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Trump, Merkel e la fine della finanziarizzazione


 Guido Colomba

La cancelliera Merkel, con il caso Fiat-Chrysler, non ha esitato a scatenare una guerra commerciale contro l'Italia. Non solo. Un suo ministro ritiene opportuno che la Germania esca dall'euro pur vantando un surplus della bilancia commerciale previsto nel 2017 all'8,7% del Pil. Un record mondiale in violazione alle regole europee del "fiscal compact". Non c'è da sorprendersi se Trump ha etichettato l'Unione europea come uno strumento agli ordini di Angela Merkel. Una critica non nuova. Sono almeno sette anni che la Casa Bianca biasima la politica dell'austerity imposta da Berlino in quanto dannosa agli interessi dell'Europa e dell'Occidente. Così come è stato Obama, per primo, ad auspicare il ritorno del “manufacturing” nei confini patri e la fine della delocalizzazione: "reshoring" è il termine usato per stimolare gli investimenti negli Usa e favorire il rientro degli impianti esteri. Una rete di uffici federali opera dal 2012 con efficacia per sostenere questa politica a favore del settore manifatturiero, l'unico in grado di rilanciare l'economia reale sottraendola al dominio della “finanziarizzazione selvaggia”. Il fatto che a Davos (Forum economico mondiale) il presidente cinese difenda a spada tratta la globalizzazione dimostra quanto le regole del gioco siano state alterate. Qualcuno ha barato. Non a caso la Germania concorda con Pechino. Certo, lo stile comunicativo del neopresidente americano può lasciare sconcertati. Però, i contenuti (non tutti) riflettono la "continuità" dei temi di fondo della politica estera Usa. A cominciare dalla Nato dove è ben nota la pluriennale richiesta americana di un bilanciamento delle spese (quasi il 70% è sostenuto dagli Usa). Accanto a questa richiesta Obama ha perseguito in questi otto anni di presidenza il disimpegno militare all'estero. Una politica molto criticata per aver lasciato un enorme spazio di manovra a Mosca e per avere ampliato, come dimostrano i casi di Siria e Libia, il problema degli immigrati. Cosa accadrà agli interessi vitali dell'Italia con l'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca? Tre riflessioni. La prima riguarda il peso dell'export che rappresenta il 75% del valore aggiunto concentrato nel 25% delle imprese più innovative. Dunque, le guerre commerciali costituiscono un grave rischio per l'Italia. La seconda riflessione è legata ai vantaggi di una Unione europea che, sotto la pressione di Trump e di Brexit, abbandoni la politica dell'austerity germano-centrica, sganciando gli investimenti reali dal "fiscal compact" (malaugurata eredità del governo Monti). La terza riflessione è di grande impatto per la politica dell'occupazione, in particolare di quella giovanile che sfiora attualmente il 40% con punte del 70% in cinque province del Mezzogiorno. Perseguendo una politica neo-keynesiana, sulla scia di Trump, potranno essere varate iniziative strutturali di medio periodo. Finora, proprio l'assenza di obiettivi di medio periodo ha bloccato la capacità di ripresa italiana attualmente vicina all'uno per cento ma pari alla metà della media europea. Il flop della classe politica è evidente (il debito supera i 2220 miliardi mentre gli investimenti sono scesi del 27%). Il disagio sociale si combatte solo su questo piano. Non vi sono scorciatoie. Il fisco è l'altra faccia della medaglia. Oggi, per dare mille euro al mese a un operaio o a un impiegato, il datore di lavoro ne deve spendere duemiladuecento. Un record negativo nel mondo occidentale.