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Il posto della Russia e' in Europa?


Alberto Pasolini Zanelli

La vita politica americana non è mai stata così avventurosa come in questi giorni. Perfino il suo andamento nel primo anno della presidenza Trump era stato contrassegnato, in paragone, da placida e coerente continuità, disturbata solo da una vicenda teoricamente estranea e cioè la rissa privata fra l’inquilino della Casa Bianca e i suoi molti nemici aggrappati a uno scandalo sessuale consumato dieci anni fa e ancora peggio dalla guerriglia nucleare fra gli avvocati, gli avvocati degli avvocati e ultimamente gli avvocati degli avvocati degli avvocati. La parola “nucleare” aveva, fino a un paio di settimane fa, un connotato di mistero e di paura, concentrati in una personalità da incubo di nome Kim Jong-un e di mestiere dittatore della Corea del Nord. In meno di un mese colui che faceva paura e spingeva il presidente di Washington a minacciare “contromisure” addirittura anticipate è diventato il suo “collega” che ispira più fiducia e produce più speranze in un cambiamento positivo. È confermato subito dopo essere stato smentito e annunciato il vertice a Singapore fra Donald Trump e Kim Jong-un. Per confermare questo appuntamento la Casa Bianca sarebbe disposta perfino a far rinviare il vertice delle grandi potenze, lasciando in vita la serie di disposizioni unilaterali negli Stati Uniti, soprattutto in campo economico.

È solo dopo aver fatto una chiacchierata con il “collega” di Pyongyang che si potranno affrontare le vivaci reazioni dei vecchi alleati dell’America, inclusi quelli europei e perfino il più vicino tra i vicini, il Canada, che si è indignato forse più di tutti gli altri della incombente sovrattassa sulle importazioni ed esportazioni sui generi di ampio ed essenziale consumo. Reazioni si estendono, soprattutto in Europa, verso contrasti politici che potrebbero modificare in qualche misura i rapporti di forza e ancora di più l’impostazione planetaria in misura addirittura superiore a quella prodotta dalla fine della Guerra Fredda. Anche qui le manifestazioni più aperte riguardano la minaccia di una guerra commerciale, preannunciata nel modo più “vivace” con la proclamazione trumpiana della “America First”. L’esempio più rilevante nel concreto è probabilmente l’intenzione dichiarata dai principali Paesi europei di ignorare la decisione di Washington di denunciare l’accordo con l’Iran raggiunto negli ultimi mesi della presidenza Obama. Denunciando la mancata applicazione di una delle clausole del patto, Francia, Gran Bretagna e Germania proclamano invece di continuare a ritenerlo valido in un settore del pianeta particolarmente esposto a conseguenze militari.

Ma il malumore non si ferma qui. Quello che viene messo in discussione in Europa potrebbe non avere precedenti in un equilibrio mondiale durato settant’anni. Londra è come sempre la più cauta ma mostra il suo malumore, così come Berlino, motivata da altri problemi. La più vivace è finora la reazione della Francia. Il neopresidente Emmanuel Macron ha tentato più di ogni altro di offrire il massimo a Trump al punto di stabilire un rapporto preferenziale fra Parigi e Washington ma, ben presto deluso, esibito addirittura con abbracci e baci fra i due statisti. Ma Macron è stato anche il primo a reagire a fare sue le reazioni ostili dell’opinione pubblica, al punto di recuperare formule e strutture che furono di De Gaulle.

Fra “scosse” sorprendenti e più inattese si sono verificati degli equilibri politici all’interno dei singoli Paesi. È stata forse la prima volta nel dopoguerra che l’esito delle elezioni in Italia è stato ed è un evento internazionale, che ha suscitato attenzione e reazioni. Da qualche anno i Paesi europei producevano e mostravano alle urne spostamenti non marginali verso destra, da cui non è stata esclusa, sia pure in dimensioni minori, la stessa Germania, mettendo per la prima volta in dubbio la leadership continentale della Merkel.

Ma i gesti più rilevanti (e sorprendenti) sono venuti proprio dall’America. Con i fatti più che con le parole. Da Washington è partito per l’Italia il più conosciuto fra gli intellettuali della destra nazionalista, Steve Bannon, che per i primi mesi della presidenza Trump è stato uno dei consiglieri più ascoltati. A Roma egli ha preso contatto in particolare con i dirigenti della Lega. Una novità del genere si è vista anche in Germania, ma più significativa in quanto l’“inviato” di Trump è il nuovo ambasciatore, le cui parole non sono dunque libere espressioni personali, ma possono e devono venire intese come ufficiali. E la loro “direzione” è di un incoraggiamento alle forze politiche rappresentate nel nuovo governo di Roma. È probabile che questi gesti indichino soprattutto l’attenzione, e forse anche preoccupazione, dell’America per l’ondata di approvazione, fiducia e simpatia di molti fra i Paesi europei per Vladimir Putin e la sua intenzione condivisa che il “posto” della Russia possa e debba essere l’Europa. Gli americani non la pensano così, già prima dell’avvento di Trump. Che tale sia il futuro non è certo, ma una svolta si sta delineando.