Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 27 luglio 2024
Sono molte le tensioni e le divisioni esistenti all’interno degli Stati Uniti, ma tutta la politica americana trova un unico punto di convergenza: l’ostilità nei confronti della Cina.
Lo stesso atteggiamento di estraneità e ostentata diversità di prospettive, naturalmente in direzione opposta, emerge inequivocabilmente nelle conclusioni del recente terzo plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, anche se esse non sono esplicitamente riferite agli Stati Uniti, ma al cammino che la Cina dovrà percorrere nel futuro.
Il lunghissimo comunicato non presenta novità sostanziali riguardo alle concrete decisioni di politica economica che pensavamo essere all’ordine del giorno, ma rende ancora più evidente la distanza e che si sta producendo nel mondo, facendo soprattutto emergere un’ancora più forte divaricazione fra Cina e Stati Uniti.
Si è discusso quindi del miglioramento del funzionamento del mercato, dei servizi pubblici, del welfare, delle infrastrutture, dell’economia digitale, della distribuzione del reddito, ma non si è affrontato il problema, diventato prioritario nella Cina degli ultimi tempi, del ruolo delle imprese private, negli ultimi tempi meno importanti, anche se la loro centralità era stata il punto fondamentale del discorso di insediamento del Presidente Xi Jinping del 2013.
Il vero punto centrale delle decisioni economiche ha riguardato invece l’obiettivo di concentrare ogni futura energia nel raggiungimento, ad ogni costo, del primato cinese nei campi della scienza e della tecnologia. Questo obiettivo è dominante in ogni pagina del rapporto, sia che riguardi le innovazioni del sistema scolastico, le riforme della pubblica amministrazione o qualsiasi decisione da intraprendere.
La parte più inattesa delle conclusioni del summit riguarda però alcune priorità politiche da adottare per raggiungere quest’obiettivo.
Non desta certamente sorpresa l’importanza attribuita al rafforzamento della leadership del Partito comunista, ritenuto il motore fondamentale della modernizzazione del paese. Una modernizzazione che deve naturalmente essere attuata “con caratteristiche cinesi”.
Mi ha invece molto colpito che l’elenco di queste caratteristiche venga esteso in campi che, pur facendo parte di una prassi politica consolidata, non sono in genere trattati in modo esplicito in un summit che solitamente si concentra su temi di interesse strettamente politico o economico.
Nel sottolineare la necessità di rafforzare il senso di comunità e di coesione della nazione cinese, viene esplicitamente sottolineato l’obiettivo di “promuovere sistematicamente la ‘sinificazione’ della religione in Cina e il rafforzamento dello stato di diritto socialista nel governo degli affari religiosi”. Riguardo al rapporto con la cultura viene espresso l’obiettivo di “intensificare il meccanismo di leadership politica nei confronti degli intellettuali non appartenenti al Partito e dei nuovi strati sociali”. Accanto a queste così esplicite affermazioni di un crescente controllo sulla società, viene auspicata una “stretta e limpida relazione fra il governo e il mondo degli affari, in modo da promuovere un sano sviluppo della parte di economia che agisce al di fuori del sistema pubblico e delle persone che in esso operano.”
E’ difficile che si possa porre fine a questa sfida globale in un prevedibile periodo di tempo. Ci si augura almeno che i massimi responsabili della politica delle due grandi potenze possano dialogare per evitare lo scontro diretto, come fecero John Kennedy e Nikita Krusciov negli anni più bui della guerra fredda fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
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