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Voto USA: un paese diviso e le mosse (obbligate) dell’Europa
Il voto Usa e le mosse (obbligate) dell’Europa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 03 agosto 2024
A due settimane dalla rinuncia di Joe Biden, la candidatura di Kamala Harris per le elezioni presidenziali di novembre è sostanzialmente sicura, ancor prima della Convenzione del Partito Democratico.
Una candidatura lanciata dallo stesso Presidente Biden, poi condivisa dalla gran parte dei vertici democratici, fino a diventare certa dopo il definitivo e atteso appoggio di Obama.
Con questo passaggio di consegne il quadro competitivo è totalmente cambiato.
Mentre in precedenza la vittoria di Trump era praticamente scontata, tanto da spingerlo a scegliere come suo candidato per la vicepresidenza un politico ancora più radicale, costruito su misura per attaccare Biden, l’arrivo di Kamala Harris ha riaperto la partita, mettendo perfino in secondo piano l’attentato a Trump.
Un primo segnale di cambiamento è arrivato dall’immediata crescita dei contributi finanziari alla campagna democratica, contributi non provenienti da ricchi donatori, ma da molte decine di migliaia di piccoli contributori. In parallelo Donald Trump ha messo in dubbio lo svolgimento del secondo dibattito televisivo che avrebbe ovviamente dovuto svolgersi con Biden. Un confronto che, dopo la disastrosa prestazione di Biden nel primo incontro, ne avrebbe certamente consacrato la definitiva sconfitta.
Dopo di che siamo di fronte a un fiume di indagini demoscopiche, che stanno semplicemente mettendo sempre più in dubbio l’esito finale della battaglia elettorale.
Le analisi più recenti, nella maggioranza dei casi, indicano ancora maggiori prospettive di vittoria per Trump, ma con margini talmente ristretti da mettere un punto interrogativo sul risultato finale. Il New York Times parla di un vantaggio di Trump intorno all’1%, il Wall Street Journal e la CNN di un punto in più ma, negli ultimi giorni, siamo anche in presenza di sondaggi che prevedono una sostanziale parità o una leggera prevalenza della candidata democratica. Si tratta in ogni caso di un cambiamento radicale rispetto ai dati precedenti all’arrivo di Kamala Harris, dati che evidenziavano un vantaggio di Trump su Biden di almeno sei punti.
La prima ragione di questo cambiamento si fonda più sull’evidente fragilità fisica dell’ancora presidente Biden che non sul grado di innovazione espresso in passato dalla nuova candidata. Kamala Harris infatti, nella sua funzione di vicepresidente, non ha mai espresso opinioni divergenti da quelle di Biden e ha giocato un ruolo molto minore rispetto all’immagine di personalità forte e capace di scelte coraggiose che aveva espresso nella sua precedente professione di magistrato.
Tuttavia, a ben guardare, è anche possibile che questo ruolo marginale nell’esercizio della funzione di vicepresidente finisca per giovarle, dato che nessuno può imputare a lei l’aumento dei prezzi, che era il punto debole di Biden, nonostante l’ottimo andamento dell’economia durante tutto il quadriennio della sua presidenza.
La nuova candidata, inoltre, può contare su un possibile voto favorevole di molti giovani che avevano abbandonato il partito democratico ritenendo la politica americana troppo debole nei confronti dell’ormai lunga e sanguinosa azione militare israeliana nei confronti di Gaza. Questo capitolo è di estrema importanza dato che gli Stati decisivi per il risultato finale hanno la percentuale più elevata di cittadini provenienti dal Medio Oriente.
La dimensione di questi spostamenti dipenderà dalle dichiarazioni e dalle prese di posizione su questi temi da parte della nuova candidata in una campagna elettorale durante la quale Trump tenderà a presentarla come ultra radicale. Per controbattere quest’immagine sarà quindi importante la scelta del candidato alla Vice Presidenza.
La scelta di J.D. Vance, politico che, pur utilizzando un linguaggio populista, si schiera ancora più a destra di Trump, non può perciò contribuire ad allargarne il consenso. Cosa che è invece ancora possibile a Kamala Harris che potrà scegliere fra candidati che che possano allargare il suo consenso elettorale. Si parla del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro o del senatore dell’Arizona Mark Kelly, capaci entrambi di attrarre voti in Stati particolarmente importanti per l’elezione del nuovo Presidente. In ogni caso sarà maschio, bianco, moderato e con un’immagine di severità nei confronti degli immigrati.
Certamente ci troviamo di fronte a un’America profondamente divisa, che aggiunge alle già grandi divisioni fra bianchi e neri, fra istruiti e non istruiti, fra abitanti delle aree metropolitane e cittadini dei centri minori anche un insanabile dissidio fra coloro che adorano e coloro che odiano Trump.
Il nuovo presidente avrà quindi di fronte a sé, come primario compito, la riunificazione del paese. Un compito impossibile per Trump che ha fondato la sua forza sulla sua crescente radicalizzazione, ma difficilissimo anche per Kamala Harris, soprattutto dopo una campagna elettorale che sarà, come si usa dire, all’ultimo sangue.
Da parte europea, in questa fase di incertezza, l’unica strategia rimane quella di prepararsi al peggio, cercando che cosa si può fare, in caso di vittoria di Trump, per difendersi da un’imposizione doganale del 10% su tutte le nostre esportazioni e da dazi mirati su una serie di prodotti per noi particolarmente importanti. Trump ha fatto della guerra commerciale (America First) la base del suo programma elettorale e non si tirerà indietro. A Bruxelles si sta pensando a come ci si potrebbe difendere senza provocare una guerra commerciale con il paese con cui l’Europa ha la maggior quantità di scambi e investimenti incrociati. Dobbiamo esercitare fermezza, ma dobbiamo anche essere coscienti che una guerra economica non giova a nessuno e che saremo quindi costretti anche ad accettare compromessi non sempre gradevoli. A una politica sconsiderata non si può che rispondere con una strategia capace di mettere insieme fermezza e saggezza.
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