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Elezioni di mezzo termine, mezzo guaio per i democratici



Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Mai l’esito di una tornata elettorale americana ha suscitato meno incertezze e dunque meno curiosità di quella 2014. E dire che è la più importante dopo le battaglie per la Casa Bianca. Riguarda, infatti, l’intero Parlamento di Washington: la totalità della Camera e un terzo del Senato, cioè esattamente il numero di seggi che decide nel rapporto fra maggioranza e minoranza, democratici e repubblicani. Sulla carta dovrebbe essere una gara serrata e dunque incerta, almeno per quanto riguarda il Senato. Non ci sono dubbi che la Camera rimarrà in mano dei repubblicani, che già sono maggioranza, anche perché i seggi veramente in palio sono pochissimi, meno di uno su dieci. Dal punto di vista numerico vincitori e vinti dovrebbero dunque emergere dal voto senatoriale. I democratici mantengono nella Camera Alta una maggioranza risicata e il calendario provvede a che loro siano gran parte dei seggi in “pericolo”. Dovrebbe essere, dunque, una lotta serrata, di quelle che provvedono una tradizionale lunga notte di scrutini.
Così non è. Lo dicono, con cautela, i sondaggi, lo affermano vigorosamente i comportamenti dei candidati democratici che, lungi dal contrattaccare nelle ultime settimane, giorni e ore dopo due anni almeno di martellante offensiva dell’opposizione repubblicana, si sono comportati quasi tutti come se la loro preoccupazione massima fosse quella di distanziarsi da Barack Obama, in molti modi ma soprattutto in quello più concreto e “comodo”: non farsi vedere in sua compagnia. Normalmente il presidente, che è anche il leader di uno dei due partiti, getta il suo prestigio sulla bilancia, scende gli scalini della Casa Bianca per salire sul ring elettorale, invocato dai suoi compagni di partito, soprattutto dai più deboli e dai più vulnerabili nelle indicazioni elettorali. Quest’anno è accaduto esattamente il contrario: è stato quello della Grande Fuga. Gran parte degli esponenti democratici si sono comportati come se la vicinanza di Obama fosse il “bacio della morte”. Si sono sforzati di dire “io non c’entro”. Hanno cercato di salvare la propria pelle anche a costo di indebolire il partito, le sue gerarchie, le sue idee. Al punto che i repubblicani, agguerriti e spietati per sei anni di amministrazione Obama, hanno rallentato nelle ultime settimane il vigore dei propri attacchi come se fossero convinti di dover vivere di rendita o che, in un altro paragone, gli convenisse e gli bastasse “addormentare la palla”. Tranquilli gli uni, rassegnati gli altri, l’appuntamento alle urne è perfino uscito dalle prime pagine, soprattutto da quelle che contano, quelle elettroniche.
Il tutto avrebbe un senso se l’opinione pubblica, il famoso “americano medio”, si stesse muovendo politicamente in massa verso i repubblicani, i loro programmi, le loro posizioni. Ma così non è. È, anzi, vero il contrario. Negli ultimi anni i movimenti di opinione e legislativi hanno mostrato che le posizioni “avanzate” nel partito di Obama raccolgono molti più consensi che non all’inizio del suo mandato, soprattutto sugli argomenti che gli americani chiamano social issues e noi, pressappoco, “culturali”: legislazione sugli omosessuali, legalizzazione della droga, aborto ma anche ritrosia agli impegni militari e a una politica estera “ferma” o, in un altro lessico, “imperiale”. La famosa e tanto discussa riforma obamiana della Sanità, il cui fallimento è stato costantemente previsto e proclamato fin dal primo giorno della sua presentazione legislativa, ha dimostrato ultimamente, sia pure con qualche ritardo, di funzionare e si è affermata in modo irreversibile. Quanto all’economia, che resta, come da tradizione, l’argomento che “pesa” di più, il “fallimento” non c’è stato, così come del resto non ci sarà un trionfo. Obama ha giocato in difesa, non ha lanciato grosse novità, ha semmai rispolverato con cautela antiche ricette keynesiane. Dopo il crack del 2008 (accaduto al termine della presidenza repubblicana di George W. Bush) l’America è tornata al punto di partenza. Né boom, né disastro ma, in confronto all’Europa, un comparativo, netto successo. Basta guardare le cifre della disoccupazione, che negli Stati Uniti è scesa al di sotto del 6 per cento, mentre in Europa continua ad essere più in alto del 12.
E allora perché il malumore e la rassegnazione del partito di governo e apparentemente dello stesso presidente? I sondaggi non lo spiegano, però lo delineano: se si propongono agli elettori le linee generali dei due contrapposti programmi c’è una maggioranza, sia pure risicata, per le posizioni dei democratici. Però se si domandano le intenzioni di voto, allora sono in testa i repubblicani. Il fattore personale, dunque, prevale su quello ideologico. Chi fa cose che piacciono non piace, chi fa cose che meno piacciono, piace di più. Il “responsabile” ha un nome: Barack Obama. Che non è candidato, che rimarrà comunque presidente per altri due anni, che non potrà, ai termini della Costituzione, ripresentarsi per un terzo mandato. Che appartiene, in una parola, al passato. E che appare spogliato di tutte le sue armi.

2014 Awards Dinner of "America Abroad Media" at the Andrew W. Mellon Auditorium

Stress test, il flop della Vigilanza


Guido Colomba

Dopo aver affossato il mercato finanziario italiano (svendita della Borsa di Milano a Londra con l'eliminazione fattuale degli intermediari indipendenti attraverso una politica tariffaria finalizzata alle grandi istituzioni bancarie) la Vigilanza della Banca d'Italia ha fatto flop. Gli stress test della Bce hanno rappresentato la cartina del tornasole per le banche italiane "capitalizzate". L'economista Luigi Zingales ha così commentato la situazione sul Sole24Ore: "Se fossi uno dei risparmiatori che hanno sottoscritto questi aumenti di capitale cercherei il modo di far causa alla Banca d'Italia per aver chiuso non soltanto un occhio, ma tutti e due, di fronte a queste sopravvalutazioni". Di che cosa si tratta? Di perdite occultate che, secondo Zingales, sono state consentite dalla banca centrale italiana. Si può obiettare che, quando l'economia è in crisi, le banche, anche le migliori, registrano pesanti perdite per colpa di crediti divenuti inesigibili. Ma il mercato del risparmio merita maggiore trasparenza. Ed è amaro il commento di Zingales: "Altro che tutela costituzionale del risparmio; in Italia sono costituzionalmente protetti solo i banchieri specie se politicamente affiliati. Gli stress test europei ci dicono che è ora di cambiare". Infatti è emerso che l'asset quality review (coerenza dei valori contabili) registra una sopravvalutazione per l'Italia dell'1,1%, quasi sei volte quella della Francia (0,2%) e della Germania (0,2%) e quasi quattro volte la Spagna (0,3%). La Banca centrale greca è al primo posto come peggior supervisore (in media del 2,9%). Al secondo posto la Banca d'Italia. Oltre ai casi Mps e Carige, vi sono altre 7 banche italiane (su un totale di 25) che sui dati di fine 2013 hanno suscitato le reprimende della Bce. Inoltre, il presidente dell'Eba, Enria, ha sottolineato a mercati aperti che anche le banche che hanno superato lo stress test "non devono sentirsi al sicuro". Un commento sicuramente infelice che ha aggiunto un brivido di incertezza con immediati effetti negativi sulle quotazioni di borsa. Non è certo secondario ricordare che un efficiente mercato finanziario consente alle piccole e medie imprese di ottenere capitali dal settore privato senza l'intermediazione bancaria. Nel Nord Europa e negli Usa "crowd funding", "mini-bond" e "development bond" sono un esempio di innovazione finanziaria di successo. Sono gli strumenti indispensabili di una politica industriale. Questa carenza italiana rende difficile anche gli acquisti programmati dalla Bce per favorire l'economia reale delle imprese visto che in Italia il mercato Abs e delle cartolarizzazioni è del tutto inadeguato. Dal 2012 le banche italiane hanno aumentato di 200 miliardi gli acquisti di titoli di Stato. In pratica, hanno acquistato (carrytrade) una parte del debito italiano ma, ciò facendo, hanno sottratto liquidità all'economia. Questo trend continua: ieri i Bot hanno attirato 11 miliardi di domanda (a tassi in aumento) mentre in Germania un'asta è andata semi-deserta. Tra il 29 gennaio e il 26 febbraio le banche italiane dovranno rimborsare alla Bce i finanziamenti (Ltro) di fine 2011. Un ulteriore drenaggio di liquidità che la Bce, per ora, non è in grado di sostituire (nella settimana al 20 ottobre ha acquistato solo 1,7 miliardi di covered bond) nonostante lo scenario di deflazione e di frammentazione del sistema europeo.

Anna Maria Via ci ha lasciati




  in Washington Life September 2006 issue 
Anna Maria ci ha lasciati dopo una lunga malattia.
Quando lei e Giorgio si sono trasferiti negli States, Anna Maria, forte di una personalita' estroversa, si e' subito inserita nella difficile societa' della Capitale americana, facendosi apprezzare per i suoi talenti e per la spontaneita' del comportamento.
Anna Maria era presente nelle VIP list delle principali ambasciate ed era il motore organizzativo di tanti eventi compresi quelli sportivi (ad esempio tennis) purche' avessero uno scopo benefico.
Esperta di moda Anna Maria ha per molti anni rappresentato un sicuro punto di riferimento per quelle signore americane che cercavano una professionista di alta esperienza ma soprattutto di grande onesta' intellettuale.
Negli ultimi quattro anni Anna Maria ha cominciato a cadere nella spirale della malattia mentale, quel repentino invecchiamento delle cellule cerebrali che doveva condurla ad una esistenza pressocche' semi vegetale.
In questo momento di grande dolore siamo vicini con tanto affetto a Giorgio ed ai suoi figli che sono consapevoli di quanto Anna Maria abbia lasciato un grande ricordo in chi la conosceva e le voleva bene .

Dal labirinto delle urne ucraine ....



Alberto Pasolini Zanelli
Dal labirinto delle urne ucraine non è uscito, e non poteva uscire, un serio contributo a una soluzione ragionata di una crisi “diplomatica” che è già stata trasportata sul piano militare e, pur avendo rallentato il ritmo dei combattimenti, non ha prodotto un vincitore né sul campo né nei corridoi oscuri delle mediazioni internazionali. Letti i risultati di domenica, solo un ottimista a dismisura potrebbe trovare quelle cifre chiare o almeno indicative. Ha vinto il partito del presidente della Repubblica e apparente fautore di una strategia il più possibile equilibrata e “moderata”, ma Poroshenko è stato scelto da appena un quarto dei votanti e da anche meno degli elettori e per governare dovrà stipulare compromessi con gli altri numerosi partiti democratici e/o nazionalisti, uniti solo nel resistere ai tentativi della Russia di rimettere ad ogni modo almeno un piede nel principale dei suoi “soci” (o satelliti) ai tempi dell’Unione Sovietica. Da quando la tensione fra Kiev e Mosca è diventata da politica anche militare, egli ha scelto una strategia doppia e razionalmente giustificabile: il “doppio binario”, l’opzione militare laddove il dissenso russofono si esprime con la violenza e le trattative per un compromesso dove esso è appena sott’acqua. Lo si è visto soprattutto nei giorni in cui russi e ucraini si affrontavano con le armi e Poroshenko e Putin si incontravano per trattare, riuscendo infine a mettere in piedi una sorta di temporaneo compromesso. Che non è piaciuto molto ai potenti sostenitori stranieri della causa ucraina, ma non della maggioranza di quella parte della popolazione che si distingue per il suo nazionalismo.
La maggioranza degli ucraini che hanno votato hanno espresso preferenze per partiti più a destra di quello di Poroshenko o meglio più “falchi”. Per questo si potrebbe dire che l’Ucraina stia esplorando i cammini di una eventuale mediazione. Per cui però non ci sarebbe, oggi come oggi, un sufficiente consenso. Approfondito dall’altra riserva, ancora più improbabile se paragonata alle regole internazionali nell’interpretazione dei Paesi democratici. Ma la situazione è resa più complicata e le soluzioni ancora meno credibili. Il ricorso alle urne sul territorio della vecchia Ucraina è stato infatti parziale, anche perché altrimenti non avrebbe potuto neppure essere proposto: alle elezioni, infatti, la minoranza filorussa non ha potuto neppure partecipare. Ne sono stati esclusi, infatti, gli abitanti di quei territori su cui Kiev non esercita la propria teorica sovranità: le aree che sono occupate e teoricamente governate dai ribelli la cui lealtà va piuttosto a Mosca e a Putin, a partire dalla Crimea (che si è addirittura dichiarata indipendente) per finire con le zone dell’Ucraina orientale a maggioranza appunto di lingua russa. Questo accorgimento, che probabilmente era senza alternative dal momento che altrimenti non si sarebbe potuto votare, ha agevolato il compito di tutti i partiti democratici, patriottici e nazionalisti, dal momento che l’opposizione non si è potuta esprimere nelle urne. D’altro canto, però, la validità democratica delle elezioni ne è evidentemente inficiata, dal momento che ne sono state escluse le roccaforti dell’opposizione. La “fetta” di consensi per Poroshenko è dunque in realtà ancora più ridotta. Non solo, ma la rinuncia a far votare gli abitanti delle province dell’Est potrà essere fatalmente presentata come la prova che “non ha parlato tutta l’Ucraina”, o addirittura che “l’Ucraina non esiste” ma esiste unicamente un territorio che può, o forse addirittura dovrebbe essere, rimaneggiato, rimodellato in riferimento non al suo statuto giuridico ma alla sua storia. Argomenti che non possono non far piacere a Putin. Le aree che contestano il governo sono dunque russe in attesa di poter ridiventare Russia. Che sia questo il desiderio del Cremlino è da tempo ovvio ed è stato confermato anche di recente dalle rivelazioni circa l’offerta di Mosca al governo di Varsavia di operare per una divisione dell’Ucraina, restituendo ai polacchi almeno una parte di una terra che era stata per secoli loro dominio. Varsavia ha subito risposto negativamente, ma l’argomento tabù è stato in qualche modo introdotto nella stanza delle trattative ipotetiche e comunque segrete. Una soluzione potrebbe essere ancora più lontana. Quella soluzione è naturalmente oggi ancor più improponibile. Resta lo scontro, che apparentemente Putin preferisce trasferire e limitare al terreno politico ed economico piuttosto che al campo di battaglia.