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Sostenere l’inizio del dialogo in Libia, ma senza fare altri guai

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 4 marzo 2018
Dopo sette anni la lunga Via Crucis della Libia non è ancora terminata. Qualche mese fa il generale Haftar annunciava di essere in procinto di  conquistare tutto il paese. Ad oggi però la Libia ha ancora due governi e il potere effettivo rimane frammentato fra le numerose tribù e le ancora più numerose milizie.
Gli egiziani continuano a fiancheggiare Haftar e a guardare con attenzione alla Tripolitania ma, almeno per ora, si limitano a proteggere il proprio confine, anche perché pesantemente impegnati a lottare contro il terrorismo che minaccia la sicurezza del Sinai.
In teoria la parte sud della Libia dovrebbe oggi risultare maggiormente protetta dal rafforzamento del contingente militare in Niger, a cui l’Italia ha deciso di aggiungere un proprio contributo. Tuttavia non sappiamo ancora quale sarà la strategia, e quindi quali saranno gli effetti di questo accresciuto impegno internazionale nell’Africa subsahariana.
Da parte loro gli Stati Uniti accentuano la politica di progressivo disinteresse già impostata da Obama e, chiusa l’ambasciata a Tripoli, guardano alla Libia dalla Tunisia, mentre aumenta ovviamente l’attenzione russa  anche se, per ora, si limita soprattutto ad agire attraverso gli alleati egiziani.
All’interno del paese le lotte fra fazioni e tribù sono meno cruente di qualche tempo fa ma la perdurante diminuzione degli introiti petroliferi viene sostituita dall’aumento dell’economia illegale. Più si ritarda a preparare la ricomposizione del paese più si rischia di ripetere l’esito dell’Afghanistan, dove un conflitto senza fine ha provocato, come conseguenza, il dominio del commercio della droga su tutta l’economia del paese. In Libia all’espansione del traffico degli stupefacenti  provenienti dall’America Latina attraverso il golfo di Guinea e diretti ai mercati europei e del Medio Oriente, si aggiunge il commercio delle armi e dei migranti, divenuti una inesauribile fonte di introiti illeciti.
Insomma le attività illegali aumentano insieme alla crescita delle proteste dei sindaci libici per il mancato arrivo delle risorse promesse per fare fronte alle drammatiche conseguenze della guerra.
Tuttavia, come talvolta capita, la forza della disperazione finisce con il dare vita ai primi tentativi per trovare una possibile via d’uscita.
Si comincia cioè a parlare di dialogo fra i due governi, fra le tribù e fra le milizie come non era avvenuto in passato.  Siamo ancora in una fase iniziale del dialogo ma si sta via via affermando la ricerca di contatti fra Tobruk, Tripoli, Misurata, Bengasi e Sirte, per esplorare la possibilità di arrivare un giorno a un processo elettorale che nasca dall’interno e non dall’imposizione degli eserciti stranieri.
Si inizia inoltre a discutere di programmi quasi elettorali sul futuro della Libia. Si parte dai problemi dell’amnistia e della riconciliazione riguardanti il passato per riflettere poi sugli strumenti in grado di ricostruire un’autorità politica nazionale e un esercito capace di  sradicare le gang illegali e di requisire la smisurata quantità di armamenti che ancora circolano nel paese.
Accanto a questo processo è cominciato un rapporto con le comunità degli esuli per riflettere sugli strumenti idonei a richiamare in patria gli specialisti e i tecnici necessari alla ricostruzione. Tutto questo naturalmente condizionato dalla piena ripresa delle esportazioni petrolifere e dal parallelo ritorno degli investimenti esteri, necessari strumenti per dare speranza ad un paese stremato da ormai sette anni di guerra. Nel mese scorso vi è stata una riunione a Tunisi di una vasta rappresentanza dei responsabili delle diverse realtà libiche. In essa si è parlato di elezioni e si è prospettata la proposta di fare appello all’Onu e all’Unione Africana per garantire la regolarità delle elezioni stesse.
Siamo naturalmente ai primi inizi di un dialogo democratico, ancora acerbo e con tanti punti interrogativi, ma esso deve vedere la comunità internazionale interamente dedicata a rispettarlo e, quando possibile, a favorirlo. Solo con la fine delle interferenze straniere, che prima  hanno dato origine e poi hanno aggravato la tragedia libica, possiamo pensare ad un processo di pacificazione e di progressiva democratizzazione del paese.
L’ unica interferenza oggi utile è quindi facilitare in una prima fase l’incontro fra le varie componenti libiche e garantire poi l’applicazione dei risultati conseguiti, senza diventare paladini di nessuna parte in gioco. Sta arrivando infatti il momento in cui diventa possibile iniziare un dialogo strutturato che possa anche pensare a un (vicino o lontano) confronto elettorale.
Forse queste mie riflessioni peccano di eccessivo ottimismo ma sono convinto che qualsiasi speranza di pace e di riconciliazione vada presa sul serio e vada aiutata. Con la guerra di guai ne abbiamo fatti abbastanza.