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Piloti indiani che volano con licenze scadute e non rinnovate

from The Times of India

102 Air India pilots found flying with lapsed licences



102 Air India pilots found flying with lapsed licences
The next time you take a flight in India, keep your fingers crossed and hope that your pilot is flying on a valid licence, not a lapsed one.
NEW DELHI: The next time you take a flight in India, keep your fingers crossed and hope that your pilot is flying on a valid licence, not a lapsed one.

Air India has discovered that as many as 102 pilots of its wide body Boeing fleet have been flying without clearing a mandatory test that helps keep their licences valid and without which the same lapse.

The airline informed the downgraded-by-US directorate general of civil aviation (DGCA) which, worryingly, failed to detect on its own the flying by so many pilots with lapsed licences.

The AI admission comes on the heels of the regulator last month finding that 131 Jet Airways pilots were also flying without clearing a mandatory biannual exam - meaning on a lapsed licence.

The DGCA had ordered Jet to remove its chief of training due to this serious lapse.

Which means, over 250 pilots have been caught flying with lapsed licences in less than two months and this may be just the tip of the iceberg!

Admitting the lapse of its training department, AI wrote to DGCA saying that the route check of the 102 pilots was not done as per the required schedule that rendered their licences unfit for flying. "Keeping in view... overall shortage of pilots in the airline, we request you to kindly view the lapse sympathetically and renew the lapsed licenses of our pilots at the earliest in order for us to utilize them for flying duties (and) maintain our schedule," AI wrote to the DGCA recently.

The regulator, which should have been able to detect that over 100 pilots wee flying with lapsed licences, is now in damage control mode. Caught sleeping just a month before the US Federal Aviation Administration reviews its downgrade, the DGCA has asked AI to provide information on licence and training status of the pilots of the narrow body Airbus A-320 aircraft. Sources say that the regulator is unhappy with AI training department's 'casual' approach.

"Being a public sector organization, AI training department perhaps felt that a fellow government agency like DGCA will not act against it. But given the scale of action against Jet, they may prove to be wrong," said a source.

In fact, a confidential note has been put up to AI management on this issue by the airline's other departments that are facing the heat from the regulator now. "A very serious lapse has been going on in the training department... Please (ask training) to explain the lapse and retrieve the situation to avoid any reprimand from the DGCA and to avoid any media snowball," the confidential note accessed by TOI says.

The 131 pilots of Jet Airways were found to be flying even after expiry of validity of their last pilot proficiency check (PPC), a test that is required to be given every six months. Pilots are not supposed to fly without a valid PPC.

Attenzione alla parola 'ritmo'

Renzi: «La parola del 2015 è ritmo, l’Italia deve tornare a correre».

 Negli anni '70 la FIAT in America era conosciuta come: "Fix it again, Tony!" per la scarsa qualita' dei suoi prodotti. Prima di uscire da un mercato che li respingeva  perche' le loro auto erano considerate 'dusty' i dirigenti di Torino pensarono di importare la Ritmo che in Italia andava abbastanza bene.

Fu cosi' che il sostantivo 'ritmo' venne tradotto frettolosamente in 'Rythm" che per le donne americane significa: "Circadian rhythms, sleep, and the menstrual cycle." Presi dall'angoscia per le facili battute che circondavano questa vettura negli USA, la Ritmo venne ribattezzata ' Strada' in fretta e furia.

 


 



Roma e Washington: capitali agli antipodi per i servizi

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Dario De Marchi (da Marco Polo News)

Abitare a Roma o risiedere a Washington DC? Non che la scelta riguardi tutti. Ma è piuttosto un interrogativo che, con normale sensibilità civica, lo si può usare per tentare di “leggere” il modo con cui queste due capitali occidentali mondiali si pongono nei confronti della qualità e quantità dei servizi forniti ai loro cittadini, ai residenti, e a quelli della comunità internazionale che transitano o vi vivono. Quel che è certo è, ahimè, che la capitale italiana sfigura pure nei confronti di qualsiasi città di un Paese cosiddetto “emergente”. E, purtroppo, per molti troppi punti. Né fa titoli ricordare che Roma e Parigi sono formalmente riconosciute da Washington DC come “città partner” per loro posizione internazionale. A parte questo e l’enorme e inesplorato patrimonio storico-artistico-monumentale (ma purtroppo degradato) della Capitale italiana, essa non regge ai paragoni con la ‘gemella’ sul Potomac.
Se non si hanno i soliti vetero pregiudizi, imposti dalla demagogia politica e partitica, infatti, è sotto gli occhi di tutti che in riva al Tevere vigono sempre più il degrado, il caos, l’assenza di pulizia, il traffico incasinato, l’inefficienza dei servizi a partire da quelli di trasporto e igiene urbana, l’arte di arrangiarsi, il doppio pesismo, la mancanza di rispetto delle regole, soprattutto per l’incapacità a farle rispettare, alimentando così un crescente senso di impunità, tipico del Far West dove impera la legge del più forte. Purtroppo nessun amministratore e nessuna sua Giunta in questi 30 anni è riuscita ad invertire la tendenza. Senza addentrarsi nei dettagli giudiziari di queste ultime settimane.
Ma senza tanti discorsi, vale la pena fare solo alcuni esempi, una sorta di gioco delle differenze che, ahimè, mette impietosamente in risalto questa incredibile disparità di cui soffrono i cittadini romani, ormai diventati incapaci di reagire, rispetto a quelli di Washington DC. Questi ultimi, infatti, sono forti nel rivendicare i loro diritti al punto che, a ragione, si lamentano civilmente riportando sulle targhe delle loro auto la dicitura:“Taxation without rappresentation”, ossia ‘paghiamo le tasse ma non abbiamo diritto di essere rappresentati’. Ma finisce qui, perché lo status della capitale federale americana la fa essere una città in cui, tra luci e ombre, i cittadini godono di servizi pubblici che funzionano e fanno invidia. A Roma la rappresentatività l’abbiamo, ma poi vediamo a cosa serve…La capitale degli Stati Uniti d’America, nota anche come District of Columbia (D.C.), coincide col distretto federale previsto dalla Costituzione dell’Unione Washington. Da qui l’assenza di rappresentanti dei residenti ai vertici dello Stato federale.
romanavolidarte-marcopolonewsVa detto subito che il paragone tra Roma e Washington D.C. non può essere azzerato dalla questione delle apparenti diverse dimensioni: se infatti la città dei Sette Colli conta quasi tre milioni di abitanti e Washington D.C. quasi 650 mila, non va però dimenticato che questi ultimi in realtà sono oltre 5.600.000 se si contano quelli dell’area metropolitana, gran parte dei quali giornalmente dagli agglomerati urbani sorti a ridosso della capitale federale nel Maryland e in Virginia, vengono al centro per lavoro.
In questo gioco delle differenze, per non infierire con la capitale dei Sette Colli non serve ripetere una situazione a tutti nota e, quindi, diremo in sintesi solo come funzionano alcuni servizi essenziali a Washington DC.
Cominciamo dai trasporti. La rete di superficie è ben sviluppata e servita con autobus efficienti, puliti, dove si può salire solo dalla porta anteriore esibendo al conducente l’abbonamento, il biglietto o pagando in contanti in un apposito contenitore “intelligente”. Il personale è tanto cortese nel fornire informazioni, quanto fermo nella gestione dei passeggeri. Insomma, senza un titolo di viaggio non si sale e il mezzo non parte. Tutti i conducenti indossano la divisa nera e bianca con molto decoro e dignità, quasi con orgoglio per la categoria che rappresentano (altro che jeans, scarpe da ginnastica, magliette e camice colorate!). La loro regola è l’elevata professionalità.
E poi ci sono i trasporti sotterranei. Ben sei linee le linee della Metro: confortevoli, ben radicate nella città ma che si estendono in tutto il vasto hinterland dell’area metropolitana. Carrozze molto pulite, confortevoli come salotti, di color nocciola chiaro. Nelle intersezioni, le linee arrivano sullo stesso binario per cui lo scambio non comporta tortuosi tragitti. Le indicazioni di percorsi e mezzi sono molto chiare e, quindi, è facile muoversi anche se si è turisti.
Questo sistema di trasporto pubblico regge ben il 40% dei movimenti delle persone all’interno della capitale federale e dall’esterno verso essa (un dato tra i più elevati tra i 50 Stati), anche nella “rush-hour”, ossia l’ora di punta.
A tale proposito sia di mattina che di pomeriggio la presenza in strada degli appositi controllori del traffico (divisa marrone) diventa nodale per facilitare i flussi dei veicoli rendendo quindi la situazione meno complessa. A Roma li vediamo, tanti, solo la mattina. La sera, rare tracce!
Stiamo in tema di traffico. Poche regole ma precise per gli automobilisti di Washington. Inderogabili. Perché la Polizia Metropolitana (non divisa in tanti corpi non interconnessi tra loro) è onnipresente, vigile e intransigente. Nelle automobili bianche, ben riconoscibili per le lucette blu sempre accese, un solo agente ma con una sofisticata dotazione tecnologica e, soprattutto, mai solo perché altri colleghi sono nei paraggi.
I pedoni hanno la precedenza: sempre e comunque! È un pilastro del codice della strada a cui nessun automobilista e centauro deroga. Poi i semafori non sono ‘lampade colorate’ e guai a non rispettare le loro indicazioni. Idem per la velocità, ben indicata e tassativa. La segnaletica è chiara per ogni evenienza e quello che si può fare è scritto in modo semplice. Anche per dire quando è possibile girare a destra con il semaforo rosso. I parcheggi sono a pagamento e anche in centro, grazie alla continua rotazione dei posti (i mezzi pubblici sono efficienti e non conviene usare quelli privati), non è difficile trovare posteggio. Ma non all’infinito! Non ci sono mai veicoli in doppia fila o, peggio, sui passaggi pedonali. La contravvenzione sarebbe rapida e certa! E tanta!
Nelle zone periferiche i residenti nella loro strada hanno libertà di posteggio illimitato, ma con targhe registrate al più vicino posto di polizia (tutti sono aperti h24 anche per le pratiche amministrative); gli altri automobilisti, compresi i loro ospiti, hanno solo due ore di concessione. La Polizia Metropolitana passa di frequente e i mezzi di servizio hanno lettori digitali e gps che memorizzano automaticamente targhe e posizione. Per cui le contravvenzioni fioccano per i trasgressori over 120 minuti. Questo è possibile non solo per l’intransigenza dei tutori dell’ordine, ma perché la percentuale di quelli operativi in strada, al servizio della comunità, è di gran lunga superiore a quelli in ufficio. No comment per la zona Tevere!
Le strade sono tutte pulite. I contenitori di immondizie non si ergono su una base di rifiuti abbandonati all’esterno. Nelle vie, anche in periferia, non ci sono sporcizie in giro, nè ciuffi di erba che sbucano selvaggiamente e imperiosi tra il selciato e i bordi dei marciapiedi o che escono dai tombini. Gli scolatoi sono ampi e ben puliti. La pioggia abbondante defluisce subito senza allagare le strade al primo acquazzone. Gettare una carta o altro per terra, ossia fuori dai frequenti contenitori, farebbe scattare la contravvenzione.
In USA e, quindi, anche a Washington DC, vige una regola (che fa venire il voltastomaco a noi finti bigotti e pseudo liberali): “I vicini ti guardano”! Non è però la bieca delazione come la pensiamo strumentalmente noi, ma una collaborazione civica attiva che aiuta a segnalare al mitico “911” – unico numero di emergenza e segnalazione nazionale – quando qualcosa non funziona, o peggio (dati i tempi!) è sospetto. I cartelli sono affissi dovunque e soprattutto in tutti i quartieri residenziali che circondano il centro. E si vede che questa collaborazione aiuta a tenere ordine e pulizia dando sicurezza ai cittadini che si sentono protetti.
Tra le differenze è la quasi totale assenza di “opere d’arte” dei writter sulle pareti di case e monumenti. Se qualcuno tentasse “profanare” il muro di una casa, di un edificio pubblico o, peggio ancora, di un monumento deturpandolo con segnacci spray, sarebbe subito bloccato dalla Polizia Metropolitana. Tracce di graffiti moderni si trovano solo su edifici abbandonati e su qualche casa diroccata.
Washington DC non ha reperti archeologici da esibire al mondo, ma si è attrezzata per essere comunque una città molto bella (tra l’altro senza grattacieli) e mèta di moltissimi turisti, non solo dall’America, ma dal mondo. A parte la Casa Bianca e il Campidoglio, veri simboli degli USA, e l’inconfondibile obelisco, la città ha una fitta serie diversificata di musei molto attrezzati e fruibili, in particolare la catena della Fondazione Smithsonian (che qui gestisce diversi dei 19 musei sparsi negli USA, con circa 142 milioni di pezzi nelle sue collezioni, una dotazione che fa dello Smithsonian il più grande complesso di musei al mondo), con opere eccezionali e rare, pure di artisti italiani. Ma i turisti si spingono anche nei sobborghi. Ci sono i suggestivi quartieri di Georgetown e Dupont Circle, immersi nel verde e con uno stile originale, una casa diversa dall’altra; il toccante e vasto cimitero di Arlington, la casa museo di George Washington a Bridges Creek, in Virginia, sul Potomac.
Con questa breve carrellata di differenze non si vuol dire che nella Capitale federale tutto sia ottimale e perfetto, ma sicuramente lo scenario qui è molto più funzionale ed efficiente rispetto a quello che si vive in riva al Tevere, dove il cittadino si sente vittima e ostaggio di degrado, illegalità e disorganizzazione. Per questo il sindaco del Campidoglio romano dovrebbe fare una visita didattica (ma senza codazzo di giornalisti ad esaltarne le gesta!) di alcuni giorni nella città del Campidoglio sul Potomac per rendersi conto che ai cittadini bisognare innanzitutto dare sicurezza e servizi efficienti, piuttosto che fregature, tasse e limitarsi al vecchio anacronistico “panem et circenses”!
Un ultimo dettaglio, che fa la differenze. Roma è l’unica capitale europea a non avere alcun volo diretto con la capitale americana. Con il collega Oscar Bartoli ci eravamo battuti in passato (raccogliendo migliaia di firme in pieno agosto) contro la chiusura del volo Alitalia tra Milano Malpensa e Dulles (l’aeroporto internazionale della capitale USA) ottenendo dopo pochi mesi l’apertura di un diretto con Roma della United Airlines. Ma nonostante fosse sempre in overbooking (soprattutto tra turisti e funzionari) anche questo collegamento diretto è stato da poco soppresso. Così bisogna passare per altri Paesi e in particolare dalla Germania (con diverse connessioni da Monaco e Francoforte, da Berlino almeno 5 al giorno!) con Lufthansa o altre compagnie straniere. Tanto che venendo a Washington la presenza di italiani sul volo tedesco è sempre rilevante. Ma i nostri amministratori sono impegnati a guardare la magnificenza internazionale del loro … ombelico!
La dignità di un Paese che vuol essere grande e che vive pure di turismo passa anche attraverso scelte logistiche di respiro e non di bassa miopia provinciale. Ma forse sarebbe meglio fare i paragoni tra Roma e una capitale africana. Ma la vittoria non è sicura!
di Dario de Marchi

Siamo 320 milioni negli USA (ma solo grazie agli ispanici che scodellano figli in quantita')

Census puts U.S. population at 320.09 million, up 0.7 percent from year-ago

WASHINGTON (Reuters) - The U.S. population is seen at 320.09 million people as of Jan. 1, up 0.73 percent from a year earlier, the Census Bureau said on Monday.
The Census Bureau said in a statement that the figure represents an increase of about 11.35 million people, or 3.67 percent, since the last population count on April 1, 2010.
"In January 2015, the U.S. is expected to experience a birth every eight seconds and one death every 12 seconds. Meanwhile, net international migration is expected to add one person to the U.S. population every 33 seconds," the Census Bureau said.
It said the combination of births, deaths and net international migration would add at least one person to the U.S. population every 16 seconds.
The Census Bureau projected the world population on Jan. 1 at about 7.21 billion, a 1.08 percent increase from New Year's day in 2014. It estimated that about 4.3 births and 1.8 deaths will occur worldwide every second in January.
(Reporting by Lucia Mutikani; Editing by Leslie Adler)

Ci prepariamo per celebrare il Nuovo Anno in Bangalore, Speriamo bene..

Bomb in India Kills Woman in Busy Center of Bangalore

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Members of a bomb squad with sniffer dogs investigated the site of a bomb blast Sunday
 A crude bomb exploded outside a busy restaurant in Bangalore on Sunday, killing a woman and wounding a man, the police said.
The low-intensity blast occurred in the center of Bangalore, home to many of India’s high-tech workers and packed with Sunday evening crowds, prompting a security alert in other Indian cities.
The improvised explosive device had been placed between two flower pots near the Coconut Grove restaurant, the police said.
No one had claimed responsibility for the blast, the Bangalore police commissioner, M. N. Reddy, said.
“Essentially, it was aimed at causing panic and fear,” he told reporters.
Shrapnel struck the head and neck of a woman, 38, who was walking past the restaurant, and she died in a hospital shortly afterward, Commissioner Reddy said. A man who was wounded was in stable condition.
Soon after the blast, the police were ordered on higher alert in Mumbai, Delhi and Pune, security officials said in New Delhi.
Bangalore, also known as Bengaluru, has been on a general alert since the police detained an engineer accused of operating a Twitter account that praised the Islamic State extremist group.
After the arrest of the man, Mehdi Masroor Biswas, on Dec. 13, the state police received threats warning of retaliation.

Gli indiani seguono il ritorno di Latorre con molta attenzione


The Italian government 'will see' if one of the two marines accused of killing two Indian fishermen in 2012 is fit enough to return to India, Foreign Minister Paolo Gentiloni has said. PTI file photo  dal Deccan Herald di Bengaluru

'Will see' if marine is fit enough to return to India: Italy

The Italian government "will see" if one of the two marines accused of killing two Indian fishermen in 2012 is fit enough to return to India, Foreign Minister Paolo Gentiloni has said.

The Foreign Minister said he "hopes" for results in the case of the two Italian marines Massimiliano Latorre and Salvatore Girone.

The remarks come after the Indian Supreme Court rejected a request from one of the marines, Girone, to return to Italy for the Christmas holidays and a petition from Latorre, to extend his stay in Italy for health reasons.

Latorre had flown to Italy after suffering a stroke-like attack earlier this year.
Gentiloni, in a radio interview yesterday, said that "we will see" if Latorre is well enough to return to India as scheduled in mid-January.

The marine's health is an "absolute priority," he was quoted as saying by the Italian ANSA news agency.

The two Italian marines, accused of killing two fishermen in Kerala in 2012, maintain that they fired at them after mistaking them for pirates while guarding an Italian oil tanker.

The marines had been living in the Italian embassy in New Delhi since then waiting to be tried, and were not supposed to leave the country.

The situation has led to tense relations between India and Italy, which says that India has no jurisdiction in the case.

Gentiloni had earlier said, "The harvest (from the dialogue with India) has been very disappointing. If the agreement is what we saw the other day, then we're not going very far. I hope that different roads can be found in the next few days."

Il nemico del mio nemico è mio alleato.



Alberto Pasolini Zanelli
Il nemico del mio nemico è mio alleato. Una massima antica più che mai valida. Anche nel Medio Oriente del ventunesimo secolo. Anche quando l’alleato è scomodo: per esempio l’Iran e gli Stati Uniti. Scomodo ma necessario e allora ci si collabora. Di nascosto finché si può, ma viene il momento in cui bisogna non solo farlo ma anche dirlo. Gli americani cominciano ad ammettere, con cautela e discrezione, di essere di fatto alleati con l’Iran nella guerra contro i terroristi islamici dell’Isis. Non hanno firmato alcun trattato, continuano a guardarsi senza sorrisi, ma hanno lo stesso nemico, lo bombardano e lasciano sapere che lo fanno. A quanto pare Obama e i suoi consiglieri, sia alla Casa Bianca sia al Pentagono, si sono convinti che un rafforzamento della brutale “tribù” del Califfato rappresenta un pericolo molto maggiore e che una collaborazione con l’Iran, pure sgradevole, è necessaria. Lo dimostrano i fatti. Il coinvolgimento militare di Teheran in Irak è costantemente aumentato quest’anno. Dall’Iran sono venuti i più concreti soccorsi al tremolante governo di Bagdad nella lotta contro gli estremisti. Lo dicono gli iraniani, lo dicono gli iracheni, lo dicono oggi anche gli americani. “Gli iracheni erano in condizioni disperate e l’unico Paese vicino a venire in loro soccorso concretamente è stato l’Iran. Hanno mandato più di mille “consiglieri militari”, insieme a unità di elite, hanno condotto attacchi aerei, hanno speso più di un miliardo di dollari in forniture belliche”. È anche considerato possibile che senza l’intervento iraniano le truppe targate Isis avrebbero potuto dilagare fino alla capitale irachena. Il massimo pericolo è stato toccato in giugno, da allora sono in corso controffensive organizzate, condotte e finanziate dall’Iran che hanno sostituito in parte gli Stati Uniti, il cui ruolo è in diminuzione e quindi lascia spazio. L’appoggio di Teheran ai gruppi paramilitari si è intensificato da quando è risultata evidente l’aggregazione di gruppi militanti sunniti che rappresentano una minaccia seria al potere sciita subentrato alla dittatura di Saddam Hussein. Di conseguenza e con l’appoggio iraniano, si è sviluppata una mobilitazione di milizie sciite con un forte afflusso di volontari che oggi rappresentano una forza almeno uguale a quella dell’esercito regolare iracheno. Il governo americano non poteva rimanere estraneo a questa dilatazione del conflitto, anche se lo fa nel modo più discreto evitando o nascondendo contatti militari diretti con l’Iran e facendo passare molte comunicazioni attraverso gli iracheni. I motivi non riguardano solo la Mesopotamia, ma anche la vicina Siria, dove è in corso da tre anni una guerra civile che è costata già oltre duecentomila morti e almeno un milione di senzatetto, profughi in Turchia e in Giordania e dove la situazione è ancora più complessa in quanto quasi tutti i vicini (tranne l’Iran e la Russia che vicina non è) appoggiano, finanziano e armano fazioni anti Assad che contemporaneamente però si combattono l’un l’altra e di conseguenza si indeboliscono, mentre continua a crescere il ruolo dell’Isis. L’alternativa si riduce così al duello tra il dittatore che siede a Damasco e i terroristi che lo sfidano. L’America (e quei suoi alleati europei che per primi hanno acceso tre anni fa la miccia della destabilizzazione siriana) ha esitato a lungo. È stata anzi sul punto di intervenire militarmente in prima persona contro il regime; ma allora non c’era in campo l’Isis.
Talune lobby importanti negli Stati Uniti premono per una scelta anti Assad che a questo punto diventerebbe in favore del Califfato; ma Obama sembra avere, con tutte le sue cautele, deciso in senso opposto. Sarebbe infatti a questo punto impensabile che l’America si schierasse contro l’Isis in Irak e indirettamente in favore dell’Isis in Siria. Il potere del Califfato si estende infatti più o meno egualmente in ambedue i Paesi. Se non ci saranno capovolgimenti considerati improbabili, una collaborazione di fatto tra Washington e Teheran rimarrebbe senza alternative. E potrebbe anche estendersi ad altri settori. La diplomazia di Washington ritiene maturi i tempi per far progredire negoziati sui programmi nucleari dell’Iran. Uno sviluppo che susciterebbe forti reazioni in Israele, dove Netanyahu è più che mai convinto che l’Iran sia il pericolo maggiore e di conseguenza il Califfato Isis il male minore. Egli è ascoltato ma è rimasto quasi solo.

from The New York Times

India and the Right to Suicide

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MUMBAI, INDIA — L. is 21 years old, a Mumbai media professional who wears his hair gelled and his shirts buttoned down. We met at a book reading a few weeks ago, and soon he was telling me about the night two years ago when a friend of his tried to kill herself.
Four friends were at a bar, drunk, L. recalled, when S. said she would never get over the man she was in love with. She went to the toilet and came back wrists bleeding. “The owner freaked and called the police,” L. said. “We cut out quickly and got away before they showed up.”
L. took S. to a hospital, but “the doctors refused to treat her because she was a suicide case.” The police arrived before S. could be brought home and shown to her family doctor. “The policemen said that she was a criminal now and she should be taken to the police station.” And “they said that we were abetting the crime so we should also go to the police station.”
At that point L. did what the young and privileged all over the world do in such situations: He called his father, a well-to-do travel agent. “Dad came to the hospital and slapped me across the face two or three times in front of the police. I think that was to show the cops that he was serious. I think he slapped me so he wouldn’t have to pay too much. We got off with Rs 12,000 (about $190), but there was solid bargaining.”
L. had come up against Section 309 of the Indian Penal Code of 1860, a piece of legislation designed by the very Victorian Lord Macaulay, which punished attempts to commit suicide with a fine or up to a year in jail or both. Aiding or instigating suicide — an offense created later — was punishable by up to ten years in jail, including possibly hard labor.
The rationale for criminalizing attempted suicide is the standard theological argument: Since only God could give you life, only God could take it away. The harsher penalty for abetment arose from something more distinctly Indian.
India has strict laws against demanding a dowry of brides and their families. But even after marriage, women can be harassed by in-laws asking for money, gold or gifts, and some, driven to despair, kill themselves. Criminal abetment to suicide was often used to take such cases to court.
But now, at the instigation of the ruling Bharatiya Janata Party, the law stands to be repealed. This follows a 2008 recommendation by the Law Commission, which suggested that attempted suicide should be “regarded more as a manifestation of a diseased condition of mind deserving treatment and care rather than an offense to be visited with punishment.”
The news comes none too soon, given that India has the world’s highest suicide rate for 15-to-29-year-olds and desperately needs to rethink its approach to mental health. (In many cities, electro-convulsive therapy remains a common treatment for depression and suicidal tendencies; in small villages, the standard cure might be exorcism.) Although the anti-suicide law has rarely been applied, its very existence — and the threat of prison — discouraged people who attempted or considered suicide from seeking help. The authorities would sometimes leverage it for political advantage or to extract money by blackmailing already traumatized families.
When I heard earlier this month that the law was up for repeal, I wept for a while. It was never used against my mother, but I remember the day a police officer came to our home on one of the many occasions when she tried to take her own life. I was about 12 years old. He sat on our dark-red Rexine sofa and talked quietly with my father. He smelled acrid, of sweat in polyester, and refused an offer of tea, the standard gesture of hospitality in middle-class India. He did not ask for money, but my father produced some anyway, thanking him for his time and patience. After the police officer left — having accepted that offer — I asked my father whether my mother would have been arrested otherwise. He said, “I don’t know that I can take the chance.”

"Verra' o non verra'?".

I duemila italiani che lavorano in India se lo stavano chiedendo da tempo, rivoltandosi nel letto durante le loro notti di ansia: "Verra' o non  verra'?".

In cima ai loro pensieri non i problemi della quotidianita', non le relazioni sempre piu' difficili tra la potenza nucleare chiamata India e l'Italia, non la scansione di tragiche notizie che fanno da contrappunto agli ultimi giorni di questo anno 'meraviglioso' per alcuni ma schifoso per la maggior parte della gente.

In cima ai loro pensieri la mancanza di notizie circa l'arrivo della ministro della Difesa Pinotti, pseudo candidata al Quirinale, che avrebbe dovuto sicuramente portare il proprio abbraccio a Salvatore Girone, il marine che e' rimasto incastrato nel comprensorio dell'ambasciata italiana di Delhi (ma assistito da una decina di parenti e figli) non avendo avuto la fortuna di farsi prendere da un coccolone per giustificare la richiesta di permesso in Italia.

Ma siccome il diavolo mette sempre la coda anche nelle buone intenzioni  ministeriali, sembra che le autorita' indiane abbiano negato il visto alla ministra affermando che: "Niente ambasciatore, niente ministro".

Infatti l'assenza dell'ambasciatore Mancini, richiamato per consultazioni dal suo ministro degli esteri, viene interpretata (almeno cosi' dicono i connazionali che hanno canali decennali con le autorita' indiane) come un segnale di ulteriore difficolta' delle relazioni diplomatiche, anche se formulato all'italiana. Al punto che ci si chiede se il visto sara' negato anche al capppellano militare dato che il cardinale Bagnasco ha rotto la felpata cautela vaticana unendosi al coro degli accusatori dell'India.

 Sara' vero? Gli addetti alle pulizie notturne dei portacenere nell'anticamera della ministro ne sono assolutamente convinti.

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La maledizione Malesia



Alberto Pasolini Zanelli
Questa volta non daranno la colpa ai russi. Almeno subito. E neppure ai loro nemici di quella strana ma sanguinosa guerra nelle pianure dell’Ucraina. Questa volta penseranno tutti che, se non è stato proprio un incidente nella sua tragica innocenza, se c’è una maledizione o un complotto esso deve riguardare una tutt’altra area del mondo, quella che include la Indonesia e la Malesia. Due nazioni musulmane che si distinguono però per la moderazione generale della loro politica, per la pacatezza di quella religiosa. Con diverse eccezioni locali, certo, inevitabili quando un Paese come l’Indonesia si compone di più di mille isole e le sue frontiere non sono, di conseguenza, proprio così limpide e indiscusse. La ragione vuole, perlomeno in queste ore in cui più febbrile è l’unica reazione possibile - la ricerca dei rottami nella speranza di trovare qualche superstite – che si parta dall’ipotesi più tragicamente banale: un guasto, una macchina che si rompe, un pilota indotto a cercare di cambiare rotta a causa di una tempesta. Il mistero comincia subito dopo, quando alla richiesta di cambiare la stazione-ombrello a terra, non arrivano indicazioni e si “staccano” invece tutti i contatti.
Il mondo ha ora il triste dovere di riaprire il libretto degli appunti inaugurato questa primavera, quando scomparve il Boeing della Malaysia Airlines diretto a Pechino e spostato invece da una forza misteriosa nelle distese dell’Oceano Indiano. E arricchito qualche mese dopo da un disastro ancora più sinistro, quello del volo in partenza da Amsterdam che si trovò a sorvolare una zona calda dell’Ucraina e fece da magnete a qualche arma tuttora senza una targa. Questa volta la rotta era tutta asiatica, diretta alla pacifica Singapore, decollata da una città più nota finora, almeno in Occidente, per dei riferimenti letterari che non recenti tensioni territoriali (era però una tragedia quella brechtiana di Surabaia Jonny).
La parola, dunque, dovrebbe finire di nuovo ai tecnici. Di sicuro non dovrebbe sussistere la spiegazione che potrebbe esistere se l’aereo dell’ennesima tragedia fosse in qualche modo antiquato. Non lo è, è modernissimo, ha tutto quello che la tecnica del ventunesimo secolo può offrire. Si passerà dunque all’errore umano, poi al caso poi, nella peggiore delle ipotesi, alla leggenda il cui ricordo era già pudicamente emerso al momento del primo incidente: una trasposizione in aria del Triangolo delle Bermude, che era entrato nella leggenda da una locazione caraibica. In realtà l’unica cosa che si possa fare è cercare superstiti, vittime, valigie. L’angoscia è di tutti ma più direttamente per la linea aerea Air Asia, una delle più efficienti e ambiziose del settore low cost: anche se è solo malasorte, anche il diffondersi di certe voci costituisce, eccome, un pericolo. E poi il discorso si allargherà fatalmente a due governi e dunque a due Paesi: la Malesia presa di mira direttamente con i suoi aerei e l’Indonesia che ancora una volta ha pagato di più in vite umane. A questo punto, sia pure nell’assenza quasi totale di indizi che dovrebbe consigliare il massimo di riserbo, è inevitabile che si facciano ipotesi anche riguardanti i due Paesi più direttamente colpiti dalla “malasorte del Mar di Malesia” alla ricerca di “trame”. È il nostro vocabolario, si rifà a tempi per fortuna passati, si nutre di scarsissimi indizi, almeno nell’attualità. C’è qualcuno che dall’ombra vuole “destabilizzare” la Malesia? Sulla base di quanto accade in altre parti del mondo la prima ipotesi forse dovrebbe riguardare gli estremisti islamici. L’Indonesia è il più popoloso Paese musulmano della Terra ma è governato, almeno al suo centro, con relativa moderazione. L’Isis non è di casa da queste parti tranne che in qualche isola dove la religione ricopre faide locali e le frontiere si cancellano negli oceani non solo verso la Malesia ma anche, ad esempio, le Filippine maggioritariamente cristiane. Guerre di religione non sono di moda da quelle parti, non ci sono insediamenti alloglotti importanti. L’Indonesia ha un passato di sangue, ma lontano ormai mezzo secolo e riguarda la sanguinosa repressione da parte dell’esercito nel tentativo di stabilire un regime filocomunista poco dopo la cessazione della presenza coloniale olandese. La Malesia, ex britannica, è retta da un sistema antiquato ma pacifico: è una Repubblica costituita da diversi re.