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Marchionne cancella Chrysler?

Sono attese le dichiarazioni di Sergio Marchionne, CEO della FCA. Secondo la accreditata Automotive News Marchionne dovrebbe annunciare la fine del marchio Chrysler che produce solo due vetture.
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Fiat Chrysler Automobiles CEO Sergio Marchionne is preparing to unveil a sweeping transformation of production in Italy that will see the company stop making the Punto and MiTo small cars in favor of upscale models, according to people familiar with the plan. A historic plant in Turin and another near Naples will be retooled to produce new Maserati and Jeep SUVs, while Panda output will be moved to Poland, said the people, who asked not to be named because the project isn't public. The plan is scheduled to be revealed on June 1. The changes at its Italian roots would complete a historic shift for the company founded in 1899 that grew to become a symbol of the country's postwar industrial boom, mainly by producing cars -- such as the subcompact Fiat 500 -- that ordinary consumers could afford. The refocus is part of Marchionne's last strategy blueprint aimed at shifting western European production to premium cars, boosting the sale of Jeeps worldwide and moving the automaker from diesel to hybrid electric cars, the people said. A final decision about the plan for Italy hasn't been made and some details could still change before the presentation next month, they said. FCA officials declined to comment. Marchionne, 65, who is set to retire as CEO next year, doesn't see a future in making affordable cars in high-wage European countries, said people familiar with the automaker's strategy. Amid a transition over the next decade in the way vehicles are powered, driven and purchased, he has said this "portion of the auto industry risks being commoditized." The changes in Italian production would see FCA stop output later this year of its Punto small car in the southern factory of Melfi, the people said. The Alfa Romeo MiTo entry premium car would be halted at the FCA's main Turin plant, known as Mirafiori, where a second Maserati SUV would likely be added as an addition to the Levante model already coming off its assembly lines. The Turin facility is the historic center of Fiat, having been inaugurated by the fascist dictator Benito Mussolini in 1939 and employing some 50,000 workers in its heyday in the 1970s. The plant now produces fewer than 50,000 cars a year compared with a peak of more than 600,000. At another manufacturing site in Pomigliano, near Naples, FCA will start making a small Jeep SUV after production of the Panda subcompact is moved to Poland, the people said. FCA's strategy, which is centered on the expansion of the Jeep brand, will also mark the end of diesel engines in the automaker's small European vehicles. These cars will be powered by hybrid-electric engines in the future, the people said. The namesake Fiat brand is likely set to shrink further to just the 500 and Panda minicars in Europe with other budget cars to be discontinued, they said. Italian unions have voiced concern about the slow pace at which Fiat Chrysler is adding new products in the market. A three-day temporary layoff in June that will affect more than 6,000 workers has added to those concerns. The shift toward making premium cars in Italy furthers a strategic direction set by Marchionne in 2014, following the acquisition of Chrysler, which gave Fiat access to the U.S. market. A "repositioning" of the carmaker's business in Europe is crucial, he said during a conference call about first-quarter earnings last month. "When I look at the economics, and I look at return on invested time -- forget about invested capital -- return on invested time and the effort that's required to make Europe reasonably profitable, one would have to wonder why one is doing it, because it is fraught with difficulty, it is an incredibly complex jigsaw puzzle," he said. In January, Marchionne said in an interview that the automaker could double profit within five years by exploiting the potential of the Jeep brand. Marchionne, who is embarking on his 15th year as CEO, has not shied from bold decisions on manufacturing. Two years ago, he killed the Dodge Dart and Chrysler 200 sedans and retooled the factories that had been assembling them. These now build Jeep SUVs and Ram pickups. Ford Motor is following Fiat in scrapping sedan production in the U.S. FCA's strategy in North America has so far paid off. The company, which almost halved net industrial debt in the first quarter, reported wider profit margins than Ford during the period and now has its sights on General Motors. Marchionne is aiming to better GM margins in North America before he steps down next year.

Il voto è sull’euro. E l’Europa senza Italia non va da nessuna parte

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 maggio 2018
Solitamente, nei paesi che condividono il sistema proporzionale, le campagne elettorali polarizzano e dividono i cittadini e i partiti che, una volta chiuse le urne, vanno poi alla ricerca del compromesso necessario per formare il governo. Il cammino dell’Italia dopo il 4 marzo ha proceduto nella direzione opposta. Gli accordi fra partiti si sono dimostrati tremendamente difficili e, dopo oltre due mesi di lunghe trattative, è stato sottoscritto un patto fra i due partiti che hanno registrato un indubbio successo ma che, nella campagna elettorale, avevano avuto ben poco in comune.
Divisi sui principali capitoli cruciali (a partire  dalla politica fiscale) non potevano che unificarsi su una forte posizione contro l’establishment. La saldatura fra 5Stelle e la Lega è stata perciò costruita solo su una radicale opposizione nei confronti dei pilastri fondamentali della politica seguita dall’Italia dal dopoguerra fino ad oggi, approfittando anche del malcontento provocato dalla recente crisi economica, dalla disoccupazione, dalla disuguaglianza fra ricchi e poveri e fra Nord  e Sud.
Non desta quindi stupore che il braccio di ferro si sia concentrato sull’Europa e sull’Euro,  cioè sulle colonne portanti della nostra politica interna e della nostra politica estera.
Costituisce perciò un precedente inedito ma non certo una sorpresa leggere nello stesso giorno un’identica presa di posizione contro la nostra politica europea (e quindi contro la decisione del Presidente della Repubblica) da parte di uno dei più autorevoli giornali russi (La Pravda) e da un altrettanto influente esponente della destra americana (Steve Bannon).
Tutto questo sta trasformando radicalmente il quadro delle prossime elezioni: non si tratta più di una contesa fra i partiti ma di un referendum fra coloro che vedono il nostro futuro insieme alle altre democrazie europee e coloro che ci vogliono fuori dall’Euro e quindi dall’Europa, come un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.
Siamo consapevoli degli errori e delle mancanze della politica europea degli ultimi anni ma siamo altrettanto consapevoli che, solo con la costruzione europea, si è formata l’Italia moderna e si è per la prima volta garantita la pace al nostro paese per un periodo di tre generazioni.
Un referendum non può tuttavia guardare al passato ma al futuro e deve mettere il cittadino italiano di fronte alle nefaste conseguenze che l’uscita dall’Euro e la rottura dei legami con l’Europa porterebbero alla nostra economia e alla nostra sicurezza.
Ed è altrettanto evidente che, proprio perché si tratta di un referendum, la necessità di uno stretto ancoraggio alle democrazie europee non può essere portato avanti da un solo partito ma deve trovare impulso in un ampio arco di forze politiche e sociali.
La posta in gioco è così grande che obbliga i leader vecchi e nuovi che condividono questo vitale obiettivo a mettere da parte i loro interessi e le loro posizioni precostituite. E bisogna che essi si rendano conto che, per riunificare e  rilanciare il nostro paese, non bastano i frutti di un’eventuale maggiore crescita ma occorre elaborare finalmente una nuova strategia volta al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale.
Ed è anche ora che i responsabili politici europei si rendano conto che, senza l’Italia, non vanno da nessuna parte. Non pretendiamo assolutamente di essere autorizzati a violare le regole che abbiamo liberamente sottoscritto ma che i governati tedeschi, anche se non possono fare nulla nei confronti degli eccessi della loro stampa, inducano a maggiore prudenza il Commissario Oettinger, affinché non appaia ignorare le regole  della vita democratica dei paesi amici.
Una sovranità che può essere difesa solo con il rispetto delle reciproche regole e che, da parte nostra, non chieda ai nostri partner la ridicola e impossibile cancellazione di una cospicua parte del nostro debito ma che presenti una strategia credibile di rinnovamento della nostra economia e metta altrettanto credibilmente in rilievo i nostri punti di forza, a partire da un attivo della nostra bilancia commerciale che la Francia non si sogna nemmeno di avere.
La difesa di queste nostre legittime posizioni non può essere però portata avanti da chi pensa di stampare moneta come un paese sudamericano o intenda programmare spese che implicano oltre 100 miliardi di deficit.
Nella prossima campagna elettorale i partiti e le forze sociali si pronuncino quindi su come vogliono uscire o come vogliono rimanere nell’Euro e sulle conseguenze di queste decisioni. Abbiamo finalmente bisogno di una campagna elettorale non fondata sulle favole o sui sogni impossibili ma che prepari a prendere una decisione chiara e definitiva sul destino nostro e dei nostri figli.

Riemerge l'America razzista di Trump




Roseanne Barr da anni conduce una sitcom su ABC seguita da 18 milioni di persone.

In un tweet ha detto che Valery Jarrett, assistente per molto tempo del presidente Obama, e' un incrocio con una scimmia.

I massimi dirigenti di ABC hanno immediatamente preso provvedimenti, camcellando il programma della Barr nonostante il danno economico relativo alla pubblicita'.

La reazione di Trump e' stata stupefacente. Ha cominciato ad urlare che si trattava di una decisione idiota tenendo conto dei 18 milioni di spettatori e avvalorando quindi la pesante offesa razzista della attrice.

Questo episodio si inserisce in un contesto caratterizato dal risorgere di miasmi razzisti in linea con il comportamento schizoide del presidente.

Per fortuna vi sono personaggi come il fondatore e CEO di Starbucks che ha deciso la chiusura per un giorno di ottomila caffe' per consentire al personale di fare training etico per evitare il ripetersi di un incidente che ha visto due giovani neri essere stati buttati fuori da uno Starbucks solo per il fatto di avere la pelle scura.

L'elezzione der Presidente




Trilussa

(1930)
Un giorno tutti quanti l'animali
Sottomessi ar lavoro
Decisero d'elegge' un Presidente
Che je guardasse l'interessi loro.
C'era la Societa de li Majali,
La Societa der Toro,
Er Circolo der Basto e de la Soma,
La Lega indipendente
Fra li Somari residenti a Roma,
C'era la Fratellanza
De li Gatti soriani, de li Cani,
De li Cavalli senza vetturini,
La Lega fra le Vacche, Bovi e affini...
Tutti pijorno parte a l'adunanza.
Un Somarello, che pe' l'ambizzione
De fasse elegge' s'era messo addosso
La pelle d'un leone,
Disse: - Bestie elettore, io so' commosso:
La civirtà, la libbertà, er progresso...
Ecco er vero programma che ciò io,
Ch'è l'istesso der popolo! Per cui
Voterete compatti er nome mio... -
Defatti venne eletto propio lui.
Er Somaro, contento, fece un rajo,
E allora solo er popolo bestione
S'accorse de lo sbajo
D'ave' pijato un ciuccio p'un leone!
- Miffarolo!... Imbrojone!... Buvattaro!...
- Ho pijato possesso,
- Disse allora er Somaro - e nu' la pianto
Nemmanco si morite d'accidente;
Silenzio! e rispettate er Presidente!

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Caro Oscar,

ti ricordo in proposito, che “La fattoria degli animali” di George Orwell, 
cui la popolaresca filastrocca che citi pare essere affine, venne scritta 
come parodia dei regimi della sinistra e relativi simpatizzanti più o 
meno interessati.

Come dice la filastrocca, anche i presidenti talvolta, o purtroppo in Italia
 con sempre maggiore frequenza, sono imperfetti. Purtroppo la nomina
 al vertice dello Stato difficilmente dona il distacco dalle passioni politiche
 consolidate. Per adesso tocca tenerci il presidente che abbiamo, come
 si afferma nella filastrocca.

Un abbraccio,

Marco A.
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bellissima, ma qui si allude !!!

Buon weekend!  ML
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Grande Trilussa!👏
Franco B.
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Caro Oscar,hai effettivamente evidenziato con queste colorite parole di Trilussa ..il vero grande problema che “pesa” in Italia oggi….Eccellente ed ineccepibile la risposta che ti ha dato Marco Amadei.Bravo!
Luigia Ghio
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Oscar risponde: 

ringrazio la coppia Amadei (al secolo Marco e Luisa, nome d'arte Luigia) ma temo che la pubblicazione del noto sonetto di Trilussa (che fece imbestialire Mussolini) sia stata interpretata in maniera troppo estensiva, 'ad usum delphini',  almeno per quanto riguarda le intenzioni di chi srive. 

Contrariamente a quanto gli viene attribuito, il vostro redattore apprezza l'impegno del Presidente Mattarella che sta operando per garantire il dettato costituzionale in una situazione estremamente difficile per l'Italia. 

Quanto a Trilussa nessuno puo' smentire che il riferimento ad una insana atmosfera  che ammorba l'Italia sia incredibilmente attuale.

Melania sparita.


See the source image





Melania Trump is missing. There’s no other way to put it. She disappeared into the hospital under suspicious circumstances, the White House ended up refusing to explain what was going on, Donald Trump then claimed she had returned home, and no one has seen her since. Now a particularly bizarre stunt today by Donald Trump raises even more questions about where Melania is, and why.
We’d be content to give Melania Trump some privacy with regard to whatever she’s going through, if not for how dishonestly the Trump administration has been handling the whole thing. Something serious is going on, and if it were the kind of health issue they could talk about, they’d just tell us. Instead the White House claimed Melania was going to be in the hospital for multiple days for a “kidney procedure” that shouldn’t have taken that long. Then, when she was still missing in action after the initially stated timeframe had come and gone, the White House refused to answer the media’s questions about whether she was even still in the hospital. Now it’s gotten even weirder, thanks to her husband.
Today, while outside the White House, Donald Trump told a group of assembled reporters that Melania Trump was inside the White House. He pointed to a window and said “She’s doing great. She’s looking at us right there.” The Washington post and other reporters who were present have confirmed that Melania was not at the window.
In other words, instead of just leaving it alone and hoping the media would move on, Donald Trump has resorted to telling one of his trademark ridiculous lies about it. Since he’s lying about Melania Trump having been at the window, it’s fair to assume he’s lying about Melania being in the White House at all. Where the heck is she? Why is she hiding? Whatever has happened to her, it’s the kind of thing that the White House clearly can’t talk about. If this were indeed some kind of worsening kidney condition, they’d have just said so. (Palmer Report)

Non si farà, per ora


Alberto Pasolini Zanelli

Non si farà, per ora, il vertice fra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. L’annuncio ufficiale è venuto con una lettera di Trump a Kim Jong-un, che si apre con “Caro Presidente” e culmina con un monito nella forma di una raccomandazione al regime di Pyongyang che non è meno di un ultimatum: “Lei parla delle Sue capacità nucleari, ma le nostre sono massicce e tanto potenti che io prego Dio di non essere mai obbligato ad usarle”. C’è una contraddizione evidente dei toni oltre che della sostanza che si può riassumere così: “Io al vertice non ci vengo. Lo cancello”. Con altri protagonisti sarebbe stata una tale sorpresa intrisa di una minaccia con pochi precedenti nella storia ma che in questo caso era stata preceduta da avvertimenti, culminati dalla Casa Bianca in un “programma”: “Fuoco e tempesta”. Un ultimatum senza paragoni, non solo formali, nella storia o almeno in questo “settore” che è l’era nucleare.

Già da un paio di giorni si parlava, magari sotto voce, di un rinvio del vertice e dell’appuntamento a Singapore per il 12 giugno. L’ultima spinta, secondo Trump, è una recente dichiarazione della controparte che ha rivelato una “tremenda ira e aperta ostilità”. Frasi che appaiono inconciliabili con la preparazione di un summit. Ma toni non molto differenti erano venuti negli ultimi giorni anche da parte degli Stati Uniti. In particolare nelle parole del vicepresidente Pence e nelle reazioni da Pyongyang, che contenevano una definizione di “stupido” nei confronti del numero due di Washington, uomo di solito noto per i suoi prudenti silenzi. Una sorpresa che probabilmente contiene una sua spiegazione, per i toni e anche per il momento. Due giorni prima del giudizio espresso dal vice di Trump una serie di concetti analoghi erano stati esposti dall’ultimo esponente della Casa Bianca, appena nominato da Trump e apertamente ostile a ogni trattativa con Kim. Non una sorpresa, questa. L’oratore in questione si chiama John Bolton ed è il più famoso “falco” della classe dirigente americana. Esso conteneva anche e soprattutto un paragone fra le trattative in corso con la Corea del Nord e quelle condotte qualche anno fa con la Libia, sempre sui timori di Washington dell’acquisizione dell’arma nucleare da parte del dittatore di Tripoli, Gheddafi. Le trattative erano durate a lungo, ma si erano chiuse con un successo pieno: Gheddafi aveva rinunciato totalmente ad entrare nel campo dell’arma atomica e l’America aveva ricambiato sospendendo ogni forma di pressioni contro la Libia, a cominciare dai boicottaggi commerciali. Pochi anni dopo, però, scoppiò una rivolta contro il dittatore, che fu appoggiata militarmente e apertamente da alcuni Paesi della Nato, tra cui gli Stati Uniti, con incursioni mirate personalmente a Gheddafi, che fu poco dopo torturato e ucciso. Una citazione, quella di Bolton, che conferma le sue idee e strategie raccomandate.

Anche il ministro americano della Difesa aveva espresso opinioni consimili, ma con toni un po’ più cauti, ma non è escluso che possano però aver contribuito a spingere i due opposti presidenti a uno scontro verbale con pochi precedenti. Per quanto riguarda Trump va ricordato che egli ama scegliere i toni forti, durante la campagna elettorale e anche dopo, dalla Casa Bianca.



Savona pattinatore

Sono pochi a sapere e tanto meno a ricordare (perché l'età del professor Paolo Savona è molto avanzata) che questo luminare della scienza economica quando era direttore generale della Confindustria era solito spendere il suo scarso tempo libero nello sport prediletto: Savona era (non crediamo lo sia tuttora considerando gli 82 anni) un ottimo pattinatore e si esibiva nei viali di Villa Borghese sui suoi roller skates.
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Caro Oscar
stiamo a vedere ! Se lo fanno Ministro l'ottuagenario Paolo Savona credo dovrà indossare ancora oggi i pattini a rotelle per non restare indietro agli altri suoi pari-grado europei. Altrimenti lo spread (differenziale del rendimento tra i titoli decennali tedeschi e quelli italiani) continuerà a salire e l'Italia, ormai ai bordi dell'Europa, uscirà definitivamente dal novero delle Nazioni avanzate per entrare tra le più arretrate. O tempora o mores ! Viva Cicerone.
Dario Seglie, Italy
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Caro Oscar, conosco bene, dai tempi di Armandino Corona, Paolo Savona. È un euroscettico sull’euro dominato dai tedeschi. Come lo sono io. Non vuole certo uscire dall’area Euro, ma battere i pugni sul tavolo sì e questo mi sta bene. Di tutti i candidati ministri è l’unico per il quale tifo. Staremo a vedere. Ti abbraccio. 
Maurizio
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Caro Oscar, 
E' certo la migliore candidatura di questo governo. Però, se lo nominassero Ministro, non credo che potrà durare a lungo proprio perchè è un valido e riconosciuto economista, non un dilettante allo sbaraglio. Guardando la rosa dei candidati al governo, gli unici validi presentati sono Massolo e Savona. Proprio loro, forse, non saranno Ministri. 
 Io sono siciliano e da piccolo vidi il quadro della Madonna delle Lacrime a Siracusa. Credo che ritornerà a piangere per quello che ci aspetta.
Un abbraccio
Aldo

Ci va o non ci va?


Alberto Pasolini Zanelli

Kim Jong-un ha ritirato fuori una bandiera rossa. Non quella ideologica e dittatoriale, ma una bandierina di quelle che dicono “stop”. Un segnale che il vertice con Donald Trump, previsto per il 12 giugno a Singapore, potrebbe essere rinviato o addirittura cancellato. L’annuncio è venuto proprio mentre alcuni membri della delegazione nordcoreana stavano per partire e poco dopo un segnale venuto dai consiglieri americani, ma preceduto da una dichiarazione cauta di Trump, il quale evidentemente ritiene di potersi permettere un colpetto di freno perché nel frattempo ha ottenuto qualche altro successo in politica interna, non così clamoroso come ipotesi avanzata l’altro giorno, ma bastevole per tenere buoni gli indecisi, mentre maturano le due settimane di tempo che restano.

Ma nel frattempo entra nel giro dei pronostici una concreta possibilità, che il vertice venga addirittura cancellato e che a Singapore non ci vada nessuno. Lo ha detto Trump in persona. Ma la sua intenzione rimane quella di andarci, magari più tardi e con obiettivi più modesti. Questo perché le parole nuove intervenute sono qualcosa di più delle frasi risonanti che il dittatore di Pyongyang preferisce. Gli esperti nordcoreani lo hanno messo in guardia per pericoli concreti, il principale che un viaggio così lontano da casa espone il presidente a un colpo di Stato militare o almeno a dei tentativi di rubargli il posto. Inoltre gli americani stanno alzando le richieste. Non Trump personalmente, in questo caso, ma per esempio il nuovo Segretario di Stato Mike Pompeo ha avuto occasione di incontrare di recente Kim e ha esposto le sue previsioni ed aspettative per una denuclearizzazione globale della penisola coreana, uno scambio che comprenderebbe l’allontanamento delle armi nucleari americane dalla Corea del Sud accompagnato dall’accettazione da parte di Washington delle richieste delle garanzie di sicurezza americane alla Corea. Ancora più pericoloso per la Corea del Nord è considerato l’ingresso nel ristretto circolo dei consiglieri di Trump di John Bolton, sia per il suo passato di incitamenti bellici prima che un altro presidente repubblicano lo mandasse a casa e che Trump lo recuperasse. Bolton, fra l’altro, ha più volte citato come esempio e “operazione felice” le trattative condotte con Gheddafi, concluse con la promessa mantenuta dal dittatore libico otto anni dopo di rinunciare all’opzione nucleare. Tutti sanno che la vulnerabilità che ne è derivò aprì la strada a un golpe e a un assassinio di Gheddafi che aveva tutte le caratteristiche del linciaggio.

Anche per questo Trump ha cercato di tranquillizzare quelli di Pyongyang assicurando che Kim “rimarrà al potere quali che siano gli accordi che egli sottoscriverà per la rinuncia della Corea del Nord alle armi nucleari. Lo garantisco personalmente. Sarà al sicuro, sarà felice, il suo Paese sarà ricco, operoso e prospero”. Promesse che paiono anche adesso eccessive ad alcuni fra i più influenti consiglieri del presidente Usa, che continuano a ricordargli, in privato ma anche in occasioni semipubbliche, che del regime di famiglia di Kim non ci si può fidare e che il giovane dittatore (avrebbe poco più di 30 anni) cerca di darsi un’immagine di potere leader globale e anche per questo non ha intenzione reale di rinunciare all’arsenale atomico. Ogni segnale da Pyongyang merita dunque, per la maggior parte dei governanti americani (con l’eccezione di Bolton e, in parte, anche di Pompeo), di essere accolto con cautela e senza l’ansia di far presto. Washington ha finora preferito questa opzione, anche nell’ultimo incontro con Kim di esponenti del governo sudcoreano, incluso il vertice fra Kim e il primo ministro di Seul, Moon in quella che si chiama zona smilitarizzata e che è in vigore dal 1953 a conclusione non ufficiale della guerra, seguita alla resa sotto una pioggia nucleare del Giappone, di cui l’intera Corea era una colonia.

Ad auspicare una riunificazione erano stati finora soprattutto gli occidentali, e dunque l’America che ha tuttora una presenza militare e nucleare in Sud Corea: un privilegio che Kim vorrebbe assolutamente abolire per garantire la continuazione del suo potere dittatoriale, nonostante i consigli che gli vengono dai sudcoreani, dalla Cina e, con voce molto più bassa, dalla Russia. Suscitando le speranze della Corea del Sud, il cui responsabile per la sicurezza nazionale, Chung Eui-Yong, crede al punto di avere dichiarato molto di recente al suo leader che “il vertice ha ancora il 99,9 per cento delle probabilità di svolgersi”.

Il futuro dell’America? Roma.


Alberto Pasolini Zanelli

Il futuro dell’America? Roma. Lo prevede una rispettata scrittrice politica degli Stati Uniti, a conclusione di un’approfondita immagine. Non è una promessa, bensì una via di mezzo tra una previsione e una sirena d’allarme. Ad azionarla è Anne Appelbaum dalle colonne della Washington Post a conclusione di una analisi delle possibili conseguenze dell’attuale fase critica dei rapporti fra l’America e i suoi amici europei. Un matrimonio che potrebbe finire in divorzio per colpa di entrambi gli sposi: l’America sedotta da Donald Trump e l’Europa impersonata da una classe politica ovunque in crisi.

Il tempo dell’amore che passa coincide con la metà degli anni del ventesimo del secolo: la luna di miele con la presidenza di RR, il regalo di nozze è l’abbattimento del Muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, la morte del comunismo e la fine della Guerra Fredda. Mai l’America fu tanto felice, mai l’Europa così rilassata. Roma non ebbe mai tanti motivi di festeggiamento, mai fu tanto felice e l’Europa mai così rilassata. Non era stata direttamente minacciata come altre capitali nel simbolo di un momento tanto promettente nella storia d’Italia così lunga. Gli statisti di Washington si preparavano a godere delle Vacanze Romane, l’americano qualunque gli anni più gloriosi del suo impero.

Non è andata così. Non sta andando così. La crisi matrimoniale stava già per esplodere anche se per un bel po’ pochi la videro arrivare. Adesso sta già per cambiare, anche se per un bel po’ pochi la prevedevano. Una crisi molto grave era stata superata anche se non dimenticata, i cicli erano e sono contaminati dalle bufere interminabili nel Medio Oriente. Fino a poco non era più una commedia, anche se oggi non è ancora una calamità. Ma le bufere sono molte. Sono in cartello artisti drammatici di valore. Trump non ha perduto nulla della sua carica che molti ormai conoscono e stanno ispirando timore. Un controcanto di molti, alcuni dei quali debellati o quasi ma sempre più assetati di potere suscita o susciterebbe il dovere di rispondere per le rime. Il Congresso di Washington ha perduto i suoi tradizionali poteri di moderazione. Hanno smesso di provarci, sembra che più si lascia andare, più cresca la popolarità della Casa Bianca. Lui continua a scegliersi dei collaboratori soprattutto enumerando le loro qualità di intransigenti, nei confronti del nemico ma anche, sembra, dei tradizionali alleati. Più sono mordaci le critiche, più Donald ci guadagna in popolarità. L’opposizione ovviamente si oppone, ma soprattutto enumerando le avventure femminili del presidente, che però sembrano agevolarlo o almeno rifornirlo di notizie non fatte per distruggere il vigore di un uomo politico. Se accade, Trump sa rispondere per le rime.

Quanto agli alleati esterni sembravano fino a poco fa rassegnati ad accontentarsi di una vecchia battuta: “Con degli amici così, non c’è bisogno di cercarsi dei nemici”. Un giornale tedesco autorevole come lo Spiegel attrae i suoi lettori segnalando test di opinione pubblica dominati per due terzi dall’approvazione di una fase fino a poco fa inedita: “Resistenza contro l’America”. Molti giudicano Trump oggi più pericoloso di Putin e concordano, perfino nei Paesi dell’Europa del Nord, incoraggiati anche dalla congiuntura economica, per loro felice. Quanto agli americani potrebbe darsi che la coincidenza fra i malumori di casa e la sorprendente indicazione di un esempio da seguire potrebbe suscitare nei legislatori in riva al Potomac a una piacevole distrazione: “Prima di giudicare – potrebbero concludere – aspettiamo di sapere cosa succederà a Roma. Potrebbe essere davvero che laggiù ci sia il futuro dell’America”.



Capaci: 23 maggio 1992

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Venivo dall'aeroporto di Palermo dove avevo accolto una delegazione guidata da un noto avvocato di Washington.

Ci siamo imbarcati in un paio di van Mercedes e abbiamo imboccato l'autostrada.

Ma arrivati a Capaci gli ospiti americani di origine siciliana hanno chiesto di fermarsi nel luogo in cui 26 anni fa, il 23 maggio del 1992, una bomba ad alto potenziale (si parlò di 500 chili di esplosivo) disintegrò l'auto del giudice Falcone, di sua moglie e quella dei tre militari della scorta.

Quelle immagini e quell'urlo di impotenza ci attanagliavano lo stomaco mentre l'onorevole giudice Romina Incutti ci ricordava in italiano e poi in perfetto inglese i particolari di quell'episodio della guerra mai risolta tra lo Stato italiano e Cosa Nostra.

La signora giudice aveva preso la parola al termine della messa italiana delle 10:30 nella chiesa del Rosario, il punto d'incontro degli italoamericani e italiani che vivono a Washington e nelle contee viciniori della Virginia e del Maryland.

Falcone aveva introdotto una nuova tecnica investigativa che si basava sui trasferimenti di danaro.

La giudice Romina Incutti che all'epoca aveva da poco iniziato la sua carriera di magistrato presso la procura di Sciacca, ha ricordato alle centinaia di fedeli che affollavano la Chiesa che il giudice Falcone era stato uno dei più attivi organizzatori del maxi processo antimafia che doveva portare alla condanna di 360 appartenenti all'organizzazione criminale. Grazie anche alla testimonianza di Tommaso Buscetta, uno dei primi pentiti di Cosa Nostra.

Giovanni Falcone la moglie Francesca Morvillo, e i tre poliziotti Rocco di Cillo, Antonio Montinaro e Vittorio Schifani furono disintegrati nell'attentato organizzato da Salvatore Riina che voleva vendicare le dozzine di mafiosi condannati del maxiprocesso.

Nel cortile dello FBI vi è una statua del giudice palermitano. Grande era l'attenzione e l'ammirazione per questi magistrati che con grave pericolo personale sentivano tuttavia l'impegno totalizzante della propria missione.

Pagando con la vita (Paolo Borsellino) questo loro impegno morale prima ancora che professionale intralciato spesso dalle connivenze dello Stato con la criminalità organizzata

Ogni tanto leggiamo di sfregi alla memoria di Falcone nella sua Palermo commissionati a qualche picciotto da qualche uomo di panza per ricordare che la guerra continua.

Oscar
Hon. Romina Incutti

Mezzogiorno: sgravi fiscali per attrarre i pensionati


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 maggio 2018
La concorrenza fiscale è uno degli sport più praticati dai governi, non solo nei confronti delle imprese ma anche delle persone. Infiniti dibattiti politici e autorevoli media ne hanno sviscerato soprattutto gli aspetti negativi, che non sono certo pochi. Questa concorrenza vede ovviamente in primo piano i così detti “paradisi fiscali” ma molti paesi europei ne sono robusti attori, da Malta fino all’Irlanda, passando per il Lussemburgo e, ovviamente per la Svizzera dove, per gli stranieri che vi si trasferiscono portando con sé un minimo imponibile di 400.000 Euro, l’imposta conseguente non è calcolata sul reddito ma solo sui consumi.
In questa gara così particolare si è recentemente aggiunta l’Italia, anche se con un provvedimento modesto rispetto a quello dei paesi concorrenti. Esso prevede il pagamento forfettario di un’imposta di 100.000 euro per coloro che non risiedono da almeno 10 anni nel nostro paese e decidono di tornare o di trasferirsi in Italia. Un provvedimento non confrontabile con quello dei paradisi fiscali ma che ha avuto tuttavia un certo successo.
In tutti i casi precedentemente ricordati si tratta di provvedimenti per attrarre le risorse di persone benestanti.
A fianco di questa si è sviluppata una concorrenza fiscale più modesta ma che, con l’invecchiamento della popolazione, ha assunto un’importanza economica non certo trascurabile. Intendo le facilitazioni fiscali concesse ai pensionati stranieri che si trasferiscono in altri paesi.
Si tratta ormai di centinaia di migliaia di persone a livello europeo che portano la loro residenza effettiva (in genere per almeno 6 mesi all’anno) in paesi dove, con il ricavato della loro pensione, possono vivere più agevolmente e in condizioni ambientali più adatte alla loro età.
In Bulgaria, ad esempio, l’aliquota viene fissata al 10%, mentre in Portogallo si prevede l’esenzione fiscale totale dei redditi da pensione per un periodo di dieci anni.
È vero che le istituzioni internazionali (come l’OCSE e l’UE) si sono pronunciate contro queste agevolazioni che violano il principio della concorrenza ma non vedo perché, se vengono permesse ad alcuni paesi, non vengano permesse ad altri, dato che, con questa diversità di politiche, il principio della non concorrenza viene evidentemente violato.
Tre sono in genere le calamite necessarie per attirare questi pensionati: il clima mite, il basso costo della vita, e un regime fiscale favorevole.
Quanto al clima mite non vedo concorrenza possibile alla Sicilia e a tante altre parti del nostro Mezzogiorno mentre, riguardo al costo della vita, esso si posiziona in una situazione intermedia tra i paesi europei a più basso reddito e quelli più ricchi, compresa l’Italia del Nord. Non capisco quindi perché non si possa decidere che anche in una parte del nostro Mezzogiorno (ad esempio la Sicilia dove il clima non è diverso da quello della Tunisia) sia applicata una sostanziale esenzione fiscale o un’aliquota minima per gli stranieri che si vogliano trasferire negli anni di pensionamento.
A quale area territoriale convenga estendere questo beneficio lo dovranno naturalmente decidere i futuri governanti, tenendo presente che, più grande sarà quest’area, minori saranno le possibilità di potere mettere in atto questo provvedimento. Se si trovassero ostacoli insormontabili (ma date le situazioni attuali non vi dovrebbero essere) si potrebbe aggiungere l’obbligo per il pensionato di acquistare o di prendere in affitto un’abitazione vuota da almeno tre anni. Il che non è certo difficile, dato che tutto il Sud è pieno di abitazioni vuote.
Non è questo ciò che io ho sempre immaginato per fare finalmente decollare il nostro Mezzogiorno, dove il clima e le condizioni ambientali dovrebbero essere in grado di attirare i giovani più creativi e le imprese d’avanguardia, ma debbo prender atto in primo luogo che, dove queste modeste misure fiscali sono state adottate, i vantaggi economici sono stati rilevanti e, in secondo luogo, che esse hanno contribuito a creare innovazioni (come ad esempio collegamenti aerei o nuovi sistemi sanitari) che hanno fortemente aiutato lo sviluppo economico della regione.
Credo che mettere in atto qualcosa di concreto e che abbia successo sia già un grande passo in avanti per regioni ormai da troppo tempo abituate a perdere.
Mi resta solo un’ultima raccomandazione: che le misure da adottare (compito assai semplice) e le limitate aree alle quali applicarle (compito assai difficile) siano decise in modo rapido e condiviso. Se si aprono le lotte politiche e cominciano le faide territoriali anche questo pur modesto e semplice progetto è destinato a fallire.

Summer Franca's Collection 2018






My very best felicitations to Franca !!!

Dario
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Complimenti. Alcune ‘mises’ sono molto belle. Maurizio V.

Che palle anche questo massacro....!

Slide 1 of 23: Emergency crews gather in the parking lot of Santa Fe High School where at least eight people were killed on May 18, 2018 in Santa Fe, Texas. - At least eight people were killed when a student opened fire at his Texas high school on May 18, 2018, as President Donald Trump expressed "heartbreak" over the latest deadly school shooting in the United States. The shooting took place as classes were beginning for the day at Santa Fe High School in the city of the same name, located about 30 miles (50 kilometers) southeast of Houston."There are multiple fatalities," Harris County Sheriff Ed Gonzalez told reporters. "There could be anywhere between eight to 10, the majority being students." (Photo by Daniel KRAMER / AFP)        (Photo credit should read DANIEL KRAMER/AFP/Getty Images)


Santa Fé, nove studenti morti +1 insegnante, 10 feriti tra i quali qualcuno in gravi condizioni. Preso il sospetto assalitore con nome greco, 17 anni, descritto come un monomaniaco che indossava lunghe palandrane secondo la moda dei killer iniziata con il massacro di Columbine.
Parole di circostanza del presidente che promette farà del suo meglio per risolvere questo grave problema della sicurezza nelle scuole. Affermazione questa fatta pochi giorni dopo il suo trionfale discorso alla assemblea della National Rifle Association, l'associazione dei fabbricanti di armi.
Diventa virale la foto della studentessa presa di spalle avviata a ricevere l'attestazione della sua laurea, che ostenta un mitragliatore AR 10 messo a tracolla.
Il popolo bue americano distoglie presto lo sguardo dall'ennesimo massacro di studenti, perché la morte di questi giovani e del loro insegnante non dice niente di nuovo in termini di comunicazione: una news che si scolora nel brodo allungato delle uccisioni che affollano il panorama sociale di questa America e che ormai non fanno più notizia.
Come non fanno più notizia i giovani studenti che cercano in qualche modo di organizzare una sollevazione dell'opinione pubblica contro un sistema caratterizzato da 450 milioni di armi su una popolazione totale di 327 milioni.
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Il popolo bue ingurgita fast food di fronte al televisore sempre acceso:

"Che palle questi ragazzi ammazzati a Santa fé, meglio sintonizzarsi sulle ultime notizie del prossimo matrimonio reale inglese.

E poi i media liberali e comunisti si sono già buttati su questo episodio di Santa Fé per invocare misure restrittive per l'acquisto e il possesso delle armi o addirittura della modifica del Secondo Emendamento della Costituzione americana.

Che palle i governatori di otto Stati su 50 della Federazione che dicono di avere approvato leggi che limitano la vendita e la circolazione delle armi.

Che palle questo incessante tambureggiare di notizie negative su questo presidente che fa cose per l'America e non discorsi. 

Lui sì che dovrà avere il premio Nobel per la pace altro che quel negro che è stato installato per otto anni alla Casa Bianca.

Lasciamo sfogare le prefiche televisive di sinistra, tanto fra qualche giorno tutti si saranno dimenticati anche di Santa Fé come si sono dimenticati delle decine di altri massacri.

Che palle: per fortuna l'economia tira ancora e non c'è da preoccuparsi. Donald Trump ci protegge e mantiene le promesse fatte in campagna elettorale.

Quello che importa è la salute di Melania, lei sì che e' una first-lady, mica quella negra figlia di puttana che ha abitato per otto anni nella White House di Washington."

(Oscar)




caro Bartoli .:.,

vorrei dire la mia sul 2" emendamento che io giudico sacrosanto. Sara'  pur vero che i pazzi USA usino le armi non come strumneto di democrazia ma per uccidere a sangue freddo, ma non mi risulta che in Svizzera, dove di armi ce ne sono, proporzionalmente al numero di abitanti, piu' che in America, accadano episodi come quelli del texas... quindi? quindi a monte c'e' una questione di educazione prima che di facilita' nell'acquisto di armi. 
silvestro Silvestri
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Ciao Oscar,

nell'ultimo anno ricevo poche tue  Newsletter, è una scelta editoriale oppure sono andate perdute?

A proposito dell'ennesimo massacro di Santa Fè: è vero non fa più notizia, tanta ormai è l'abitudine alla quasi quotidianità di questi tragici eventi. 

In televisione seguo da sempre la serie Homeland (non so anche in Usa si chiami così). Proprio questi ultimi episodi narrano di un gruppo di fanatici che, con ogni tipo di armi da guerra, sfidano la Cia, ingaggiando una sparatoria mortale.

Chi non segue le vicende americane potrebbe pensare ad un'esagerazione di fantapolitica, poi, però, le cronache confermano che purtroppo è una realtà abituale, difficilmente da debellare visti gli interessi multimiliardari che ci sono dietro.

Così un giorno sì e l'altro si compiono massacri.

Un abbraccio,

Massimo Rosa

Verona
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Prodi: «I partiti populisti? Una via di fuga. È da vedere se saranno all’altezza»



by Irene Soave

Lei ha conosciuto il Dopoguerra e la guerra fredda, gli anni di piombo e Tangentopoli, la rincorsa all’Europa e il mondo post-11 settembre. Eppure oggi si dice “allarmato”. Lo è mai stato quanto ora?

«No».

Lo incontro nell’ufficio della Fondazione per la Collaborazione fra i Popoli davanti alla Chiesa del Barracano, a Bologna. È il pomeriggio in cui Lega e Movimento 5 Stelle hanno annunciato di voler governare insieme. Romano Prodi, classe 1939, di governi ne ha guidati due: tra il 1996 e il 1998 e tra il 2006 e il 2008. La sua seconda presidenza del Consiglio è iniziata l’anno in cui io votavo alle politiche per la prima volta. È stato presidente della Commissione Europea (1999-2004) e per due volte dell’Iri (1982-1989 e 1993-1994); ministro dell’Industria (nel 1978) e docente universitario come altri cinque dei suoi otto fratelli, figli di un ingegnere e di una maestra. Ha ottenuto, nel corso della sua vita, centinaia di onorificenze e medaglie: tutte, tranne la Legion d’Onore, gli sono state rubate da due ladre d’appartamento, inquadrate dalle telecamere di sicurezza, pochi giorni fa.

«C’è di peggio», dice, «star male di salute è peggio. Ma quel che più mi ha mortificato è stato scoprire che tutti quelli con cui ne ho parlato avevano già subito un furto in appartamento. Cioè se sei italiano, almeno una volta nella vita, ti rubano in casa. Fa arrabbiare, no?». Nel 2013 la sua candidatura al Quirinale fu prima decisa in una standing ovation dai grandi elettori del Pd e poi affossata da più di un centinaio di franchi tiratori. Lui si era già ritirato dalla vita politica.

NEGLI ULTIMI 12 MESI ha presieduto una commissione dell’Elti, l’associazione che riunisce le casse depositi e prestiti e le banche pubbliche europee, per progettare un piano di investimenti in infrastrutture sociali: cioè scuola, sanità, edilizia popolare. Il piano, «che la Commissione Europea ha accolto molto bene, anche se per ora in maniera informale», spiega, prevede di raccogliere 150 miliardi l’anno da investitori privati e pubblici, da aggiungere ai fondi che l’Europa già dispone per queste spese.

NEGLI ULTIMI 12 MESI ha presieduto una commissione dell’Elti, l’associazione che riunisce le casse depositi e prestiti e le banche pubbliche europee, per progettare un piano di investimenti in infrastrutture sociali: cioè scuola, sanità, edilizia popolare. Il piano, «che la Commissione Europea ha accolto molto bene, anche se per ora in maniera informale», spiega, prevede di raccogliere 150 miliardi l’anno da investitori privati e pubblici, da aggiungere ai fondi che l’Europa già dispone per queste spese.
Le elezioni, da noi, le hanno vinte i partiti euroscettici.

«Ma anche in Polonia, in Ungheria. E in Germania, in Olanda, nella stessa Spagna, gli euroscettici si sono irrobustiti. Per questa malattia c`è un solo anticorpo: consegnare, cioè, all’inglese, deliver, fare politica efficace. Andare incontro alla gente, far vedere che si fanno le cose. Detto ciò, la crisi dei sistemi democratici è mondiale. C`è ovunque una tendenza all`autoritarismo, dalle Filippine alla Cina, dalla Turchia alla Russia. Lo stesso Trump si muove in questo solco, pur nei pesi e contrappesi della società americana».

Ma l’Europa unita, nata dopo le guerre mondiali, non ha valori diversi?

«Li aveva. Oggi è più complicata. Il motore franco-tedesco non va in modo armonico. La Francia si è appaltata la politica estera. La Germania, di contrappeso, la politica economica. Whisky e soda non stanno assieme. Kohl e Mitterrand, tra i padri dell’Europa, si erano messi nei panni di tutti gli europei. Oggi Francia e Germania sono nei panni di se stesse, e nemmeno più l’una dell’altra. Ognun per sé».

Chi è stato per lei l’europeista più Importante?

«Helmut Kohl, severissimo ma equilibrato. E Jacques Chirac, che pure aveva un profondo nazionalismo. A un vertice, un giornalista ci vide insieme e gli disse: “Ma cosa fate, che tanto fra poche settimane la Francia sarà nell’euro e l’Italia no”. Chirac lo fulminò: “II-y-a pas d`Europe sans rifalle” (qui il professore si lascia andare a una cadenza franco-bolognese, ndr), “non c’è Europa senza l`Italia”. Era cioè uno che aveva il senso della storia. Ecco, l’errore è stato non proseguire nella direzione della storia. Le novità degli ultimi 10 anni – l’economia digitale, i colossi come Amazon e Alibaba – sono americane o cinesi. Se fossimo davvero uniti saremmo noi i numeri uno, come lo siamo nella produzione industriale ed export. Oggi l’Europa è un pane mezzo cotto: cattivo, indigesto, ma non si può tornare alla farina e all’acqua. Per farlo diventare buono non si può che finire di cuocerlo».

AL PROSSIMO FESTIVAL della Coesione Sociale di Reggio Emilia (dal 24 al 26 maggio, www.socialcohesiondays.com), Romano Prodi parlerà di disuguaglianza. In Italia, ad esempio, un quarto della ricchezza è in mano al 10% della popolazione. Prima di incontrarlo, ho letto molte sue interviste in archivio. Nel 1978, appena nominato ministro dell’Industria, diceva che in Italia «c’è una scissione fra chi è dentro e chi è fuori». E nel 1997 che «l’Italia è divisa fra tutelati e non tutelati». Altri due decenni sono passati, e gli racconto che oggi, lavorando da una decina d’anni, ho maturato il diritto a 82 euro mensili di pensione. Ridiamo amaramente. «Era giusto dire queste cose nel 1978», mi risponde, «e nel 1997. Ma è innegabile: le diseguaglianze sono aumentate, ovunque, sempre».

Ma perché?

«In parte per la finanziarizzazione dell’economia, in parte per un problema fiscale. Le aliquote massime sono diminuite. Nel 1978 non avremmo mai sentito parlare di flat tax. Oggi è programma elettorale, e chiunque parli di aumentare le imposte perde le elezioni. Non ha il voto neanche di coloro che ci guadagnerebbero. Nessuno ha mai voluto pagare le tasse. Chi ha osato dire che sono belle, Tommaso Padoa Schioppa, è stato massacrato. Però credo che nei prossimi anni cambierà la coscienza che abbiamo del problema. I dati che ci martellano negli ultimi mesi, sugli italiani poveri, su quelli sotto la soglia di povertà, sui cosiddetti working poors occupati ma poveri: tutto ciò ci spingerà a correggere il tiro. Per ora, però, l’elettorato non si è ancora svegliato. E ha votato per chi gli sembrava in grado di proteggerlo».


Perché la sinistra ha smesso di essere un riferimento per le categorie vulnerabili?

«Perché non è stata capace di difenderle. La storia è andata così: non le ha difese nessuno. La globalizzazione ha tolto dalla miseria miliardi di persone, ma non è stata governata con regole che evitassero di marginalizzare i più deboli. Neanche la sinistra negli ultimi vent’anni è stata in grado di farlo. Non ne ha avuto la forza o non ne ha avuto la coscienza. Ma soprattutto non ne ha avuto la forza, di fronte a un potere che era più grande, quello del corso dell’economia, della tecnologia».

Come può riacquistare rappresentanza?

«Beh, per la gente questi nuovi partiti populisti sono una via di fuga. È da vedere se poi sono alternative all’altezza».

All’inizio di questa intervista si è detto “allarmato”.

«Viviamo in un momento di incertezza totale, globale. Un tempo si era certi che alcuni parametri – quelli per stare in Europa, il rapporto debito/Pil, le alleanze internazionali – sarebbero stati comunque rispettati. Invece oggi sembra saltare tutto. Le pare normale che Trump ripudi il trattato sul nucleare iraniano, un patto che ha richiesto 12 anni per arrivare alla firma, con altri sei Paesi? lo non dico che così si arrivi a una guerra, per carità. Ma è logico essere allarmati».

Così questo, di tutti i momenti storici che ha vissuto…

«…mi sta dicendo che sono vecchio? Guardi, corro 9 km in meno di un’ora a mattine alterne, ho quasi smesso di fumare il toscano. La vecchiaia bisogna anticiparla, cioè vivere come se si avessero 10 anni di meno. Viaggiare, andare in Cina e il giorno dopo a Roma. Essere insomma un po’ incoscienti. Poi un giorno pum, scoppieremo. Il botto sarà improvviso e unico. Siamo mortali, e come tali dobbiamo comportarci».

Lei alla mia età com’era?

«Grasso. Nell’animo ero come oggi, un incosciente. Non sono cambiato. Anche quando sono stato rottamato… ho visto con soddisfazione che poi il prezzo del rottame saliva. Mi chiamano a fare tre, quattro conferenze al giorno, ne scarto la massima parte. Ieri ho fatto lezione in una terza media. Dovevo spiegare loro la Cina. Ho detto loro: la Cina è un Paese che ha 22 volte gli abitanti dell’Italia. Con città grandi 500 volte Bologna. Bisogna spiegarle così, le cose, ai ragazzi. E tutte queste persone devono mangiare, ora chiedono la carne nel piatto tutti i giorni. Vede, c’è stato un grande cambio di prospettiva del partito comunista cinese. Un tempo si ponevano verso le democrazie liberali dicendo “cosa volete, siamo un Paese in via di sviluppo…”. Oggi ci guardano e dicono: voi avete un problema, noi cresciamo senza i diritti, facciamo star meglio la nostra gente, voi non siete capaci di farlo più».

GLI ARRIVA UN SMS. «È un mio amico. Dice: c’è il Giro d’Italia sull’Etna, quando ci andiamo noi? La mia decisione più giusta è stata vivere a Bologna. Ho la famiglia, gli amici. Se avessi traslocato a Bruxelles… non è che a settant’anni ti fai degli amici nuovi. Io vivo nella stessa casa da 50 anni».

Ed è sposato da 49 anni con Flavia Franzoni. Come si fa a stare insieme a lungo?

«Nel mio caso, bisogna avere una moglie paziente (ride). Anzi lo chieda a lei, che per me si è sacrificata molto. Conta avere interessi comuni. Ma più di tutto sono incontri fortunati. È come in politica: le persone stanno dove stanno bene. Se no, si cambia. Noi stiamo bene».
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Prodi chi? Colui che ha svenduto la nostra  Lira 1926 volte ? 
Caro Bartoli, tienimi informato di altri nostri successi europei. Te ne ringrazio.
Marcello Di Luise    
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Fortissimo!
Franco B.
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Caro Oscar, 
È un’intervista “umana”, schietta, senza fronzoli ed orpelli: mostra l’uomo com’è. Anche senza amarlo, bisogna stimarlo ed apprezzarlo. Se non avesse avuto due forti nemici, come Baffetto e Renzi, forse adesso saremmo in una situazione politica diversa. Con lui Presidente al posto dell’attuale, le cose sarebbero andate diversamente. Peccato!
Mi ha particolarmente colpito la sua riflessione su Chirac e Kohl ed il suo lapidario giudizio su Merkel ed il Francese: ognuno pro domo sua e noi nel guano.
Grazie sempre per queste perle d’interviste  e delle riflessioni a cui ci portano.
Aldo N.
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