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Veracruz #7 Concorso Ippico


Brexit, il grande bluff


Guido Colonba

Tutti hanno bleffato. La Gran Bretagna innanzitutto che punta ad ottenere condizioni migliori dalla Ue guardando allo "schema Norvegia". L'Unione europea che, nel vertice dei 27, ha sostenuto il dominio della Germania: (a) ha respinto l'idea di un rafforzamento politico dell'Europa mantenendo il pieno controllo al Consiglio dei capi di governo e relegando la Commissione di Bruxelles a mero organo esecutivo; (b) ha dato tempo a Londra in attesa del successore di Cameron. Altro che emergenza; (c) ha escluso di fatto un mutamento nella politica di austerity. I media hanno fatto da apripista di questo scenario seminando il terrore nell'opinione pubblica. La speculazione internazionale, con l’ausilio degli algoritmi automatici, ha avuto gioco facile. Ha accolto questo "cadeau" intervenendo sui mercati azionari (quelli obbligazionari sono protetti dalla Bce) anticipando la correzione legata al forte calo degli utili aziendali (specie per le banche). Berlino ha chiaramente puntato al mantenimento dello “status quo” al fine di consolidare i vantaggi fin qui acquisiti testimoniati dall’enorme avanzo delle partite correnti pari all’8,5% del prodotto interno lordo in violazione delle regole europee sugli squilibri macroeconomici eccessivi. Dulcis in fundo. La cancelliera Angela Merkel ha ribadito il "no" alle richieste di Renzi per mettere in sicurezza le banche e tutelare i risparmiatori italiani. Matteo Renzi ha risposto a muso duro in una conferenza stampa internazionale molto affollata. Ha ricordato che: (a) nel 2003 sono state violate le regole europee da Francia e Germania consentendo di superare il tetto del 3% del deficit (con il pieno consenso del governo Berlusconi); (b) Berlino ha iniettato, dopo il 2008, 243 miliardi di euro a favore delle proprie banche in difficoltà; (c) l'Italia chiede la piena applicazione del trattato europeo laddove prevede interventi derogatori a tutela dei risparmiatori. Non è mancata la staffilata di politica interna quando Renzi ha ricordato che "i tre governi che mi hanno preceduto (Berlusconi, Monti e Letta) non sono intervenuti a sostegno delle banche come hanno fatto gli altri paesi europei... Ora le regole sono cambiate". Nel frattempo l'economista Luigi Zingales continua a ricordare la lezione americana quando, nel 2007-2008, Casa Bianca e Fed sono intervenuti direttamente nel capitale delle banche ottenendo un risultato positivo che è andato a vantaggio dei contribuenti Usa. Perchè non farlo anche in Italia con "rapidità e decisione"? I fatti parlano chiaro. Vi sono 204 miliardi di crediti deteriorati (NPL) prezzati a bilancio in media al 40% mentre il mercato ritiene che valgano solo il 20%. Con una iniezione di 40 miliardi garantiti dallo Stato si risolve il problema. Ma la speculazione internazionale, da un lato, non vuole rinunciare a questo grosso boccone e, dall'altro, con il crollo dei prezzi di borsa spera di acquisire a prezzi stracciati alcune banche italiane ben consolidate sul territorio. La durezza delle regole ("bail-in") imposte da Berlino è del tutto funzionale a questo obiettivo. Eppure sia i banchieri centrali che gli economisti sono d’accordo che “l’Unione bancaria non va, le regole sono incomplete”, manca la garanzia europea sui depositi.  Purtroppo, sul piano interno, vi sono forze politiche che sembrano non voler capire questa situazione.

Istanbul, “verso la città". Ennesimo massacro



 Turchia, attacco all'aeroporto di Istanbul
 (Reuters)

Alberto Pasolini Zanelli
È difficile esagerare la gravità (dunque l’importanza) di quello che è appena accaduto a Costantinopoli. L’ennesima strage attribuibile agli integralisti assomiglia a tante altre, ma se ne distingue per le proporzioni e soprattutto per i significati e gli obiettivi. È stato un attacco di stile più “militare” dei soliti, con le forze armate turche come obiettivo primario, nonostante che i civili abbiano finito anche stavolta per pagare gran parte del conto di sangue. Ciò acuisce il significato di “sfida”. Lo fa almeno altrettanto la scelta dell’obiettivo: Costantinopoli invece di Ankara. Non è solo internazionalmente più noto, rivela anche che il timing non è stato casuale. Si tratta di una “spedizione punitiva” contro lo Stato turco, mirata alle sue radici islamiche. L’Ankara di Erdogan è stata sede, negli ultimi tempi, di una serie di decisioni che alla leadership jihadista non possono non essere parse particolarmente gravi. Si sono affievolite le speranze dell’Isis e soci, mai confessate, che l’accentuarsi delle ostilità fra il governo turco e i curdi portasse a una diminuita attività bellica contro gli integralisti, in nome dell’antica massima secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico. Ciò finora non è accaduto, nonostante l’intensità dei sentimenti ostili da ambo le parti, inclusa la persona di Erdogan. Una intensificazione di ostilità e dunque di combattimenti è un elemento e un motivo in più per l’indebolimento militare del Califfato evidente negli ultimi mesi un po’ su tutti i fronti, al punto che, cadute Palmira e Falluja, perfino la “capitale” Raqqa è in pericolo. Alle sconfitte sul campo si può rispondere solo con una intensificazione del terrorismo.
Per cui militano altri segni di indebolimento dell’assalto integralista. Uno è un certo miglioramento nei rapporti fra Turchia e Stati Uniti, sia pure in modo molto indiretto ma che si riflette sulle disponibilità sui vari fronti, da quello siro-iracheno alla lontana e finora trascurata Libia. Ancora più significativo, forse, è il silenzioso raffreddamento (non si può ancora parlare di “distensione”) fra Turchia e Russia, che è e anzi diviene sempre più la forza militare prevalente in quella che un tempo si chiamava Mezzaluna Fertile. Gli aerei e i cannoni di Mosca picchiano duro, anche se con interruzioni ma senza le lacune dovute a preoccupazioni politiche. La Russia è dopotutto il Paese europeo con il maggior numero di cittadini, o sudditi, musulmani e quindi in prima linea per contenere la spinta a una reislamizzazione. L’ultimo gesto di un “rammollimento” di Erdogan è però l’accordo appena firmato con Israele che mette fine allo stato di tensione e ostilità aperto dall’attacco israeliano di un paio d’anni fa contro la nave turca che portava soccorsi in gran parte umanitari a Gaza. Il compromesso raggiunto ora è limitato ma sostanziale e potrebbe indicare appunto la fine di una fase “belligerante” che, a prescindere dai contenuti, isolava il governo di Ankara in un campo che era stato sempre il suo. È vero che i jihadisti si sono sempre occupati poco, in realtà, dei problemi e delle necessità dei palestinesi: non sono una comunità particolarmente integralista e, anche quando sono militanti, lo sono per cause politiche e nazionalistiche piuttosto che religiose. La Turchia si era sempre tenuta fuori da quel vespaio. Una volta cadutavi sembra aver trovato la saggezza di distanziarsene, pur senza rinnegare le proprie scelte di campo.
Motivi e spunti. Rivelazioni, considerazioni e sospetti. C’è anche la scelta dell’obiettivo. Costantinopoli e non Ankara. Ankara è la capitale della Repubblica turca, sorta poco dopo i “tratti ineguali” che, anche e soprattutto nel Medio Oriente, conclusero la Prima guerra mondiale. L’iniziativa di Ataturk nacque dalla necessità di salvare il salvabile, almeno un’identità turca che fino a quel momento era stata la struttura portante dell’Impero Ottomano. Un’eredità che nessuno però ha mai interamente rinnegato e il cui ricordo si è andato “riscaldando” proprio negli anni di potere di Erdogan. I precedenti non mancano, non solo nelle leggende profetiche, quelle della Terza Roma e della Battaglia, “decisiva per le sorti dell’umanità”, che dovrebbe svolgersi un giorno nella pianura di Daqib per la “riconquista” di Costantinopoli. Un luogo “magico” a cominciare dal nome: Istanbul, “verso la città”, è come tutti la chiamano. Ma anche l’ultimo sultano e califfo, fino al 1918, continuava a datare ufficialmente le leggi e i decreti di governo da una capitale che era stata romana e cristiana.

Veracruz #6 prima del concorso a ostacoli


Gli spagnoli hanno fatto come gli inglesi, soltanto a rovescio



Alberto Pasolini Zanelli
Gli spagnoli hanno fatto come gli inglesi, soltanto a rovescio. Dal referendum europeo Londra ha cavato un risultato completamente all’opposto di quello preconizzato dai sondaggi (quelli veri e quelli finti) e una decisione scissionista dipinta sui muri come estremamente pericolosa, ma comunque una decisione. Madrid ha invece scelto la prudenza, allontanato una decisione, rincuorato i partiti tradizionali dopo l’assalto dei “grillini” locali e confermato lo stallo che negli ultimi sei mesi aveva lasciato il Paese senza governo, tranne una gestione “tecnica” che si riferiva a una legislatura indietro.
Almeno sul piano numerico, dunque, è come se gli spagnoli non avessero votato. Se i partiti (i quattro che contano, i due in questo caso che decidono) si manterranno fedeli alle decisioni e indecisioni, ormai storiche e anche in questo caso orgogliosamente rivendicate, le Cortes rimarranno aperte a tutto tranne che a una serie di ministri in carica.
Ciò detto, va aggiunto che i partiti e gli elettori di centrodestra escono, di nuovo a differenza di quelli inglesi, più confortati nelle loro posizioni ideologiche e anche nelle loro scelte pratiche che non i concorrenti di centrosinistra. Le cifre non sono contestabili. Il Partido Popular si conferma il più forte di Spagna, come voti e come seggi, aggiungendo 14 seggi ai 123 che già deteneva. Un risultato confortante perché basato sulla resistenza alla contestazione, su una saldezza di principii, congiunta con una disponibilità al compromesso e alla coalizione con l’altro partito storico, il socialista, che però ha perduto consensi e anche seggi (da 90 a 85), facendo così mancare la maggioranza assoluta a due che non ha e non aveva alternative. Le radici del Partido Popular non sono puramente nella destra economica bensì in una tradizione: prima che così, si chiamava Alianza Popular, fondata all’alba della democrazia da un ex ministro di un governo di Franco. I socialisti erano pronti a battersi ad armi pari e lo hanno fatto due volte con successo, con Gonzales e poi con Zapatero. Questi dati non escludono che anche in Spagna sia stata e sia forte l’ondata di contestazione provocata dalla crisi economica mondiale e poi dall’Austerity imposta anche alla Spagna come soluzione. Fu Madrid a conoscere le prime dimostrazioni di piazza, in anticipo perfino su Atene, ma in qualche modo gli scontri non furono altrettanto violenti, né le sofferenze altrettanto acute. La Spagna non è dunque la Grecia e lo ha confermato domenica. La formazione del governo sarà di nuovo compito lungo e difficile, anche perché tutti i partiti intendono salvare in primo luogo la propria identità e non cedere il bastone di comando ai “tecnici” e agli uomini di finanza. Per questo i socialisti (che hanno conservato il fiero nome di Psoe, Partido socialista obrero – operaio – espanol) hanno cercato e cercheranno ancora di difendere questa loro “purezza”. Senza un compromesso Destra-Sinistra la Spagna non può avere un governo differente. È vero che socialisti più Podemos più Ciudadanos farebbero una maggioranza (191 seggi contro i 222 di una GrosseKoalition), ma un loro accordo è considerato improbabile, ancora più di prima. I Ciudadanos sono una forza politica centrista, borghese e dichiaratamente filoeuropea, mentre i Podemos sono scivolati ulteriormente a sinistra, stringendo a fini pratici un’alleanza elettorale con i comunisti, che hanno fornito pochi voti, ma “dipinte” le liste con il nome di Unidos Podemos.
Dopo queste elezioni, la Spagna assomiglia un po’ di più all’Italia e un po’ meno alla Grecia. Per niente alla Gran Bretagna, fin troppo “decisionista”. E neppure all’Islanda, che è andata alle urne nello stesso giorno alle stesse ore, ma ha subito eletto un presidente. Indipendente. Con la maggioranza assoluta.