Translate

263 donne sparite...Buon Anno!

BUON ANNO da Veracruz.
Come si legge qui sotto in ‘brevi’ riportate dalla stampa locale nell’anno che si va chiudendo sono sparite 263 donne da varie citta’ dello stato di Veracruz. Che fine avranno fatto?
Si aggiunga la rapina poche ore fa nella biglietteria dello ADO la grande centrale di bus che coprono la maggior parte dei trasporti civili tra Veracruz e gli altri stati della federazione.
Questi autobus sono molto belli con poltrone reclinabili, tv, Wi-Fi.
Hanno un piccolo inconveniente: durante i viaggi per esempio a Citta’ di Messico, vi possono essere delle soste forzate causa rapine lungo l’autostrada.
Da qualche parte i soldi per festeggiare all’anno nuovo dovranno pure trovarli......
_______________________________________________



Xalapa, Ver.- (AVC) En los primeros once meses del año se reportó la desaparición de al menos 263 mujeres en la entidad, las cuales fueron registradas por el Observatorio Universitario de Violencias contra Mujeres de la Universidad Veracruzana.
De esos 263 casos, Coatzacoalcos reporta el mayor número de casos con 32, seguido por Minatitlán con 17, Poza Rica 16, Acayucan15 y Xalapa 14.
______________________________________________
Veracruz, Ver.- (AVC) Durante la noche de este martes, sujetos armados asaltaron la central camionera de ADO ubicada en Rafael Cuervo.
Aunque los hechos se dieron a unas cuantas cuadras de la estación de Policía, conocida como Playa Linda, no hubo personas detenidas.
Los sujetos que asaltaron fueron dos armados que ingresaron haciéndose pasar como clientes.
Hasta que llegaron a las cajas, donde amagaron a las empleadas y se llevaron el dinero de las ventas.
Los asaltantes escaparon caminando después de tomar el dinero, del que hasta el momento se desconoce el monto.
Al sitio llegaron elementos de la Policía Estatal y Naval, así como personal de la empresa ADO.
Europa dinnanzi alla sfida di Trump
                                  Guido Colomba
Euforia di Wall Street per gli aiuti fiscali alle imprese. Di contro, la frammentazione fiscale in Europa avvantaggia solo le multinazionali. Gli effetti positivi sulla governabiità dell'Italia dal nuovo Regolamento del Senato.



Con la riforma fiscale Trump ha ricucito lo strappo con il partito repubblicano. Wall Street, prontamente, ha inanellato il settantesimo record riflettendo l'euforia delle imprese oggetto di un taglio fiscale "impressive" Ora Krugman, premio Nobel dell'economia, continua a sostenere che ridurre le tasse non è una buona teoria ma porta ad un aumento disastroso del debito pubblico (attualmente al 60% del Pil) nel lungo periodo. Resta il fatto che la sfida di Trump si basa su un fatto concreto mentre l'Europa non ha nemmeno iniziato a parlare di politica fiscale comune. Anzi, la frammentazione tra i vari paesi membri ha solo regalato vantaggi enormi alle multinazionali. Con l'aggravante di avere compresso verso il basso (contratti a brevissimo termine con paghe fatiscenti) le fasce deboli dei lavoratori-impiegati con il risultato che vi sono grandi aziende transnazionali che si rifiutano persino di parlare con i sindacati. Nel frattempo in Italia i casi Ilva e Tap, come ha indicato il ministro Calenda, rischiano di frantumare gli interessi di tutti negando il concetto di "sistema-Paese". Emblematica la frase di Emiliano, presidente-Puglie: "Che vantaggio ne ricavo con il gasdotto Tap?" Eppure, il traguardo delle elezioni , il 4 marzo prossimo, offre due riflessioni: (1) il nuovo regolamento del Senato vieta il "cambio di casacca" che ha afflitto la 16a legislatura (un parlamentare su tre ha cambiato partito). Dunque, maggioranze più stabili. Un aiuto evidente alla governabilità del Paese. Inoltre, consente alle Commissioni di legiferare senza dover andare al voto dell'Assemblea tagliando così i tempi per approvare una nuova norma (in questa legislatura sono saliti a 392 giorni...).(2) il "Rosatellum" sta costringendo i tre "poli" a fare proposte concrete. Se alcune appaiono fuori della realtà, saranno utili agli elettori per le loro decisioni di voto. Il tanto decantato sistema maggioritario bipolare ha rappresentato negli ultimi venti anni il peggior risultato possibile. I famosi "programmi" elettorali (di alcune centinaia di pagine) hanno solo rappresentato una beffa per gli italiani. L'ottusità burocratica della P.A e i vetusti Regolamenti di Camera e Senato a veti incrociati hanno fatto il resto. Certo, la ripresa economica non deve indurre a facili ottimismi. Le banche, pressate dalla Bce e dalla revisione della direttiva Brrd (i titoli tossici nelle banche Ue sono pari a 6800 miliardi di cui 74% francesi e tedeschi), sono tuttora alla ricerca di una normalizzazione in vista di una riduzione imminente dello stimolo monetario (anche se sono previsti tassi invariati per altri sei mesi). Lavoro, scuola, codice-appalti e immigrati restano i problemi di fondo della nuova legislatura senza tralasciare il tema dell'enorme debito pubblico gravato, in cinque anni, da manovre di bilancio per un totale complessivo lordo di 140,9 miliardi di euro (di cui 27,8 miliardi con la legge di bilancio-Gentiloni). Sul tema sono previsti circa 450 miliardi di nuove emissioni di titoli di Stato con la perdurane stranezza di un Comitato di Collocamento presso Tesoro e Banca d'Italia che, per i quattro-quinti, è affidato a grandi banche estere. Il chè fa ricordare la frase dell'economista Paolo Savona circa "i rischi di colonialismo finanziario". In merito, la vicenda (nata nel 1996) dei derivati dovrebbe insegnare qualcosa.... Il Comune di Prato ha appena perso un ricorso deciso dal Tribunale di Appello di Londra. Dunque, esiste una Bce ma non esiste una normativa europea di riferimento. 

Diario messicano #10: La Antigua e Cempoala




Trump lo aveva definito “una persona meravigliosa”. E ora?

By Carol D. Leonnig. The Washington Post

President Trump’s legal team plans to cast former national security adviser Michael T. Flynn as a liar seeking to protect himself if he accuses the president or his senior aides of any wrongdoing, according to three people familiar with the strategy.
The approach would mark a sharp break from Trump’s previously sympathetic posture toward Flynn, whom he called a “wonderful man” when Flynn was ousted from the White House in February. Earlier this month, the president did not rule out a possible pardon for Flynn, who is cooperating with special counsel Robert S. Mueller III’s investigation into Russian interference in the 2016 election.
Attorneys for Trump and his top advisers have privately expressed confidence that Flynn does not have any evidence that could implicate the president or his White House team. But since Flynn’s cooperation agreement with prosecutors was made public earlier this month, the administration has been strategizing how to neutralize him in case the former national security adviser does make any claims.
Flynn is the most senior former Trump adviser known to be providing information to Mueller’s team. The lenient terms of his plea agreement suggest he has promised significant information to investigators, legal experts said.
Earlier this month, he pleaded guilty to one felony count of lying to the FBI, a charge that carries a maximum sentence of five years in prison. Prosecutors said they will recommend a sentence from zero to six months in prison as part of his cooperation deal. Flynn’s son, who served as his chief of staff, also faced the risk of criminal charges, according to people familiar with the plea negotiations, but was spared.
Trump’s legal team has seized on Flynn’s agreement with prosecutors as fodder for a possible defense, if necessary. In court filings, the retired lieutenant general admitted that he lied to the FBI about conversations he had with the Russian ambassador to the United States during the December 2016 transition.
“He’s said it himself: He’s a liar,” said one person helping craft the strategy who was granted anonymity to describe private conversations.
Robert Kelner, an attorney for Flynn, declined to comment. Ty Cobb, the White House attorney overseeing the response to the special counsel investigation, also declined to comment.
Defense lawyers have said privately that Flynn will be unable to point to White House or campaign records turned over in the probe to bolster any claims of a criminal scheme. None of those records suggest a conspiracy by Trump or his inner circle to improperly work with Russians to defeat Democratic candidate Hillary Clinton, according to people who have reviewed the documents.
The private talks about assailing Flynn’s credibility come even as Trump has signaled that a pardon is not off the table.
Get the Post Most Newsletter
The daily must-reads, delivered to your inbox every morning.
“I don’t want to talk about pardons for Michael Flynn yet,” the president said Dec. 15. “We’ll see what happens. Let’s see. I can say this: When you look at what’s gone on with the FBI and with the Justice Department, people are very, very angry.”
Some of Flynn’s family members appear to be counting on Trump to act. On Tuesday, one of Flynn’s brothers tweeted a message urging the president to pardon his former adviser, responding to a tweet by Trump alleging bias in the FBI.
“Mr. President, I personally believe that a pardon is due to General Flynn, given the apparent and obvious illegitimacy of the manner in which the so called ‘crimes’ he plead guilty to were extracted from him,” Joseph Flynn wrote. “I ask for quick action on this. Thank you and keep up the good work!”
Joseph Flynn did not respond to requests for comment.
Outside legal experts said that discussing ways to undermine a possible witness is a natural first step for defense lawyers to consider.
“It’s pretty predictable,” said Randall D. Eliason, a former public corruption prosecutor in the U.S. Attorney’s Office in Washington. “Defense will always argue that a cooperator who lied previously should not be believed, and that there is insufficient evidence of the conspiracy. It’s Defense Strategy 101.”
He added: “How effective it would be depends entirely on the strength of the other evidence that the prosecution can present to prove its case and corroborate Flynn.”
Barbara Van Gelder, a veteran white-collar defense lawyer and former prosecutor, called it “textbook” for the defense team to raise doubts about Flynn’s version of events.
“They will pull out all the arguments: ‘You pleaded guilty. You don’t have anything more than your word, and you probably got your son off with this. You got the deal of the century,’ ” she said.
Securing documents that corroborate the statements of cooperators such as Flynn is often key when the case comes down to dueling accounts, legal experts said.
“People’s recollections can be faulty but . . . you can’t cross-examine a document,” Van Gelder said. “It is what it is.”
Exactly what Flynn might offer Mueller about what he saw inside the Trump operation remains a mystery. Van Gelder noted that in the way the special counsel structured Flynn’s plea agreement, prosecutors avoided sharing the guts of their ongoing investigation.
“That is what I thought was the brilliance of the Flynn plea,” she said. “It said: ‘I’m giving just enough to have the judge sentence you within the guidelines, but not giving anything to anybody else.’ ”
White House advisers have noted Flynn did not plead guilty to being a co-conspirator in any criminal scheme, which they argue shows he is not able to provide evidence of a larger conspiracy.
Some legal experts said prosecutors could still rely on Flynn’s testimony to allege such a scheme. However, others said persuading a jury to charge a conspiracy that did not include a key witness would be more difficult.
If Mueller opted not to charge him in a conspiracy, Van Gelder asked, “how much of a crime is it, really?”
Julie Tate contributed to this report

Diario Messicano # 9: TLACOTALPAN patrimonio UNESCO


Diario messicano #8: Sportway



La Catalogna dimostra che le secessioni hanno un costo elevatissimo

Lezione catalana – Quanto costa la secessione per inseguire i tornaconti
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 24 dicembre 2017
Le notizie economiche arrivate da Barcellona dopo il referendum del 1 ottobre sull’indipendenza catalana sono tutte cattive. Tremila imprese, comprendendo le banche locali, hanno trasferito la loro sede fuori dalla Catalogna e gli investimenti esteri sono crollati verticalmente. Molti osservatori (tra i quali io stesso) pensavano quindi che le elezioni di giovedì scorso avrebbero segnato una flessione nel voto degli indipendentisti rispetto al referendum e avrebbero con questo facilitato il dialogo fra Barcellona e Madrid.
Le cose sono andate diversamente: i catalani non hanno votato col portafoglio ma col cuore, avendo ben presente che il cuore può essere non solo sede dell’amore ma anche dell’odio.
Le elezioni hanno perciò confermato i rapporti di forza del passato: gli indipendentisti escono con una grande forza in termini di voti ( 47,5%) e con la maggioranza di seggi nel parlamento regionale (70 su 135), anche per effetto di una legge elettorale che premia l’elettorato rurale nei confronti di quello di Barcellona. 
Limitandoci a questi risultati si potrebbe concludere che non è successo nulla di nuovo. Il quadro politico è invece radicalmente mutato.
La sconfitta del primo ministro spagnolo Rajoy è infatti andata oltre ogni previsione. Il suo Partito Popolare, ridotto a tre deputati, scompare dalla scena catalana. La leadership contro la secessione è ora in Catalogna nelle mani del Partito dei Cittadini (Ciudadanos), risultato il primo assoluto nelle urne, anche se troppo debole per offrire un’alternativa di governo.
La leader di questo partito si è schierata duramente contro l’indipendenza catalana anche se, a differenza di Rajoy, non ha messo l’accento sugli aspetti puramente giuridici e repressivi che, dopo il referendum repubblicano del 1 ottobre, si sono trasformati in un conflitto aspro e violento.
La sconfitta di Rajoy ha infatti origine dal modo con cui ha affrontato la questione catalana, usando lo strumento giuridico accompagnato dalla forza e non dall’intelligenza politica. 
Il vantaggio con cui partiva nella difesa del valore dell’unità nazionale è stato annullato dai modi repressivi con i quali ha messo in atto la sua strategia.
In genere, alle sconfitte di questa misura, segue la dimissione del leader. Il che appare invece impossibile nel caso di Rajoy perché il Partito Popolare è obbligato a stringersi attorno a lui per la concorrenza che il partito dei Cittadini, vincitore in Catalogna, è ora in grado di portare avanti anche a Madrid. Per la stessa ragione è difficile pensare ad elezioni nazionali anticipate, impossibili senza il consenso di Rajoy.
A sua volta il fronte indipendentista, anche se vincitore ai seggi, esce dalla consultazione elettorale più diviso di prima. Per potere governare a Barcellona ha bisogno dell’appoggio del gruppo più radicale ed estremista della coalizione, oltre che della rinuncia al seggio degli otto parlamentari eletti ma impossibilitati a votare perché tre di loro sono in carcere e cinque in esilio volontario.
Le elezioni catalane hanno perciò indurito entrambi i contendenti e hanno segnato la sconfitta di coloro che, come il sindaco di Barcellona e il leader del partito socialista catalano, si erano dedicati alla ricerca di possibili mediazioni.
Non ci sono quindi, almeno fino ad oggi, elementi per pensare che la paralisi generata dalle elezioni possa aiutare il dialogo. Entrambi i contendenti pongono infatti condizioni inaccettabili dall’altra parte e motivano il proprio rifiuto col rifiuto degli altri.
In questo dramma si è fatto sovente appello all’utilità di una mediazione Europea, anche perché, nella quasi totalità dei contendenti, prevalgono i sentimenti filo-europei, largamente condivisi sia nella politica catalana che in quella spagnola.
Una mediazione impossibile perché, almeno in questa fase storica, le istituzioni europee non hanno alcuna legittimazione ad intervenire in una controversia di carattere puramente nazionale. Questo anche per non creare un precedente che sarebbe pericoloso applicare alle altre numerose controversie in corso (o potenziali) fra gli Stati nazionali e le autonomie regionali.
Quindi nessuna mediazione europea ma solo un’eventuale prudente azione di “facilitazione”qualora questa fosse richiesta da entrambe le parti. Il che sembra assai lontano da ogni presente possibilità.
Riguardo a queste controversie interne ai paesi membri ci troviamo nella situazione paradossale che proprio l’Unione Europea, offrendo stabilità e garantendo la partecipazione ad una grande area di mercato, può dare l’illusione di favorire i processi di indipendenza delle regioni più ricche che, separandosi dalla casa-madre, godrebbero di tutti i vantaggi economici senza alcuna conseguenza negativa.
Il caso della Catalogna dimostra invece che questi processi hanno un costo elevatissimo. Ai danni degli scorsi mesi si aggiungeranno i danni prodotti dai risultati delle scorse elezioni. Non si vede infatti come la pulsione suicida generata da questa controversia possa avere un rapido termine.
Print Friendly
!

Impeachment debate divides Democrats as 2018 wave builds

Da Politico
By Kyle Cheney, Heather Caygle

If Democrats take back the House, they’ll immediately face pressure from their base to impeach Trump. But it may not be their best move.
A tidal wave of liberal disdain for President Donald Trump may help deliver the House to Democrats in 2018. And if it does, the new majority will face an immediate, fateful choice: to pursue Trump's impeachment as the base demands, or to coax their allies away from the doomsday button.
Democratic lawmakers acknowledge that their voters are hungry for Trump’s removal from office, even if there is no consensus on the grounds for his impeachment. Polls on the question show as many as three-quarters of Democrats already back impeachment, and one deep-pocketed ally, California megadonor Tom Steyer, has been mounting an expensive pressure campaign across the country to build support for Trump's impeachment. Democratic hostility toward the Republican president seems to intensify daily.
But lawmakers who recall the 1998 impeachment of President Bill Clinton are wary of sparking a political backlash for appearing too eager to remove a president without buy-in from independents and even some Republicans. Their tallest task may be persuading fellow Democrats to cool their jets. How the party handles the explosive question of impeachment could determine whether its new majority is still standing two years later.
"Impeachment, it's not something you ought to welcome. It's not something you ought to be ready to — it's not something you want," said Rep. Jerry Nadler (D-N.Y.), who was elected by his colleagues last week to be the top Democrat on the House Judiciary Committee, the panel that handles impeachment matters.
If Democrats retake the House, Nadler will instantly become the party's gatekeeper on the issue. In fact, his expertise in constitutional law — as well as his outsized voice opposing the Clinton impeachment in 1998 — was a factor in his selection to lead committee Democrats. While he says impeachment would surely be on the table in a Democrat-led House, it's far from certain it would be the right call — politically or constitutionally. And it'll be up to his committee to tell voters why.
"If we were in the majority and if we decide that the evidence isn't there for impeachment — or even if the evidence is there we decide it would tear the country apart too much, there's no buy-in, there's no bipartisanship and we shouldn't do it for whatever reason — if we decide that, then it's our duty to educate the country why we decided it," Nadler said in an interview.
It's a risky proposition with an animated Democratic base demanding the party's leaders use the full range of their powers to target Trump. And some of that pressure is coming from within.
"I think a lot of the base would push strongly for impeachment. I think many of us feel like the lines have been crossed," said Rep. Jared Huffman (D-Calif.), who supports impeaching Trump.
The debate is roiling House Democrats, with progressives forcing a debate over the issue even as vulnerable incumbents, particularly members in districts that favored Trump, worry it could jeopardize their future in Congress.
Earlier this month, 58 House Democrats led by Rep. Al Green (D-Texas) — nearly a third of their caucus — voted to begin debate on articles of impeachment against Trump, despite calls by Democratic leadership to spike the measure. And now those on the other side of the debate are already fretting about how far their colleagues and the Democratic base will try to take the issue ahead of the midterms.
“I realize that maybe I’m in the minority in our party,” said Rep. Cheri Bustos (D-Ill.), one of 12 Democrats from a district Trump won in 2016, who opposes impeachment. “I know there are contrary views, obviously, with Al Green forcing us to vote on something that I think was entirely unnecessary and hurtful to people in certain districts.”
Democrats like Bustos say they are waiting for the outcome of a special counsel investigation into Trump associates' ties to Russia, which has raised the specter of indictments in Trump's inner circle and even an obstruction of justice charge against the president himself. Other Democrats say the president's handling of race issues and business conflicts of interest already present grounds for impeachment.
But Huffman acknowledged that most members of the Democratic caucus aren't there yet, and he says many are nervous about the prospect of provoking a political backlash, as Republicans did after impeaching Clinton.
"I think there'll be a lot of nervousness about not repeating that mistake," Huffman said. "As someone who favors impeachment, I feel strongly it needs to be bipartisan. I think that's one of the things
Republicans got wrong in '98. The bipartisan piece of it is assurance to the public that you're not just playing partisan games. We're a long way from Republicans joining us."
Rep. Steve Cohen (D-Tenn.), who has filed his own articles of impeachment against Trump, said he understands why some Democrats are reluctant to join the effort right now. But he said it would be a mistake to compare Trump and Clinton.
“There’s a difference between colluding with Russia to win an election and obstructing justice ... and having a sexual relationship with Monica Lewinsky," Cohen said.
Still, some Democrats are trying to urge caution even as their liberal colleagues move full steam ahead. Rep. Gerry Connolly (D-Va.) acknowledged the "enormous antipathy" for Trump in the Democratic base but said impeachment must be treated as "a last resort remedy."
“Winning the House shouldn’t be seen as a referendum one way or the other on the question of
impeachment. To insist otherwise calls into question the credibility of the entire effort,” Connolly said. “I think that is a huge mistake and a pitfall at all costs to be avoided.”
Connolly said if Democrats retake the House and decide to consider impeachment, they must prioritize "a fact-based process" that persuades non-Democrats of their course. "I don't take an oath to Tom Steyer or anyone else," he said. "I take an oath to the Constitution of the United States, and this is a constitutional process."
Several Democrats also noted that it makes little sense to pursue impeachment without Republican buy-in because the process would then surely be stopped cold in the Senate. The House requires a simple majority vote to impeach a president, but removal from office requires a two-thirds vote after a trial in the Senate — a threshold that Democrats are certain to be well short of in the next Congress.
Nadler argued that it makes little sense to pursue a partisan impeachment under those conditions. Huffman, though, said he disagreed, calling the House and Senate processes "apples and oranges." It's one of many thickets Democrats will have to wade through if they retake the House.
While Democrats like Cohen have no qualms about talking impeachment now, he acknowledged there would likely have to be a “smoking gun” to get Republicans and even wary Democrats on board.
For Democrats reluctant to even broach the topic, that may mean explicit evidence linking Trump to Russian collusion or obstruction of justice in Mueller’s report. Anything less, Bustos and other moderate lawmakers argue, and Democrats risk imperiling their House majority almost as soon as they take control.
“People in a swing district — I’m literally a 50-50 district — they just want us to get something done,” Bustos said. “If we win back the majority and we don’t stay focused on what people want us to stay focused on, that majority will be short lived.”
.

Avviso per il Lettore

A causa di un crash non sono in grado al momento di segnalare articoli postati sul blog.
Invito cortesemente chi voglia continuare a seguire questo blog a consultare Twitter e Facebook su cui vengono registrati gli articoli e i video pubblicati su Letter from Washington.
Grazie e Buon Anno !
Oscar

Collusion 2

Il precedente articolo e’ andato perduto. Ne riscrivo il contenuto alla meno peggio.

Nel suo megaresort di Mar-a-lago Donald Trump trascorre le sue lunghe vacanze natalizie angosciato, dicono quelli che lo conoscono, perche’ tra tutte le persone che ha ‘licenziato’ in questo anno di presidenza ve n’e’ una che proprio non riuscira’ a eliminare.

Si chiama Luke Harding, un giornalista londinese del Guardian autore del gran successo letterario di questi giorni: “Collusion”.

In questo libro Harding che ha lavorato per quattro anni a Mosca prima di esserne espulso a causa delle sue inchieste documentate, espone in un perfetto esempio di giornalismo investigativo, gli approcci di Trump, le pericolose conoscenze, le intense relazioni, intraprese nell’arco di venti anni con le autorita’ russe e successivamente in misura molto stretta con l’amico Putin.

Il libro di Luke Harding e’ in mano a t tuti i parlamentari americani, funzionari FBI e CIA, giornalisti e soprattutto il consigliere speciale Mueller che sta grigliando i personaggi piu’ in vista della corte trumpiana.

Avvalendosi di una sorprendente quantita’ di dati e riferimenti mette in evidenza come nelle proprieta’ di Trump abbiano vissuto i massimi esponenti della mafia russa e criminali specializzati nel riciclaggio di denaro.


Morte di un Laptop


Uno si alza la mattina molto presto, complice il jet-lag e la vecchiaia. Uno sguardo all’oceano Atlantico, nove piani sotto, e come da copione apre il laptop per cominciare a lavorare e scrivere recensioni su questa parte del Mexico, Veracruz, fuori dai percorsi turistici classici ma non per questo meno bella.
Il computer, fidato amico di almeno cinque anni di lavoro in diversi continenti, non da’ segni di vita. E’ completamente morto.
Scatta l’affannoso toccamento di tutti i tasti mentre ti martellano in testa le classiche domande di circostanza: “ E adesso che faccio? Che disastro...ho tutto dentro....roba di anni...anche se ho fatto backup...etc”
Quando il resto della famiglia lascia le coltri viene fatto un comitato di indagine per decidere come aiutare il pater familias privato della sua protesi digitale che gli impedisce di alimentare il suo super cliccato blog.
Capisco che al resto della famiglia del blog non gliene puo’ fregare di meno, mentre sono allarmati per le reazioni emotive dell’anziano cronista privato improvvisamente del suo giocattolo.
Razionalmente si danno due ipotesi: la prima prevede che il vecchio laptop sia riportato a Washington ipotesi immediatamente rifiutata dall’anziano cronista che non vuole essere tagliato fuori per un lungo periodo dal contatto con i suoi affezionati lettori.
Si passa alla seconda ipotesi strategica che prevede l’acquisto immediato di un nuovo PC , ovviamente al Costco, il supermercato presente in diversi continenti e con un ottimo livello di qualita’ prezzo.
Poi si trattera’ di andare da un laboratorio per fare trasferire i dati dal vecchio al nuovo laptop, ammesso che i messicani ci riescano.
Il giovane Jose’dotato di buon inglese si prende una intensa giornata per l’operazione considerando la mole dello hard disk.
Tutto risolto dunque anche se il nuovo PC mi costa circa 900 dollari ai quali aggiungere quelli spesi con il laboratorio.
Ma il Satana dei computer ha deciso che il vostro redattore non deve avere tregua.
Il nuovo laptop non funziona e dopo un paio di crash si rende necessario riportarlo al Costco dove il prodotto viene restituito e rimborsato. Grande Costco.
Questo pezzullo e’ scritto su un IPad che il vecchio cronista ha sempre tenuto in secondo ordine, abituato da una vita ai suoi Microsoft.
“Vedi che avevo ragione, dice il figlio Max. Devi passare a Apple perché e’ tutta un’altra cosa...”
Buon Natale di pace e serenita’.
Oscar

Un anno di America sempre piu’ divisa

Alberto Pasolini Zanelli
L’albero di Natale è già tanto carico di doni (ma sarebbe meglio dire di conti) per gli americani che per tentare di estrarne un bilancio bisognerebbe adornarne almeno due: quella dei portafogli e quella dei cuori. Nessun precedente impone che i bilanci, soprattutto al temine del primo anno di una nuova leadership nella Casa Bianca, siano sintetici e coerenti. Il contrasto c’è sempre stato sulla gestione di Donald Trump, fin dal giorno stesso in cui essa è nata: con una maggioranza di “voti elettorali” (quelli che contano) e una minoranza delle scelte personali degli elettori. Succede qualche volta in conseguenza del sistema elettorali, ma non sovente e semmai quando i candidati alla presidenza presentano programmi abbastanza simili che dunque lasciano spazi e occasioni alle indecisioni.
Questa volta i distacchi fra i concorrenti sono stati modesti e dunque apparentemente cauti, ma su programmi e dunque anche personalità duramente contrapposte. I tre milioni in più per Hillary Clinton non si sono tradotti in compromessi post elettorali. Si sono, anzi, fatti più aspri e più chiaramente indicando incompatibilità. L’unica cosa “normale” è la sparizione dello sconfitto, inevitabile e forse anche sana perché consente un terreno più sgombro della nuova serie di dibattiti, con una “consolazione” per i soccombenti: quella di ripartire da zero.
Quando, come? Durante quest’anno inaugurale della presidenza Trump. Le polemiche sono state così vive che definirle serrate sarebbe un eufemismo e ciò ha in un certo senso aiutato gli sconfitti, esonerandoli dalla necessità di difendere a priori le proprie scelte che l’America non ha scelto. Né sotto l’albero di Natale 2017, ci sono molti regalini di compromesso, in sintonia con una musica pacata e adatta all’occasione.
Niente di tutto questo: Trump si è trovato di fronte fin dal primo giorno una platea non di concorrenti ma di nemici e non ha fatto altro che dedicarsi sistematicamente ad inasprire i loro animi. Di solito i candidati vincenti entrano in funzione ammorbidendo il proprio linguaggio e ridefinendo la sostanza dei propri progetti in modo da renderli in qualche misura più morbidi e dunque in qualche misura accettabili. Quest’anno il presidente ha ribadito in toni più aspri le proprie scelte politiche, l’opposizione ha condito il proprio piatto di “no” con le salse più asprigne e scottanti. Su tutti i campi, dalla politica estera alle indicazioni economiche, alla definizione del Bene e del Male nel gergo finanziario. Trump ha continuato a parlare della necessità di cancellare le riforme di Obama, a cominciare da quella sanitaria, da parte democratica si è preferito aprire il fuoco sulla persona piuttosto che sui suoi progetti. Soprattutto negli ultimi mesi è spuntata addirittura e frequente la parola impeachment, un “no” assoluto meno nutrito dal rifiuto dei programmi che concentrato sul rifiuto della persona. I nomi e i volti più frequenti sono stati quelli di accusati e di accusatori, i dibattiti sulle persone che sulle idee. Ne è derivata, inevitabilmente, una spaccatura con pochissime aree di armistizio. Il tema più frequente è stato il più aspro ma anche il meno definibile: i rapporti con la Russia. Ma non quelli soliti politico-militari, bensì le dichiarate basi morali. Tutti hanno idee chiare e propositi rabbiosi su questo tema, quasi nessuno è riuscito a spiegare che cosa sia realmente avvenuto durante la campagna elettorale 2016. Si è diffusa un’atmosfera che ricorda per certi aspetti quella della Guerra Fredda, senza che nessuno sia riuscito a spiegare in modo coerente e credibile quando, come e in che modo il ridipinto “Impero del Male”abbia assaltato l’America. Nessuno di coloro che hanno condotto le polemiche ha avuto il coraggio di spiegare oppure di chiedere che cosa in realtà sia successo.
L’argomento alternativo, quello riguardante il passato e il futuro dell’economia americana, è stato naturalmente più nutrito di cifre del primo argomento. Ma anche qui si è parlato, e lottato, più delle posizioni e delle scelte in Congresso che non dei fini e delle possibili conseguenze, positive o negative, delle riforme. Con il risultato che alla fine le innovazioni più discusse sono “passate”, ma il contrasto delle opinioni è rimasto illeso. I conti si fanno in un modo e nell’altro, senza realmente collegarli. Chi si presenti sotto l’albero di Natale 2017 se ne trova davanti due. Il primo è quello delle nude cifre e Donald Trump, non serve far finta che ciò non sia accaduto, ha vinto in due modi: nell’aritmetica parlamentare e nelle conseguenze, almeno iniziali, di certi suoi programmi. La riforma fiscale, discutibile e molto discussa, è passata con la più ristretta maggioranza pensabile; ma sullo sfondo delle cifre dei risultati del primo anno di presidenza Trump, contrassegnati da una crescita assai rilevante dell’economia american, molto vicini ai record in materia. Questo contando i dollari, o meglio i miliardi di dollari. Se si guarda invece all’altro albero, quello dell’approvazione politica, siamo di nuovo a un record, assoluto e negativo: il consenso a questo presidente è minimo, mentre è massimo il dissenso, anzi il rifiuto. Il 47 per cento dei voti il giorno delle elezioni si è ridotto a qualcosa di più di un misero 30 per cento. Di altrettanto o pressappoco si è gonfiato dunque il consenso del popolo americano all’autore. Quasi un plebiscito: ma di “no” non di “sì” alternativi.
Hillary Clinton, scelta un anno fa da una ristretta maggioranza di americani, non richiama che pochissimo della ostilità al suo avversario. Il suo albero di Natale è vuoto. Non c’è un angolo per montarne uno, neanche di rimpianti.

SGR nella morsa di Bruxelles

Guido Colomba

 Raramente una legge di bilancio a fine legislatura si è intrecciata con un quadro geopolitico così complesso. Talmente complesso che sfuggono ai media le notizie che contano. A livello europeo, cadono nella morsa dei controlli bancari anche le Sgr, cioè le società di gestione che controllano la grande torta del risparmio investito in prodotti finanziari. Migliaia di miliardi. Un settore controllato sempre più Italia da fondi e banche estere. Anche Pioneer l'anno scorso è caduto in mani francesi. Il vero problema non è la presenza estera, spesso più qualificata di quella nazionale, ma l'asset allocation del risparmio che solo in minima parte (3-4%) viene destinato ad investimenti italiani. Ora i PIR (piani individuali di risparmio) con l' esenzione totale sul capital gain, stanno cercando di correggere questo fenomeno (attesi 4-5 miliardi di investimenti a fine 2017) ma trovano il limite in un mercato dei capitali ancora troppo piccolo (sono ancora poche le Pmi quotate) per la miopia storica della Banca d'Italia che ha persino autorizzato, dodici anni fa, la vendita della Borsa di Milano a quella di Londra. A livello europeo le sfide costituite dai "big five" e dal fenomeno dello "shadow banking" mettono in gioco più settori dell'economia e dell'occupazione. Inoltre la "bolla" delle criptovalute (bitcoin) rappresenta un pericolo immanente con una capitalizzazione di 180 miliardi di dollari. Non a caso i dati digitali rappresentano l'"oro nero" dell'economia della informazione cognitiva (Amazon è sempre la prima). Ma la web tax al 3%2 così come concepita in Italia, più che una soluzione rappresenta un nuovo problema poiché si basa su un fatturato presunto. Rischiano di farne le spese le imprese italiane. Di certo, lo straordinario successo dell'export italiano (più veloce di quello tedesco) deve stimolare "il sistema Italia" a fare quadrato semplificando i vincoli della burocrazia e la farraginosità del sistema fiscale. Secondo F. Giavazzi (re: Corsera 22 dic.’17) “la riforma fiscale Usa potrebbe essere l’occasione per abbattere il potere delle lobby contrarie alle privatizzazioni in Italia e Francia”. In questo ambito, finora, i risultati sono mancati. Le previsioni dei mercati finanziari per il 2018 restano incerte. Recenti studi dimostrano che durante i periodi di crescita finanziaria (Wall Street è ai massimi storici da diversi mesi) le previsioni sono fin troppo ottimistiche. Ecco perché torna di moda tra gli economisti il metodo induttivo (finanza comportamentale) proprio per comprendere l'instabilità dei mercati. Spesso sono proprio le attese dei risparmiatori e il clima di fiducia che influenzano e causano errori di giudizio da parte degli esperti e dei governi. Il Senato, quasi in silenzio, ha varato il nuovo regolamento che potrà snellire (vietati i cambi di casacca...) ed accelerare l'attività normativa favorendo lo svecchiamento del sistema italiano. Una novità finalmente positiva e molto utile in questa fase di ripresa economica.

Il dittatore che sta giocando con l’arma nucleare



Alberto Pasolini Zanelli
Detto così, sembra la ripetizione di una abitudine della Superpotenza americana: la promessa di un intervento militare nel caso che il potere e le istituzioni di un altro Paese stiano crollando e minacciando i vicini. Invece non c’è niente di “solito”, perché l’offerta non è rivolta alle autorità di un Paese amico, ma alla nazione che in questo momento rappresenta il più grave pericolo per tutto il pianeta, compresi e anzi in prima fila gli Stati Uniti. Non è un’offerta né un ultimatum a Kim Jong un, il dittatore che sta giocando con l’arma nucleare, minacciando un attacco a qualche sua frontiera e nominando spesso e in maniera truce prima di tutti Washington. L’America ha risposto più d’una volta a queste eventualità, facendo balenare una rappresaglia di “fuoco e fiamme” e cioè la distruzione della Corea del Nord.
Adesso egli, oltre a minacciare, promette, allo stesso indirizzo ma a un interlocutore diverso e ipotetico. Non riguarda una sempre possibile e sempre temuta aggressione di Kim, bensì le conseguenze di un abbattimento del suo regime, che metterebbe delle testate atomiche e dei megamissili in mani ignote come conseguenza di uno sfacelo di tutte le strutture nordcoreane, che a sua volta sarebbe conseguenza di un abbattimento del regime, probabilmente accompagnato dall’uccisione di Kim. Da vivo egli fa paura, ma da morto un vero e proprio terrore planetario. I consiglieri di Trump sono riusciti a convincerlo di un pericolo e concreto fino a pochi giorni fa non menzionato. Trump contempla adesso l’ipotesi di “qualcuno di peggio” a Pyongyang, di un caos di violenza tale da rovesciare il dittatore ed ereditarne gli ordigni dell’angoscia, per regalarli addirittura al caos. Si immaginano le sfere nucleari a disposizione del primo che passa, possibilmente peggiore del dittatore di oggi perché sconosciuto e interamente imprevedibile. Sarebbe il terrore in primo luogo per la Corea del Sud, autentica vicina di casa e poi per il Giappone e per le due Superpotenze: la Cina e l’America. In questo caso avverte Washington non si starebbe con le mani in mano ma si ricorrerebbe a un’azione militare senza regole e confini, senza neanche l’efficacia di un ultimatum che ha senso solo se ha un preciso indirizzo.
Un discorso inatteso ma chiaro, non lasciato a un portavoce qualsiasi ma spedito personalmente dal “ministro degli Esteri” Usa, il Segretario di Stato Rex Tillerson e immediatamente confermato da Kim in persona, che ha confermato l’esistenza di “piani di contingenza” e rivelato che contatti sono già in corso con la Cina, idealmente per una strategia comune ma in un contesto diverso estensibile a una vera e propria concorrenza. Washington sta trattando con Pechino, guardando nel fondo degli occhi Pyongyang, cercando di tranquillizzare Tokio. Una sorpresa, dunque, ma tutt’altro che priva di una logica militare e politica, di dimensioni senza precedenti, che finora ha raccolto cauti consensi in varia forma in tutto il mondo. Dovrebbe unirvisi, secondo logica, lo stesso governo nordcoreano. Cosa che non accadrà, ma che potrebbe servire ad ammorbidire le furie di Kim, che potrà non ammetterlo, anche se avesse già iniziato a riflettervi. Quasi altrettanto immediato come il monito al dittatore in carica che c’è chi si preoccupa della sua morte ancora di più che di lui vivo. Kim non potrà far finta, anche se rimane per ora improbabile la conseguenza di un’immediata apertura di dialogo. Se lui non ascolterà potranno ascoltarlo i suoi nemici occulti e invidiosi, che potrebbero non avere scrupoli di fronte a un personaggio che per consolidare il proprio potere ha sterminato la propria famiglia.
Non si è dunque aperto finora un dialogo, ma se ne mettono in tavola le materie prime. È improbabile che Trump, non solo a causa della sua inesperienza assorba il piano strategico che è alla base della minaccia e offerta della Casa Bianca. Quello che però fra l’altro sembra delinearsi è un’indiretta solidarietà da parte della seconda superpotenza nucleare del pianeta: la Russia. Che formalmente non è parte della crisi originata dalla Corea del Nord, ma ha un suo peso planetario, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con l’America. È difficile che sia una totale coincidenza il riavvicinamento proclamato negli ultimi giorni almeno due volte da Vladimir Putin. Un elogio e un ringraziamento. Una telefonata dal Cremlino per riconoscere ed esaltare i successi degli Stati Uniti – e dunque di Trump – nel campo dell’economia mondiale, compresa la citazione della brillante crescita a Wall Street, definita da Putin una straordinaria performance economica. E un paio di giorni dopo un gesto ancora più impegnativo e senza precedenti: il ringraziamento, sempre per telefono dal Cremlino alla Casa Bianca, di Putin a Trump per il contributo dato dallo spionaggio americano a scongiurare alla Russia una sanguinaria congiura terroristica che avrebbe dovuto colpire rovinosamente un monumento religioso e cristiano come la cattedrale di Kazan sulla Prospettiva Evsky a Sanpietroburgo. Un monumento non antico ma costruito in anni difficili e importanti per la Russia, cioè all’inizio dell’Ottocento. Per la seconda volta in tre giorni, Vladimir Putin, nel bel mezzo della polemica politica a Washington per le presunte “interferenze” delle “spie di Putin” nelle elezioni presidenziali americane, ha manifestato gratitudine e solidarietà. Due sentimenti che non capitava più di ascoltare dopo il progressivo inasprimento dei rapporti fra le due Superpotenze dai giorni in cui le ostilità avevano fatto temere il tramonto del “miracolo” costruito da Mikhail Gorbaciov e da Ronald Reagan.