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Capire l'America alla maniera svedese



Alberto Pasolini Zanelli
L’hanno appena nominata ambasciatore di Svezia a Washington. L’hanno incaricata, come quasi sempre tocca o toccherebbe ai diplomatici, di capire il Paese in cui vanno a vivere. Di solito interpretano la loro missione nel modo classico: imparando a parlare col Potere oppure, nei Paesi e nei momenti in cui ci sono novità, con i centri contrapposti in lotta per cambiare il volto e la sostanza degli “intervistati”. Negli Stati Uniti da quasi un anno a questa parte succedono tante cose nuove o soprattutto impreviste che gli interlocutori ufficiali non riescono a spiegare nel loro linguaggio e raccontare nel loro ritmo usuale. È per questo che i più non capiscono, tanto meno nella confusa e serrata gestione di Donald Trump. Informarsi dai responsabili di rado basta, ma non è mai stato sufficiente nella più grande e potente democrazia del pianeta che è anche di solito la più esplicita almeno nelle tendenze e nelle intenzioni. Washington non basta, fra una Casa Bianca avventurosa e contraddittoria, un Congresso impegnato soprattutto nelle risse interne ad entrambi i partiti e nella polemica instancabile su discorsi e atteggiamenti che di solito sono appassiti nel dopo elezioni e sono già impegnati nella preparazione del nuovo appello elettorale. I diplomatici e chi li ha scelti e spediti in America stavolta sono in buona parte paralizzati o perché hanno troppi interlocutori e pochi validi.
C’è chi cerca e spera di avere trovato il rimedio. È un ambasciatore di fresca nomina, svedese, di nome Karin, di cognome Olofsdotter e ha deciso di imparare la lezione rivolgendosi non agli eletti ma agli elettori. E così si è messa in giro per l’America, a chiacchierare e conoscere non gli eletti bensì gli elettori, soprattutto quelli che hanno mandato alla Casa Bianca Donald Trump. Soprattutto perché sono i più espliciti nello spiegare perché l’hanno fatto, i più entusiasti oppure i più arrabbiati. Così l’ambasciatrice Karin si è infilata in un’auto di modeste dimensioni con un’autista e due colleghi di larga esperienza: un ex ministro della Difesa tedesco è un esperto americano colto e di buona volontà. I due sono interpreti, ma hanno anch’essi bisogno soprattutto di capire, di dare un senso comprensibile alle vicende vorticose di un Paese importante come gli Stati Uniti di oggi, quanto al momento confuso e contraddittorio. E vanno a parlare con la gente. Ascoltano le risposte ma è soprattutto la signora Olofdotter a fare le domande, a cercare i colloqui, a registrare quello che vede e che sente. In pochi giorni è riuscita, oppure ha dovuto, registrare molte contraddizioni e sorprese. Ha scoperto l’America del dubbio. Su tanti argomenti, di politica interna, di economia e soprattutto di affari internazionali. È una coincidenza curiosa e interessante quella che la vede a spasso per l’America Profonda proprio nei giorni in cui il presidente in un giro d’Asia tutto giocato ai vertici e sempre meno illuminante col correre dei mesi e dei giorni. Trump si occupava comprensibilmente si preoccupava soprattutto della Corea del Nord e delle sue minacce nucleari. Adesso deve avere capito che l’unico modo per calmare quelle acque è il colloquio con il principale, anzi l’unico: la Cina, la Superpotenza del futuro e già del presente, l’unica che possa fare da mediatrice con la Corea del Nord, rassicurare quella del Sud, sia pure a un caro prezzo, non solo con gli appelli di pace ma anche con la posizione concreta, a cominciare dagli sviluppi economici. L’uomo della Casa Bianca un paio di mesi fa ha tirato fuori l’America da un accordo fra dodici nazioni che aveva lo scopo di restaurare un equilibrio mondiale, che armonizzi con Pechino contenendo i tempi e i modi della sua impetuosa crescita. Egli cerca di capire i suoi interlocutori, a cominciare dal più fido alleato, il Giappone, prima di affrontare la Cina e occuparsi delle crisi e dei pericoli degli altri Paesi nel Pacifico. Senza dimenticare la Russia e le difficoltà interne. Il più autorevole quotidiano americano ha descritto le sue condizioni di partenza in una vignetta muta ed eloquente: due poltrone accostate, l’una con lo schienale con le stelle rosse degli eredi di Mao, l’altra con le stelle e strisce. Sono vicine, ma con una differenza: che al sedile americano manca una gamba. Un handicap che deve essere aggiustato con medicine differenti per ogni interlocutore: confermare l’alleanza con Tokio (e Trump ha cercato di dimostrarlo passando per prima cosa in rivista forze armate nipponiche), dando e ricevendo rassicurazioni, ha proseguito negli altri Paesi chiave, ha dovuto spiegare agli interlocutori la moltiplicazione di gesti di terrorismo di frequenza senza precedenti su suolo americano, ha dovuto rassicurare la Corea del Sud, occuparsi delle Filippine. E tenere presente la “questione russa”, che non è più la vecchia Guerra Fredda, ma un intrico di “scandali” veri e inventati (soprattutto i secondi) che erodono la forza del suo partito di maggioranza e indeboliscono al contempo anche quello di opposizione. Cercherà di chiarire o almeno di placare le conseguenze esterne di questa rissa che assomiglia di più a dei complotti mafiosi che a rapporti fra Superpotenze: l’argomento centrale del vertice che ha in programma con Vladimir Putin. Che potrà aiutarlo con i suoi metodi disinvolti, conscio com’è che in questo momento una crisi politica a Washington si ripercuote anche nelle stanze del Cremlino. Agli altri Paesi del mondo interessa in questa fase soprattutto capire e dunque sapere. Magari attraverso un interprete che parli svedese.