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Ennesima crisi economica e politica



Alberto Pasolini Zanelli
L’America Latina sta conoscendo l’ennesima crisi economica e politica. I governi cadono, i presidenti perdono il posto anche in assenza di elezioni, nella maggioranza dei casi, almeno finora, con più caos e povertà che non violenza. Il Venezuela non è un’eccezione per quanto riguarda le cause della crisi, potrebbe diventarlo in senso negativo se l’attuale contrapposizione dovesse durare e aggravarsi sia per la tenacia del governo nell’inasprire i suoi metodi di sopravvivenza sempre più lontani dalla democrazia e se ad aggravare ulteriormente la crisi continuassero ad accrescersi le misure di boicottaggio dall’estero e soprattutto dalle altre nazioni dell’America Latina da un lato e dall’altro dagli Stati Uniti, che hanno reagito all’esito delle cosiddette elezioni di domenica scorsa preannunciando ulteriori reazioni sanzionistiche.
La situazione continua dunque a peggiorare e ad avvicinarsi all’abisso di una trasformazione da una democrazia molto imperfetta a un regime autoritario eventualmente con l’appoggio delle forze armate. Le ultime notizie di cronaca sono negative ma tutt’altro che sorprendenti. Fino a qualche giorno fa a Caracas e dintorni regnava una contrapposizione fra Parlamento e governo: le ultime elezioni avevano mandato al potere il delfino del presidente “socialista” Hugo Chavez, consegnando una netta maggioranza parlamentare all’opposizione. Adesso la contrapposizione si fa ancora più complicata: ci sono addirittura due parlamenti, quello “normale”, con la maggioranza all’opposizione e un’assemblea costituente che sarà dominata dai fedeli del presidente Maduro. Ciascuna delle due assemblee accusa l’altra di essere illegittima e quindi manca un riconoscimento reciproco. La maggioranza degli elettori sembra schierarsi con l’opposizione di centrodestra, ma è anche quella che ha prodotto per protesta una massiccia astensione. Entrambe le strutture parlamentari possono così vantarsi di rappresentare il Paese, che diventerebbe così l’eccezione dell’America Latina, dove di recente presidenti e governi sono stati rovesciati: alle urne come in Argentina, attraverso un diktat della magistratura come in Brasile e in altri casi per difficoltà economiche.
Il Venezuela ha conosciuto e continua a conoscere entrambe le malattie contemporaneamente. È teoricamente un Paese ricco, anche se fino a poco tempo fa unicamente come frutto di un boom energetico. Quando il petrolio valeva cento dollari al barile, Caracas poteva permettersi riforme demagogiche e sfrenate con enormi spese assistenziali, addirittura all’estero mediante le forniture gratuite a Cuba. Poi il petrolio è precipitato, da cento dollari al barile a meno della metà, pressappoco contemporaneamente al passaggio dei poteri dal presidente Chavez al suo erede più o meno imposto Nicholas Maduro, cui mancano sia la competenza economica, sia una chiarezza politica. Diversi Paesi, soprattutto di quello che si chiamava Terzo Mondo, hanno conosciuto e conoscono recessioni anche importanti, che cercano però di contenere. Il Venezuela è uno “Stato sprecone”, su cui si è abbattuta di colpo la povertà e che non aveva e non ha strutture in grado di difendersi. Il crollo del petrolio ha così causato fenomeni analoghi in tutto il campo economico e finanziario, fino al punto di far mancare generi alimentari, di svuotare i mercati, di far mancare le medicine agli ospedali e di imporre alla moneta venezuelana, che ha il nome storico-ideologico del bolivar, in omaggio al rivoluzionario Simon Bolivar, liberatore di questo e di altri Paesi latinoamericani dal regime coloniale spagnolo. La svalutazione è arrivata a misure che ricordano quella del marco tedesco durante la Repubblica di Weimar, quella che provocò l’avvento di Hitler al potere. Forse anche per questo paragone una parte dei venezuelani e molti governi esteri temono il peggio e cioè una aperta dittatura. Non ci siamo ancora, nonostante le misure illegali dell’esecutivo presidenziali e i primi gesti di violenza dell’opposizione. Sono lontani i tempi felici in cui Caracas poteva regalare la benzina all’Avana in nome della “solidarietà socialista” e in cambio di una massiccia iniezione di medici allevati dal castrismo. Adesso il regime cubano si è ammorbidito e riavvicinato all’America. Trump sembra convinto di poter salvare la democrazia in Venezuela inasprendo ulteriormente la crisi economica. Ma non si vedono finora i risultati e, oltre al prezzo del petrolio, è crollato il valore delle scarse risorse del Paese.

Scaramucci you are fired !!!

Usa, Trump licenzia Scaramucci dopo appena dieci giorni


Anthony Scaranucci e' stato scaricato velocemente da Donald Trump che aveva promesso al nuovo chief of staff, generale John Kelly di eliminare il rissoso direttore della comunicazione.

Una comunicazione in verita' che si era da subito rivelata un fiume di improperi e parolacce da infima caserma.

L'arrivo di Scaramucci aveva costretto alle dimissioni Sean Spicer, tormentato, portavoce di Trump, e poi, dopo una raffica di ingiurie (le piu' leggere delle quali erano "schizofrenico" e "paranoico")  Reince Priebus, capo di gabinetto.

Un giornale scandalistico pubblica che anche l'ultima moglie di Scaramucci, all'ottavo mese di gravidanza, ha deciso di mollare il marito accusato  di stare piu' con Trump che con lei. Forse dopo la fuoriuscita dalla White House si ricredera'.

A sua volta Reince Priebus era stato mandato a casa da Trump dopo il naufragio della legge elettorale repubblicana che avrebbe dovuto cancellare lo Obamacare.

Un disastro annunciato in senato per il voto contrario di due senatrici e quello determinante di John McCain che, nonostante il cancro al cervello del quale era stato operato dieci giorni prima, ha voluto ugualmente partecipare all'importante seduta nella Camera Alta del Campidoglio.

L'uscita a calci in culo di Scaramucci sta a indicare che il generale quattro stelle John Kelly, prima di accettare il pressante invito del presidente per l'incarico di capo di gabinetto, ha voluto chiarire con l'eccentrico Donald che dopo di lui chi comanda nella Casa Bianca e' il chief of staff.

Al momento dunque nel gabinetto di Trump vi sono due personaggi, il generale John Kellly e il ministro della difesa Mattiis apprezzati per iil loro passato di marines e per il grande equilibrio.

Staremo a vedere quanto potranno durare.

Da giorni si parla delle probabili dimissioni del ministro della giustizia Sessions, accusato da Trump di non averlo difeso abbastanza nelll'inchiesta generata dal confermato imbroglio cibernetico scatenato dai russi durante la campagna elettorale presidenziale americana.

Ma il senatore Sessions non ha alcuna intenzione di presentare le dimissioni. Se Trump lo vuole fuori dell'amministrazione deve licenziarlo pubblicamente.

E Trump sa che ci sarebbero conseguenze dirette e indirette.

Putin perde la pazienza

dal Washington Post
 
Russian President Vladimir Putin’s action is the single largest forced reduction in embassy staff since 1917 and a dramatic escalation in the Kremlin’s retaliation to sanctions over its meddling in the 2016 U.S. election. It also indicates that Russia has apparently abandoned its hopes for better relations with the U.S. under the Trump administration.

La crocerossina dell’Europa


Migranti e acquisti stranieri: l’Italia usi tutti gli strumenti di difesa di cui dispone

 
L’orgoglio necessario – Ma l’Italia non può fare la crocerossina dell’Europa

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 luglio 2017

Più osservo le evoluzioni del quadro politico ed economico in cui oggi si trova ad operare l’Italia più mi viene spontaneo paragonare il suo ruolo a quello della Croce Rossa Internazionale. Un ruolo nobile ma non proprio il compito di uno stato sovrano che dovrebbe operare in un clima di solidarietà europea.
Svolgiamo questo nobile compito per i migranti dalla Libia, che vengono raccolti dalle navi appartenenti a tanti paesi europei ma che, come avviene per i feriti nei conflitti bellici,  vengono tutti portati all’ospedale della Croce Rossa, cioè in Italia. E, come è il caso della Croce Rossa, quando si parla delle trattative di pace, l’Italia viene regolarmente esclusa perché le cose importanti si trattano in un piano superiore.
In questo contesto ci sacrifichiamo almeno per uno scopo nobile, anche se accompagnato da una vergognosa mancanza di solidarietà da parte dei nostri partner europei.
Il paragone però non si ferma qui perché, come capita per la Croce Rossa, siamo diventati un bersaglio su cui tutti possono sparare senza provocare alcuna reazione.
Anche in questo caso il protagonista è la Francia di Macron. Mentre era stata accolta senza alcun problema la proprietà coreana dei cantieri navali di Le Havre si procede addirittura alla loro nazionalizzazione (a cui si aggiunge il ridicolo aggettivo di “provvisoria”) purché non finiscano in mani italiane. Il tutto dopo che la Francia si è comprata mezza Italia.
Ed il tutto nello stesso giorno in cui viene dichiarato ufficialmente che un imprenditore francese ha assunto la “direzione e il coordinamento” (cioè la proprietà) di Tim, unico grande gruppo italiano di telecomunicazioni,  che ne detiene la rete a copertura nazionale. Cioè nello stesso giorno in cui passa in proprietà francese un’impresa che, con i suoi 18 miliardi di fatturato è, come si legge nel recente rapporto di Mediobanca, una delle pochissime grandi strutture economiche rimasta in mani italiane. Un’impresa strategicamente più importante anche rispetto a un grande cantiere navale.
In casi analoghi la Francia, per difendere le proprie prerogative, ha sempre usato ed abusato della “golden share” cioè del diritto dello Stato di bloccare gli acquisti stranieri che avrebbero messo a rischio la sovranità economica nazionale. Così come in passato ha bloccato la nostra Enel nel tentativo di acquisto (OPA) del gruppo Suez, forzandone la fusione con Gaz de France.
Le cronache d’oltralpe fanno ben poco sperare riguardo al raggiungimento di un compromesso che possa permettere a Fincantieri di gestire in modo efficiente una delle pochissime imprese europee a possibile leadership italiana. Quest’obiettivo  sarà tuttavia  raggiungibile se saremo in grado di elaborare una politica industriale con le stesse regole e gli stessi strumenti di quella francese. Non pretendo nemmeno con la stessa forza, dato che le imprese francesi hanno operato acquisti all’estero più di dieci volte superiori agli acquisti delle imprese straniere in Francia.
Mi permetto tuttavia di ricordare che, pur nella sua debolezza, anche la Croce Rossa ha il diritto di fare appello alla protezione internazionale.
A soli cento giorni dalla nostra genuina soddisfazione per l’elezione di Macron nel nome di una linea che si proclamava europeista non solo di fronte ai suoi connazionali ma anche a tutti gli europei, mi viene spontaneo ricordare con una certa nostalgia la conferenza stampa del vertice italo-francese di Chambery nel 1997, in cui il presidente Jacques Chirac, quando un giornalista mise in dubbio la possibilità dell’Italia di entrare nell’Euro, gli rispose duramente che non poteva esistere un’Europa senza l’Italia.
Gli avvenimenti di questi giorni mi sembrano dimostrare che le cose sono cambiate e non vedo nemmeno realistico un nostro appello all’Europa né sul caso libico né su quello dei cantieri navali.
A questo punto l’ unica onorevole via d’uscita è che l’Italia usi tutti gli strumenti di difesa di cui può disporre, pur essendo consapevole della gravità di quest’affermazione, sopratutto se pronunciata da chi, come me, ritiene che solo l’Unità Europea ci può garantire un futuro nel mondo globalizzato.
Voglio però ricordare che, proprio nell’Unione Europea, esistono limiti alle asimmetrie di comportamento anche perché, pur pienamente consapevole delle debolezze italiane, non posso ignorare le grandi fragilità della Francia nei suoi equilibri di bilancio e nei livelli di produttività del suo sistema industriale.
Mi verrebbe quindi spontaneo concludere queste mie riflessioni citando ancora il ben noto proverbio calabrese che “chi pecora si fa il lupo se lo mangia” ma, date le mie origini, preferisco concludere ricordando che in Emilia si usa dire che “anche un topo ha il suo orgoglio".

Donald Trump è rimasto con la penna in mano



Alberto Pasolini Zanelli
Donald Trump è rimasto con la penna in mano. Impaziente di natura e comprensibilmente esacerbato da sei mesi di dibattito sempre più aspro e quasi quotidiano del progetto di eliminazione della riforma sanitaria di Obama, aveva emesso una sorta di ultimatum incoraggiante: “Sono qui con la penna in mano per firmare la nuova legge. Tocca al Congresso farla. E il Congresso ha detto no. Anche l’ultima formulazione, più vaga nei termini ma sostanzialmente identica a quella rinviata già dalle Camere. È fallito il tentativo di compromesso. Da ieri il sistema obamiano rimane globalmente valido. Il dibattito al Senato è durato quasi tutta la notte e il no è venuto con il margine minimo: 49 sì, 51 no. Nella Camera Alta i repubblicani dispongono di 52 seggi su cento, i democratici su 46, con due indipendenti alleati in genere dei democratici. I repubblicani avrebbero potuto vincere se i loro dissidenti non fossero stati più di due, perché in caso di parità decide il vicepresidente, che è repubblicano. Invece i dissidenti sono stati tre, l’ultimo dei quali non solo decisivo nel voto, ma esplicito nella motivazione e reso ancora più significativo dalle sue vicende personali recentissime. Il senatore McCain aveva presentato emendamenti alla nuova legge sanitaria e pochi giorni fa avevano scoperto che ha una grave forma di cancro al cervello. Invece l’hanno operato, è andata bene, è tornato a casa, è venuto in Senato ove ha deposto il voto decisivo. E così la riforma obamiana, tante volte data per morta, ha compiuto sette anni.
Adesso rimane aperta, almeno in teoria, la strada di apportare emendamenti e miglioramenti ma rimanendo fedeli al concetto base. Ci vorrà comunque parecchio tempo prima che la stilografica di Donald Trump sia chiamata ad apporre quella firma a un documento che può avere successo ormai solo se frutto di un compromesso fra i due partiti e le versioni, che sono più di due. A rendere più difficile un accordo ci sono naturalmente i rapporti complessivi fra il Congresso e la Casa Bianca, inaspriti quasi ogni giorno da ulteriori scontri su altri temi. L’ultimo è un sì quasi plebiscitario a nuove sanzioni contro la Russia, che Trump vorrebbe evitare ma rischia di non averne i mezzi costituzionali. Il tutto a causa dell’indagine in corso sui sospettati accordi fra Trump e Putin, su cui l’opposizione (che in questo caso comprende anche dei repubblicani) gioca quasi tutte le sue carte ma cerca anche di aprire altri fronti. Uno dei più recenti riguarda le forze armate ma più precisamente i militari che appartengono alla sottospecie sessuale dei transgender. Trump ha annunciato di volerli proibire e quindi licenziare tutti, con la motivazione ufficiale che gli interventi chirurgici possono avere indebolito il loro organismo, richiedere altri interventi molto costosi che aumenterebbero il deficit nazionale. L’opposizione indignata sostiene che il provvedimento riguarderebbe 150mila fra soldati, marinai e aviatori e quindi indebolirebbe la sicurezza militare degli Stati Uniti. Dimensioni che, se esatte, trasportano su un terreno bellico o quasi un problema originariamente piuttosto intimo, o almeno così appariva quando Obama approvò una legge che apriva ai “trans” le porte del Pentagono. I cui dirigenti si sono espressi in maniera del tutto negativa sulla controriforma di Trump.
Ma non è il solo argomento di discordia. Sempre a causa dell’inchiesta sui rapporti con la Russia (che coinvolgono ormai l’intera famiglia Trump e personaggi dei concorsi di bellezza) si allargano le ostilità al progetto di far deporre nell’inchiesta invocata molti esponenti dello Stato e del governo, che sono comprensibilmente ostili a questo allargamento e di conseguenza si combattono, a cominciare dal presidente. Si calcola che fra i suoi più diretti collaboratori, almeno una mezza dozzina siano stati da lui nominati e poi “scaricati”. Quelli più in pericolo oggi sono Primus e Sessions, che sono stati invitati a dimettersi da Trump in persona, che continua a cambiare il suo team. L’ultima novità è Anthony Scaramucci, il cui stile polemico fa sollevare molte sopracciglia. Il suo ultimo intervento pubblico comprende espressioni che è consigliabile non tradurre perché sono di estrema, impensabile volgarità. L’epiteto più presentabile è “fottuto”. A parte la formula di una “dichiarazione di guerra” in cui Scaramucci paragona la propria rivalità ai rapporti fra Caino e Abele.

Quel pollice verso

Paolo Mastrolilli per la Stampa

Quel pollice verso che John McCain ha alzato nell' aula del Senato all' una e 29 minuti di giovedì notte, giustiziando la riforma sanitaria voluta dal presidente Trump, potrebbe diventare l' ultimo atto della sua unica carriera politica. Il glioblastoma che sta devastando il suo cervello, infatti, difficilmente gli darà più di qualche mese da vivere. Però quel gesto di sfida del "Maverick", audace e sfrontato come quando pilotava i caccia nei cieli del Vietnam, rappresenta anche un sussulto di civiltà per riscoprire le virtù di un' altra era.

Quando non vinceva chi urlava e insultava di più, magari via social media, ma chi aveva la straordinaria forza di dialogare con l' avversario, ascoltarne le ragioni, e se possibile trovare un compromesso utile a tutti. La democrazia, in altre parole. Durante la campagna elettorale Trump aveva offeso McCain: «Non è un eroe di guerra. Cosa ha fatto per meritarselo, il prigioniero? Io preferisco chi non si è fatto catturare». Sono stato all' Hanoi Hilton, il carcere nella capitale vietnamita dove gli spezzarono le braccia, e laggiù persino gli ex nemici celebrano ormai le virtù umane di John. Può darsi che il risentimento lo abbia spinto a mollare questo calcio negli stinchi di Donald, ma liquidare così il suo atto di giovedì notte sarebbe riduttivo per tutti.
john mccain 2 john mccain 

Dopo l'intervento chirurgico e la diagnosi del cancro al cervello, il senatore dell' Arizona era tornato a Washington per votare a favore del dibattito in aula sulla riforma sanitaria. In cuore suo probabilmente sapeva già che alla fine l' avrebbe bocciata, ma aveva voluto difendere l' integrità del processo politico e il diritto/dovere di discutere la legge. Trump allora lo aveva esaltato come un eroe coraggioso, finalmente, mentre alcuni liberal bofonchiavano che così il Maverick tradiva se stesso e il popolo americano. Sul "floor", però, l' ex candidato presidenziale sconfitto da Obama aveva tenuto un discorso che forse non aveva ricevuto la dovuta attenzione.

Il passaggio chiave era stato quando aveva criticato l' incapacità del Congresso a combinare qualunque cosa, esortando così i colleghi a cambiare registro: «Al diavolo tutte le linguacce enfatiche e sbruffone che parlano alla radio, in televisione e su internet. Smettiamo di ascoltarle!». Il riferimento era ai media estremisti che ormai condizionano la politica, e probabilmente allo stesso Trump. McCain aveva un' obiezione di sostanza sulla riforma voluta dal presidente, perché pur essendo contro Obamacare, sa che l' opposizione della Casa Bianca è ideologica. Nasce dalla volontà di distruggere l' eredità del predecessore, e dalla convinzione che lo stato non debba aver alcun ruolo nell' assistenza dei cittadini, anche quando si tratta di persone che lavorano, ma non guadagnano abbastanza per pagarsi l' assicurazione.

Quindi voleva ripristinare il processo di mediazione politica che esisteva un tempo, quando ad esempio lo Speaker democratico Tip O' Neil litigava in pubblico col presidente Reagan, ma poi in privato dava via libera alla sua strategia per combattere i sovietici in Afghanistan. Chiedeva di riportare "Trumpcare" in commissione, discuterlo con i democratici, e vedere se esisteva un punto di incontro per approvare insieme le modifiche necessarie a far funzionare "Obamacare", senza lasciare 30 milioni di americani senza cure.

Non lo hanno ascoltato, perché dall' amministrazione Clinton in poi il dialogo è diventato anatema: l' avversario si combatte demonizzandolo e boicottandolo. Come ha dimostrato il nuovo direttore delle comunicazioni di Trump, Scaramucci, che nel frattempo insultava il suo capo di gabinetto Priebus. Così l' America si è spaccata a metà e il populismo ha conquistato la Casa Bianca, sulla scia di una rabbia più o meno informata, che è facile aizzare con un tweet di 140 caratteri.

McCain allora ha detto no, col suo pollice verso, anche se il vice presidente Pence ha passato ore al Senato nella drammatica notte di giovedì per convincerlo. E questo, se ora riuscirà ad attirare l' attenzione dell' America sulla necessità di riscoprire civiltà e decenza, potrebbe essere il servizio più importante che ha reso al Paese.

Donald Trump reality show

Come giornalista non posso fare a meno di ringraziare  Donald Trump  per il reality show che quotidianamente ammannisce.

Come cittadino americano invece il reality show  Donald Trump  continua a  creare  un grande imbarazzo.

L'ultima trampata in ordine di tempo  è la sostituzione  del chief of staff Reince Priebus con il generale  in pensione John F. Kelly, il cui ultimo incarico  e' stato quello di Homeland Security Secretary.

Anche se Reince Priebus ha dichiarato in un'intervista  a Wolff Blitzer della Cnn  che la decisione era stata presa da lui personalmente e accettata dal presidente Donald Trump, resta comunque il fatto che  (come il giornalista ha puntualmente ricordato all'intervistato) il nuovo  direttore della comunicazione della Casa Bianca, Anthony Scaramucci, aveva coronato  l'odio reciproco con Priebus accusandolo di essere uno schizofrenico paranoico oltre che un convinto addetto a prestazioni di auto sesso orale.

Queste squisitezze erano comunque  la cornice  di un'aggressione precisa  da parte di Anthony Scaramucci che accusava  platealmente il chief of staff della Casa Bianca di essere  un leaker, ovvero un diffusore di notizie tendenziose sul presidente.

Anthony Scaramucci  aggiungeva poi  che  spettava a Reince Priebus di dimostrare il contrario.

Le dimissioni quindi del più alto rappresentante della gerarchia amministrativa della Casa Bianca hanno automaticamente confermato l'accusa del folkloristico neo direttore della comunicazione, anche se di fronte  alla precisa domanda del giornalista della Cnn, Priebus si è chiuso  in una insistita  e melensa dichiarazione di affetto per Donald Trump e grande rispetto per il generale Kelly.

Un fatto certo è che  Donald Trump  persevera nell'inserire all'interno della Casa Bianca l'unico stile professionale che lui conosce, ovvero quello  di conduttore di un  reality show  che ha avuto negli anni passati un certo successo.

Da qui a dire  che il reality show  di Donald Trump possa adattarsi  alla  complessa gestione di una superpotenza come gli Stati Uniti  ne corre.

Il generale  John Kelly ha maturato durante i decenni della sua carriera militare  una larga esperienza nella gestione di complesse problematiche.

Tutti si chiedono se Kelly sarà in grado di gestire un corretto  rapporto con un presidente come Donald Trump intemperante,  bizzarro  e bislacco, specializzato solo nel licenziare collaboratori  anziché utilizzarne aspetti e qualità positive.

In questa situazione  gli unici a soffrirne veramente sono i cittadini americani, la maggioranza dei quali  vorrebbe essere rappresentata  non da un clown televisivo  ma da un imparziale  interprete della costituzione americana.

Oscar
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Caro Oscar,
l'altalenanza ondivaga dei leader italiani si appaia alle bislacche trampate negli USA, anche se quelle italiote sono in puro stile mediterraneo.
Ad esempio:
1) perchè Gentiloni non ha fatto lui, prima del francese Macron, un summit con i due maggiori capitribù della travagliata Libia di Tripoli e di Bengasi,  Al Sarraj e Haftar ? L'Italia non è forse la Nazione di frontiera aperta della Libia ? Invece si è fatto avanti un signore di Parigi che le sue frontiere tiene saldamente e militarmente chiuse agli extracomunitari, vedasi quel che succede ai Balzi Rossi di Ventimiglia.
2) La sindaca di Roma Virginia Raggi e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti hanno avuto scontri -anche mediatici- per la mancanza di acqua potabile a Roma e alla fine l'acqua si è trovata al lago di Bracciano, col dietrofront del Governatore PD a favore dei Pentastellati. Voleva far razionare l'acqua affinché i cittadini di Roma. non potendo tirare liberamente la corda dello sciacquone dei cessi, dessero la colpa alla sprovveduta sindaca ?
Due occasioni dove la sinistra -ed il PD in particolare- fanno una pessima figura e portano ulteriori voti ai partiti di opposizione. Sembrano comportamenti  bislacchi o stolti, alla Trump, ma è la pura realtà. Situazioni abnormi che dimostrano -in Italia come in USA- la prevalenza del personalismo e l'inadeguatezza politica a ricoprire le cariche apicali.
I reality show sulle due sponde dell'Atlantico sono preoccupanti: se questa è la realtà tragi-comica quotidiana, poveri noi, non ci resta che piangere ?
Dario Seglie, Italy