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Washington: non bastavano le telecamere stradali. Adesso rischiamo di essere vaporizzati dalla bomba nucleare



Alberto Pasolini Zanelli
L’annuncio si è fatto aspettare un po’ più del solito, ma è il più minaccioso e pericoloso dell’intera serie che il dittatore nordcoreano Kim Jong-un espone periodicamente al mondo intero e in particolare agli Stati Uniti in una sfida senza precedenti. L’ultimo missile nucleare è stato lanciato ieri, è ammarato come al solito nel Mare del Giappone ma quello che conta è la sua portata. In 53 minuti, il volo più lungo finora, potrebbe raggiungere Washington, traguardo minacciato ma ritenuto di difficile attuazione almeno in tempo breve. L’annuncio che il governo di Pyongyang ha messo in orbita con la consueta, minacciosa esaltazione, è stato confermato quasi immediatamente dalle autorità americane, che hanno anzi specificato che, “conquistata” questa distanza, da ora in poi i missili portatori della atomica di Kim possono raggiungere tutto il mondo. Anche un po’ più in là della capitale americana, se ce ne fosse bisogno, ma la traiettoria è stata scelta in modo da tenere fuori pericolo ogni altro punto della Terra, se non quello che simbolicamente è stato preso di mira.
Erano un paio di mesi che l’inquietante progresso si era dato una fase di pausa, ma ora è arrivato il record: il lancio è stato di oltre ottomila miglia a un’altezza di tremila, cioè settecento in più del penultimo lancio. Lo ha confermato il Pentagono che ha parlato di “più in alto e più lontano di qualsiasi previsione - nelle parole del ministro della Difesa Jim Mattis -. È il prodotto di uno sforzo che può minacciare qualsiasi punto sulla Terra. La Corea del Nord sta sviluppando le sue armi nucleari a un ritmo più rapido di ogni previsione. Oggi come oggi non possiamo più escludere che il governo di Pyongyang annunci entro un anno di avere completato il suo riarmo nucleare. Dovranno essere completate la conduzione di operazioni in modo da poter lanciare i missili in qualunque ora del giorno e della notte”.
L’allarme è accresciuto da una evidente scelta “politica”. I missili nordcoreani che un anno fa provocarono il primo grande allarme americano perché erano in grado per la prima volta di raggiungere l’Alaska, territorio Usa ma molto più prossimo alla base di lancio, adesso possono colpire qualunque bersaglio in America, compreso il più distante della mappa, che è Miami. Assai più lontano di Washington, ma il valore della minaccia è evidentemente sottolineato dal fatto di comprendere e di rendere vulnerabile la capitale e la Casa Bianca. Trump non ha finora reagito alla nuova minaccia con la rapidità con cui ha risposto in altre occasioni, ma si ritiene che lo farà presto e che l’attesa servirà non a sminuire ma ad incrementare l’effetto psicologico. Se non cambierà rotta si prevede che egli ripeterà che dopo questa ulteriore provocazione “il tempo corre in fretta” per rendere possibile una soluzione diplomatica, anche se il Segretario di Stato Tillerson ha precisato invece che “le opzioni diplomatiche rimangono vive e aperte, almeno per ora. Gli Stati Uniti mantengono il loro impegno di trovare una strada pacifica per la denuclearizzazione della Corea del Nord e il superamento della fase attuale di sfida”.
Da Pyongyang si precisa che il missile è stato lanciato alle tre di notte, ha raggiunto l’altezza di 2.800 miglia, oltre 4.500 chilometri, in 54 minuti sulle acque giapponesi, in modo però da raggiungere la distanza da esibire parlando di Washington. Il lancio è stato quasi verticale e il missile, secondo quanto precisa il Pentagono, è stato un missile del modello intercontinentale Icem. Il governo della Corea del Sud ha per conto proprio reagito chiedendo un incontro di emergenza, che potrebbe essere di giorni ma anche di ore. Si prevede una immediata espressione di solidarietà, giudizio e programmi da parte del Giappone. L’America è finora l’obiettivo politico massimo e non giudica che sia nelle intenzioni di Kim una minaccia immediata. Mancano alcuni “dettagli tecnologici”, a cominciare dal problema di sistemare la testata nucleare dentro il missile in modo da poter reggere alle estreme vibrazioni e alla temperatura, soprattutto nella fase di rientro nell’atmosfera terrestre.

'Outlook 2018'


Guido Colomba
Per l'outlook 2018 vi sono tre tipi di previsioni: (a) il superottimismo (Wall Street può salire per altri tre anni nonostante il massimo storico raggiunto in presenza di una ripresa mondiale economica); (b) l’ottimismo moderato: non c'è il rischio del "cigno nero" poiché il rialzo dei tassi avrà effetto solo tra 12-18 mesi e il "tapering" delle banche centrali sarà graduale. Inoltre gli utili societari hanno superato le previsioni; (c) il pessimismo: lo scoppio della "bolla" è vicino come dimostrano (1) il bitcoin, la moneta virtuale, a 11mila dollari (un anno fa era a 700 dollari), (2) la forte espansione degli hedge funds (shadow banking); (3) le continue vendite di bonds da parte dei big players. Quale delle tre previsioni à la più probabile? Purtroppo, i back records possono guardare solo al passato e lo scoppio delle precedenti crisi (in media una ogni 7-8 anni) ha sempre colto di sorpresa gli specialisti. Gli algoritmi sono utili ma non decisivi tanto da far preferire il metodo deduttivo del passato. Poi, i dati statistici sono a pelle di leopardo. Negli Usa l'indice dei "buy back" (decisivi nel sostenere il mercato) é in calo, da 161 di inizio anno a 120 punti. Ma, guarda caso, i managers continuano a vendere le azioni ricevute come "bonus". Vi è poi il problema delle banche centrali che hanno i portafogli titoli stracolmi come conseguenza della enorme immissione di liquidità con l'acquisto di titoli effettuato in questi ultimi anni. Ad esempio la Bce ha un bilancio con oltre 4500 miliardi di titoli. In caso di crisi i margini di manovra saranno molto limitati visto che i tassi di interesse restano ai minimi (per l’Italia lo spread con il bund è sceso a 145 basis points). Sul mercato, gli stop loss avranno poca efficacia nel ricondurre la macroeconomia in linea con le attese sui bond. Il circuito finanziario si sta chiudendo. Il mercato, come sempre, anticipa gli eventi. Se dovessimo costruire un indice “Exit strategy” guarderemmo ai giovani che continuano a fuggire dall’Italia nonostante la ripresa economica (anche l’Ocse attribuisce all’Italia un +1,6 del Pil).  Sono in aumento i ragazzi che si sono trasferiti a Londra anche in tempo di Brexit. In Germania, è aumentato il numero dei residenti italiani: da 553mila a 612mila tra il 2013 e il 2016.  Né aiuta la geopolitica. Dall'Asia all'Africa, al Medio Oriente, tutto è in movimento. Trump è l'ago della bilancia. Ma l'Europa non fa eccezione, stretta com'é tra Brexit (Londra sembra pronta a pagare 50 miliardi alla Ue) e Germania con la Merkel in possibile uscita. C'è in atto un gigantesco sforzo per guadagnare tempo e puntare a soluzioni di compromesso tali da non turbare la ripresa in atto.  Il settimanale l’Economist punta sulla felicità nel 2018: “Il benessere e la gioia – afferma – saranno indicatori importanti come quelli economici”. 

L’eclisse dell’Isis non è il segnale di una ondata di pace o almeno di una pausa della guerra nel Medio Oriente.



Alberto Pasolini Zanelli
Il resto del mondo si sta accorgendo in fretta che l’eclisse dell’Isis non è il segnale di una ondata di pace o almeno di una pausa della guerra nel Medio Oriente. Le organizzazioni ufficiali dei terroristi islamici sono solo andate a cambiarsi, cioè a rinnovare il quadro delle ostilità e dei progetti di guerra, offensiva o difensiva, con una specie di torbida eguaglianza per le prospettive della grande maggioranza dei Paesi laggiù collocati e con le conseguenze inevitabili per il resto del pianeta, a cominciare dall’Occidente. Di buone notizie non se ne vedono in giro e le previsioni più complicate sono per gli Stati Uniti. E lo sarebbero anche se alla Casa Bianca non risiedesse da un anno un presidente inquieto e forse inquietante come Donald Trump. Che è probabilmente troppo impegnato nel portare avanti i suoi progetti che sono tutti in ritardo, nonostante la sua fretta. Si guarda attorno e dovrebbe riconoscere ed elencare i punti più pericolosi. Non è detto che lo faccia perché la sua principale arma, non segreta, è quel particolare tipo di ottimismo che egli ritiene dovrebbe bastare a mantenere il ruolo di superpotenza e a intimidire i nemici o gli amici che sono tentati di sollecitare in qualche forma un divorzio. Più lui ne parla più, almeno in questa fase, le tensioni crescono, bilaterali e no. Più vistosamente in Iran, che evidentemente è considerato dal governo di Washington il nemico numero uno.
Lo si vede fra l’altro nelle sue piazze, che si stanno riempiendo di nuovo degli estremisti o almeno di coloro che si ritengono minacciati e provano a rispondere per le rime. Ci si sta dimenticando che è ancora recente la vittoria elettorale del moderano Rohani e della sua disponibilità a trattare, soprattutto con l’America di Barack Obama, carica di buone intenzioni e anche di qualche illusione. Ed è soprattutto a Washington che cresce la volontà o almeno la tentazione di cancellare quel trattato frutto della pazienza e dell’abilità di John Kerry e che l’attuale inquilino della Casa Bianca e i suoi sostenitori definiscono “il peggiore mai stipulato nella storia” e proclama la sua volontà di stracciarlo. Il resto del mondo non è d’accordo, ma è lui che comanda, almeno nel senso negativo del termine.
Il regime di Teheran replica elencando le novità che più l’allarmano, che non sono solo le minacce presidenziali, ma anche l’evidente coordinamento fra le possibilità degli Stati Uniti e le crescenti ambizioni dell’Arabia Saudita, antico rivale dell’Iran e in questa fase più intransigente ed aggressiva. La risposta è che le piazze di Teheran non sono mai state così piene di dimostranti tanto arrabbiati e fiduciosi della loro causa.
Ma l’Iran non è solo: la reciproca diffidenza cresce anche in Turchia, che a differenza del Paese degli ayatollah è tradizionalmente alleato dell’America o almeno è stato fino alla svolta autoritaria di Erdogan. Si producono anche incidenti come quelli dell’arresto e detenzione negli Stati Uniti di un uomo più potente che noto al resto del mondo, Reza Zarrab, accusato di traffici illegali in oro. A differenza dell’Iran la Turchia è stata alleata o almeno sodale di Washington durante la lunga guerra della Siria. Ci ha mandato dei soldati anche se non dediti alla fallita strategia di espulsione di Assad dal potere a Damasco. Quello che i turchi cercavano, almeno in parte con successo, è stato fermare i jihadisti, ma con due importanti eccezioni: salvare un vecchio e secolare nemico e riproporre con più urgenza negli ultimi cento anni: la questione curda, la nazione senza Stato, delusa nelle promesse della prima guerra mondiale. Sul campo i curdi hanno avuto forse i maggiori successi, ma frutto di alleanze variabili e contraddittorie, con il risultato che i vecchi ribelli, sparsi in tutto il mondo islamico, hanno sfidato apertamente il boccheggiante Irak, ma non hanno rinunciato al resto delle loro rivendicazioni in altri Paesi, dalla Turchia all’Iran. Trump li ha appoggiati decisamente, ma adesso pare pentirsene, al punto che avrebbe deciso di mettere fine alle forniture di armi alle milizie curde.
Ma il vincitore forse più netto anche se di minori dimensioni non è stato un popolo ma una milizia a sfondo più religioso e culturale che etnico: una organizzazione, Hezbollah, che opera soprattutto nel Libano (preoccupando Israele), ma che è il braccio armato della fazione sciita e quindi appoggiato robustamente dall’Iran. Sciiti contro sunniti, ma anche non arabi contro arabi, contro diversi Paesi di quella “civiltà”. A Beirut gli Hezbollah stanno per diventare dominanti. A loro ha finito col dire “sì” anche il primo ministro libanese, Saad Hariri, di cui i sauditi hanno imposto le dimissioni, con il risultato invece di farsi dire “no” e dunque rafforzarlo. Aggiungendo così un altro campo di battaglia agli americani e ancor più ai sauditi, le cui ambizioni sono crescenti ma che paiono destinati ad incontrare ulteriore resistenza dopo le battaglie dirette o indirette in Siria. E la indiretta sconfitta.