceo, ha studiato l’italiano e contemporaneamente ha insegnato l’inglese privatamente. Fra l’altro, a un piccolo industriale che le ha insegnato il gusto dell’imprenditoria. Ha imparato molto bene, a quanto pare, perché tornata in America si è lanciata in una carriera senza precedenti: assunta come impiegata in una grande azienda di computer, in qualche anno è salita vertiginosamente a diventarne il presidente. Ce la chiamarono perché risanasse il bilancio e lei ci riuscì. A costo, però, di licenziare trentamila dipendenti. Forse esagerò, perché poco dopo licenziarono lei. Che, intrepida, si lanciò nella carriera politica, naturalmente dalla parte degli imprenditori e dunque dei repubblicani. Ci era nata, del resto. Suo padre era collaboratore ed amico del presidente Nixon, che presumibilmente lo aveva aiutato nella carriera giudiziaria: fu lui a condurre la campagna per l’impeachment di Bill Clinton, che quasi riuscì e contribuì a consolidare gli attuali rancori fra le due famiglie, oltre che partiti. Un’altra avventura di Carly fu più esotica: accompagnò papà, che fu invitato nel Ghana per scriverne e spiegarne la Costituzione. Imparò anche ad apprezzare “la cadenza delle canzoni musulmane”. Fece anche l’attrice, interpretando addirittura il ruolo shakespeariano di Giulietta.
Aveva già mostrato un caratterino che non permise di definire come sorpresa la sua candidatura alla Casa Bianca. E neppure i suoi toni. Candidata nel partito più a destra, Carly ci si è collocata subito all’ala estrema. In politica estera è un “falco” che non cede in nulla a Trump o al suo principale rivale Ted Cruz. Pare cercare accuratamente le occasioni per scagliare frecce contro Obama, dal Trattato con l’Iran, alla supposta “morbidezza” del presidente nei confronti di Putin: “Prometto che con il presidente russo non ci parlerò fino a quando non avrò riportato alla sua massima forza la nostra Sesta Flotta. E bombarda di critiche anche il Pentagono perché lasciò cadere ed escludere dalla carriera per un suo problemino giudiziario il generale David Petraeus, “un esempio fulgido della classe dei guerrieri”. Figuriamoci se ha paura dei prossimi dibattiti, sia che debba affrontare un uomo esplicito quanto lei, sia se riuscisse – ma è improbabile – ad entrare in finale e riaccapigliarsi con Hillary Clinton.

Dal Tanga al burka: archeologia in Italia e bischerate mondiali.



La visita del Presidente dell'Iran vista dai Musei Capitolini

In Italia è nuovamente scoppiato il finimondo in campo archeologico e museale. Come per i bronzi di Riace dove avevano dato la responsabilità ai custodi delle sale per lo sconcio della trasformazione dei Bronzi dei guerrieri in due improbabili trans, ora per la visita a Roma del Presidente iraniano Hassan Rouhani con la "copertura" delle statue nude, alle quali è stato imposto un burka di compensato, la colpa non è dei vertici dello Stato, Primo ministro e Ministro per la Cultura (Renzi e Franceschini) ma -dicono loro- di mezze maniche della burocrazia che avevano evidentemente (?) le mani libere per far fare all'Italia un'altra figuraccia mondiale.

Che ci sia un piano segreto governativo per fare chiasso mediatico culturale a costo zero su tutti i mass-media del globo ? Dovrebbero dare un Cavalierato della Repubblica a chi ha tanto amor patrio !

Dario Seglie, Torino, Italy

 


Addio levigata, marmorea Venere Capitolina ammirata per secoli in Campidoglio nei Musei Capitolini. Alcuni severi scatoloni di compensato dipinti di bianco hanno nascosto alla vista del presidente iraniano Hassan Rouhani quel capolavoro, copia romana dell'originale di Prassitele.

Avrà successo il vertice di Berlino tra Merkel e Renzi?


Guido Colomba

La risposta è positiva per due ragioni. La cancelliera tedesca sta subendo un attacco forte e protratto di Washington come dimostra il caso Volkswagen. Un attacco che, con lo shale gas e il crollo del prezzo del petrolio, ha reso vulnerabile i preziosi mercati di esportazione tedesca in Russia e non solo. La spinta verso est si è fermata con l'aggravante dei Brics in chiara difficoltà e in preda alla guerra delle valute. Non vi è dubbio che anche il problema degli immigrati, aggravato dall'azione terroristica dell'Isis, sta indebolendo la leadership della Merkel in tutto il Nord Europa tanto da scuotere l'impianto di Schengen. La seconda ragione risiede nell'endorsement che Angela Merkel ha fin qui accordato a Matteo Renzi.  A Berlino sanno benissimo che un euro a due velocità non è fattibile e rischierebbe di creare il panico sistemico che proprio il bail-in vuole esorcizzare. Draghi è stato molto chiaro ed ha lasciato intendere ai vertici di Berlino che non è il caso di giocare con il fuoco. Ecco perchè Renzi va a Berlino forte dell'accordo preventivo sulle sofferenze bancarie raggiunto a Bruxelles da Padoan. I mercati per ora non hanno gradito (Borse in ribasso anche oggi) questo accordo perchè hanno capito che ogni falla aperta sul fronte italiano è un pericolo per tutta Europa visto che l'esposizione sui derivati è molto più alta nelle principali banche europee. L'azione politica di Renzi offre, per le istituzioni europee, un triplice margine di vantaggio poichè (a) riesce a frenare i populismi euro-scettici in Italia e in Sud Europa, (b) ha avviato concretamente le prime riforme e (c) rappresenta la "front line" più affidabile per l'immigrazione. Ed è significativo che i principali opinionisti italiani siano invece assai negativi e critichino apertamente la polemica avviata nei giorni scorsi da Renzi verso la burocrazia di Bruxelles controllata dalla Germania. Come se il fallimento della politica economica europea, dopo otto anni di crisi, non stia rischiando di provocare l'implosione europea. Una polemica accecante. Addirittura, sui media italiani, si è proceduto ad esaltare il ruolo di Angela Merkel "l'unico vero statista europeo" (re: Giavazzi, Corriere della Sera 28/1/16)). Dimenticando che proprio la Germania ha impedito per oltre tre anni alla Bce guidata da Draghi di adottare il "QE" della Fed a favore dell'economia reale e dell'occupazione. Un tema richiamato continuamente dagli economisti statunitensi e alla base dei contrasti con la Casa Bianca (basta leggere i testi relativi alle riunioni G8 e G20). Dunque, il problema non è costituito dal presunto "complotto" della speculazione contro le banche italiane ma quello, più documentato, di quanti si sono allineati ad altre potenti lobby estere. Certo, l'accordo tra Padoan e la Ue appare complesso sul piano tecnico. Il costo per ottenere la garanzia dello Stato è condizionato ai livelli del mercato. Ma vi è un caposaldo basato sulle imminenti misure del Cdm per abbreviare normativamente i tempi di recupero dei crediti (la cui media oggi è di otto anni). La via maestra per far ripartire le cartolarizzazioni e per rendere operativa, dopo anni di attesa, la polizza su 89 miliardi di sofferenze bancarie a rischio. Una svolta epocale sui lacci e laccioli che affliggono l'Italia.