Translate

Non c’è molto di festoso nella vigilia dell’ascesa



Alberto Pasolini Zanelli
Lo scorrere dei giorni si fa precipitoso, riguarda ormai le ore. L’appuntamento è sempre quello, ufficialmente con l’inizio di un nuovo quadriennio e di un presidente ancora più nuovo e ricco di incognite e di polemiche che arrugginiscono innanzi tempo le aspettative. Non c’è molto di festoso nella vigilia dell’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump, sovraccarica di polemiche, di sospetti e di veleni. Chi non vuole arrendersi e staccare il bottone della propria attenzione, si rivolge allora e si consola con gli addii, tanto più nobili delle risse sui debutti. L’America si è commossa con l’ultimo messaggio di Barack Obama, in primo luogo il suo vicepresidente di otto anni Joe Biden, che le lacrime le ha spese proprio tutte nel sentirsi abbracciare la decorazione più ambita.
Adesso arriva un addio di tutt’altro genere e sapore, quello di John Kerry, Segretario di Stato cioè ministro degli Esteri e come tale il vero numero due dell’Amministrazione Obama, quattro anni dominati dalle vicende e dalle polemiche della politica internazionale. Hanno formato una coppia non soltanto inedita, ma anche molto composita perché di rado due politici americani sono stati così diversi ma come tali si sono impegnati sui percorsi più ardui e differenti ma con eguale impegno e coraggio. Il terrorismo internazionale, la gestione del nucleare, i rapporti con la Russia, le iniziative doverose ma frustranti del Medio Oriente. Obama ha cercato di riassumerli stando il più possibile vicino al popolo americano, Kerry ha scelto invece di ripercorrerli nei luoghi in cui si sono svolti. E che hanno segnato non solo la sua carriera, ma gli eventi decisivi della sua vita.
La penultima tappa è stata la più originale e la più significativa: il Vietnam. Ci è andato ad accomiatarsi, ma non solo dai suoi contatti agevoli e tutto sommato felici del quadriennio come Segretario di Stato, ma da un’esperienza centrale della sua vita. Al contrario di quasi tutti ormai gli esponenti politici americani, John Kerry il Vietnam non l’ha incontrato nelle cancellerie o nei vertici in Paesi neutrali, bensì di persona, in uniforme, da soldato, con il fucile in pugno. Ci andò volontario, come gli pareva doveroso e se ne andò a caccia di Vietcong. Prevalentemente in barca, cioè al comando di una unità lacustre, sui fiumi che si inoltrano nelle giungle dense allora di guerriglieri, di pericoli, di agguati. Se la cavò e non a buon mercato: tre ferite e cinque medaglie al valore. Poteva essere un premio, un vantaggio per un candidato alla presidenza, ma nel suo caso fu tutto molto più complicato perché lui quella guerra l’ha fatta perché ci credeva e in prima linea, non nelle cancellerie. Fino a quando si convinse che era una guerra sbagliata. Non lo gridò subito, aspettò di aver finito il suo servizio poi, da civile, si impegnò per convincere anche i suoi superiori, quelli di Washington, che non era stata una buona idea e che il dovere era a questo punto di smetterla.
Ancora giovane, egli si mescolò ai giovanissimi pacifisti e ne divenne uno degli oratori più seguiti, soprattutto da quando compì il gesto più significativo e, per taluni, discutibile e disarmonico: salì al Campidoglio con le sue medaglie sul petto e poi, una ad una, se le staccò e le scaraventò per terra. Un gesto che alcuni giudicarono antipatriottico e altri capirono come un conscio sacrificio. Che però gli fu rimproverato quando si presentò, diversi anni dopo come candidato alla Casa Bianca in concorrenza con George W. Bush, simbolo a sua volta di un’altra guerra sbagliata, quella contro l’Irak. I più bollarono allora John Kerry come un antipatriota carico di medaglie che aveva osato sfidare un esponente molto patriottico anche se si era guardato bene dal coinvolgersi personalmente. La gente non si era ancora accorta che anche quello era stato un errore, presa come era inevitabile dall’indignazione per la strage dei terroristi del settembre 2001.
Quel Bush sembrava ancora rappresentarla mentre Kerry pareva appartenere a un’altra epoca: agli anni Sessanta e Settanta, espressione semmai dell’America di Bob Dylan e Joan Baez, della contestazione e del pacifismo. Non proprio un Figlio dei Fiori perché lui la guerra l’aveva fatta, ma fuori carattere dall’America del 2004, patriottica e marziale, pia e orgogliosa, tutta sermoni domenicali e sogni imperiali. E non solo per questo un personaggio poco americano, ma anche perché prodotto di un’educazione elitaria, di una aristocrazia della Nuova Inghilterra che non ha mai smesso di guardare all’Europa e un po’ ha sempre voltato le spalle alla Middle America. Dimostrandolo anche nel tessuto dei suoi discorsi, tenuti in una lingua che sembrava e ancora in parte sembra, più adatta alla Camera dei Lord che al tumulto dei comizi a Brooklyn o nel Profondo Sud. Troppo aristocratico, troppo europeo, troppo complicato, parlava in una lingua densa di parole rare, costruzioni raffinate e polisillabi, in genere detestati dagli americani frettolosi. Parlava a lungo ma anche in quei momenti sembrava taciturno. Meglio di ogni saggio con ambizioni di ritratto definiva il suo stile una vignetta forse intenzionalmente crudele. Vi si vedevano i suoi consiglieri affannati a raccomandargli di essere “più caloroso con la gente semplice” e lui che si sforzava di accontentarli, avvicinandosi a una donna con un neonato in braccio e parlandogli così: “Salute a te, o minuto virgulto”.
Non ha cambiato stile, però mestiere. Si rivolge ai diplomatici in un linguaggio che loro capiscono e soprattutto avanzando proposte che loro apprezzano. Lo si è visto di recente nelle complicate trattative con l’Iran, che solo lui poteva condurre in porto contro ostacoli e ostilità di tutti i generi e in ogni angolo. Che egli seppe domare con un notevole impegno, interrotto soltanto da curiosi incidenti, come la caduta da una bicicletta da corsa in una parentesi sportiva su per le pendici di una montagna da Tour de France durante gli ultimi decisivi colloqui a Ginevra. Poteva essere il suo momento di gloria, ma non nell’America attuale che è inquieta e la cui classe dirigente non era incline a trattare con quell’interlocutore.
Gli altri sforzi di Kerry erano dedicati a una partita ancora più bollente, quella con la Russia di Vladimir Putin, che ha finito per diventare parte integrante della politica interna americana, combattuta dai leader politici anche a colpi di spionaggio fratricida. Ma lui stavolta non c’entrava. Era andato a salutare coloro che aveva combattuto da soldato. È risalito su un battello percorrendo quei fiumi in quelle foreste del Vietnam in cui si era meritato ferite e decorazioni e a cena è andato proprio a casa del nemico di allora, nella sede del Partito comunista vietnamita, ospite del primo ministro Nguyen Xuan Phun. Hanno parlato insieme della Cina, il nuovo avversario comune tra i protagonisti di quella guerra. Sulla via del ritorno a Washington John Kerry ha fatto una capatina nella sede di una nuova trattativa internazionale in Europa. Ha voluto finire come aveva cominciato.
Pasolini.zanelli@gmail.com