Translate

La sfida dell’India che guarda a Occidente e le aspettative del “Sud Globale”



Paesi emergenti – La sfida dell’India che guarda a Occidente


Editoriale di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 dicembre 2023

L’anno che sta per terminare è stato da più parti definito l’anno dell’India.

Una definizione motivata soprattutto dal fatto che, a partire dallo scorso aprile, l’India ha superato il miliardo e quattrocentosessanta milioni di abitanti, diventando il paese più popoloso del mondo, oltre la Cina.

Una crescita demografica accompagnata da un parallelo sviluppo dell’economia che, in poco più di dieci anni, è passata dal decimo al quinto posto della classifica mondiale.

Oggi il tasso di sviluppo del paese viaggia intorno al 7% all’anno, ben due punti superiore a quello cinese.

La rincorsa indiana degli ultimi anni è stata quindi molto veloce, anche se dobbiamo riflettere non solo sulla strada percorsa, ma anche sul cammino che questo grande paese dovrà compiere in futuro per inserirsi tra i protagonisti dell’economia e della politica mondiale.



La prima difficoltà è nella natura stessa dell’India, dove convivono infinite diversità: non solo fra la maggioranza indù e i gli oltre duecento milioni di musulmani che formano la più forte minoranza religiosa del paese.

Ma anche le tendenze separatistiche di una parte dei Sikh, le infinite differenze linguistiche temperate unicamente dal comune uso dell’inglese, la permanenza di tradizionali divisioni in caste separate e il divario fra un sud con un reddito nettamente superiore a quello del nord.

A questo si aggiungono una debolissima partecipazione femminile al mondo del lavoro, una burocrazia e un sistema giudiziario più complicati di quello italiano e, nonostante gli incredibili progressi compiuti negli ultimi tempi, l’insufficienza dei tecnici e degli operatori indispensabili perché il cammino di sviluppo possa essere portato a termine con la necessaria continuità.

Sono sfide non facili da vincere, ma l’India ha compiuto enormi passi in avanti raddoppiando in dieci anni il numero di aeroporti, inaugurando ogni dodici mesi mille chilometri di autostrade, facendo progressi in numerosi campi della ricerca e costruendo un apparato industriale che si è dimostrato in grado di attrarre una crescente mole di investimenti stranieri, alcuni dei quali provenienti da imprese che, come l’Apple, hanno scelto di diminuire la loro presenza in Cina.

Diversamente dal modello di crescita cinese, l’India non sta concentrando il suo sviluppo quasi esclusivamente sul settore industriale, ma punta con altrettanta enfasi sul terziario, a cominciare dal vastissimo campo dell’informatica fino al settore cinematografico, mentre assai più difficile del previsto si sta dimostrando la riforma dell’agricoltura, nonostante il forte aumento della produzione di riso.

I punti deboli di questo sviluppo tumultuoso sono principalmente tre. Il primo è l’aumento delle disparità non solo tra sud e nord, ma soprattutto tra ricchi e poveri: il 10% di Indiani possiede quasi l’80% della ricchezza nazionale e la classe media gioca ancora un ruolo secondario nell’ambito del paese, raggiungendo appena il 5% della popolazione.

Il secondo punto debole riguarda l’involuzione della più grande democrazia del mondo verso forme sempre più autoritarie e un controllo sempre più stretto della società, volto non solo a limitare lo spazio a ogni tipo di minoranza e di dissenso, ma anche, in molti casi, a coprire diffusi comportamenti di corruzione.

Il terzo grande problema riguarda il livello dell’inquinamento, che pervade tanto l’invivibile area delle grandi metropoli quanto l’impraticabile acqua dei fiumi.

Un inquinamento che sta producendo conseguenze negative di carattere sanitario con pochi confronti al mondo. Se dovessimo simbolicamente indicare un paese ancora profondamente radicato nell’era del carbone questo è certamente l’India: la stessa Nuova Delhi è nutrita da una ferrea e pervasiva corona di centrali a carbone. Senza dimenticare, infine, il deficit del bilancio pubblico, reso sempre più problematico dal crescente peso del welfare e dei necessari sussidi alimentari.

Con tutte queste sfide e tutti questi problemi, ma con 700 milioni di cittadini al di sotto dei 25 anni e con un quinto della nuova forza lavoro mondiale, questo grande paese sarà in ogni caso tra i protagonisti del futuro quadro economico e politico globale.

L’ultima osservazione deve riferirsi a come l’India stia usando questo suo crescente ruolo.

Naturalmente l’obiettivo degli Stati Uniti (e non solo degli Stati Uniti) è quello di usare l’India come baluardo contro la Cina, cercando soprattutto di contenerne la sua crescente influenza nel Sud-Est Asiatico, cominciando dal Pakistan.

L’ambizione indiana ha invece come primo obiettivo quello di divenire il leader del così detto “Sud Globale” , continuando a mantenere con la Russia il tradizionale rapporto di collaborazione nel settore militare che aveva con l’Unione Sovietica, ma intensificando nello stesso tempo le relazioni economiche e politiche con l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti.

L’intenzione indiana è quella di sostituire la Cina nei vecchi rapporti con paesi come la Germania e il Giappone, ma sostenendo nel contempo l’economia russa con massicci acquisti di petrolio.

In fondo si tratta di un aggiornamento della vecchia dottrina dei paesi non allineati, con il disegno di riparare, ma non rivoluzionare, l’ordine mondiale. Un obiettivo raggiungibile solo se, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, vi sarà una forte volontà di venire incontro alle necessarie riforme degli ordinamenti globali.

In un mondo solo dedicato allo scontro, come è quello di oggi, le possibilità di interpretare le frustrazioni e le aspettative del “Sud Globale” rimangono infatti più nelle potenzialità del consolidato gigante cinese che non nelle aspirazioni del nascente gigante indiano.

2023 finisce un anno di merda

 

Non so se negli Stati Uniti o in Italia ci sia qualcuno che si è rivolto a una fattucchiera per maledire il nostro trasloco da Washington a Roma dopo 30 anni d'America.

 Fatto sta che da quando siamo sbarcati in Italia il 13 di aprile ne sono successe di tutti i colori.

Mi sono preso una potente broncopolmonite.

Nel mese di luglio durante una alzata per ragioni idrauliche  ho avuto una vertigine. Sono caduto all'indietro battendo la testa.

Mi indignano le ironie di alcuni colleghi della stampa a proposito della malattia di cui soffre Giorgia Meloni. Bisogna essere passati attraverso queste esperienze per poter giudicare. 

Dopo alcuni giorni dal primo episodio una notte mi sono svegliato e ho cercato di mettermi a sedere sul letto. Vertigine e grande testata contro il comodino.

Ricoverato al Gemelli vengo operato alla scatola cranica per eliminare l'ematoma che si è formato..

Ma l'ematoma si riforma ancora più vasto nell'arco di 20 giorni. Ed è quindi necessario sottopormi ad un secondo intervento al cranio utilizzando i pertugi che erano già stati aperti con la prima operazione.

Ovviamente dopo ogni intervento sono stato sottoposto a angioplastica per valutare lo stato delle cose.

Riprendo la terapia chemio per contrastare la metastasi ossea da cui sono afflitto. Non mi faccio mancare nulla.

Sì d'accordo caro lettore che stai sorridendo è una situazione un po' ridicola ma questo è quanto mi sta offrendo il 2023.

A completamento di questa annata di merda nonostante le cinque vaccinazioni anticovid fatte in America sono stato colto dall'ultima versione di questa infezione epidermica con grandi dolori e grande debilitazione.

Anche se dichiaro di non crederci qualcuno sicuramente ce la sta mettendo tutta per cercare di eliminarmi.

 Ma siccome quello che è importante è considerare sempre l'aspetto grottesco e ironico della vita auguro a tutti i miei carissimi elettori uno splendido 2024 denso di soddisfazioni morali e economiche.

 Per quanto mi riguarda sono felice di trascorrere il passaggio tra il 2023 e 2024 circondato da Max e Fabiola che ci hanno raggiunto dal Messico, Marco che mi ha raggiunto dall'India, e Franca il mio grande amore di 60 anni.

Oscar


--------------------------------------------------------------------------------

Ciao Buon Anno. Mi rattrista leggere tutte le brutte vicissitudini che ti hanno colpito, non ho la facoltà di modificare la genetica delle persone, ti posso solo dire che hai dei figli e una moglie straordinari perciò goditi la loro compagnia e prova a dimenticare quel grande letamaio che è la vita per almeno quando sei circondato di tanto affetto. 

Un abbraccio 
Maurizio 
__________________________________________________________

Buon anno...un abbraccio forte da tutti 🎊❣️🎊

__________________________________________________________
Effettivamente caro oscar di peggio non ti poteva capitare !
Sara’ molto facile prevedere un 2024 migliore .
Tanti cari auguri di buona salute 
Gian Carlo campani 
__________________________________________________________

Caro Oscar,
Auguri anche a te e alla tua bella famiglia per un anno migliore di quello che sta finendo. 
Con tutto il cuore!
Carlo V.
__________________________________________________________

Auguri e forza caro Oscar 
Stefano B,
_________________________________________________________

Caro Oscar,
carissimi Auguri e....tutto sommato abbiamo la pelle dura,
d'altra parte siamo anche vecchi boy-scout... (io GEI)
Un forte fraterno abbraccio !!!
____________________________________________________
Hai ragione, il 2023 ti ha inflitto tante sofferenze:
festeggiare l'anno nuovo con tutta la famiglia è il modo migliore per iniziarlo bene!
Possa il 2024 portarti SOLO cose buone: salute, serenità e la forza per superare qualsiasi sfida e scavalcare possibili ostacoli.
Con affetto, da Washington DC,

Emanuela 
__________________________________________________________
Gentile Oscar spesso non condivido ciò che pubblichi, tuttavia la mia maggiore attenzione la rivolgo proprio ai commentatori che hanno visioni diametralmente diverse dalle mie perchè, almeno credo, offrono la possibilità di avere una visione la più completa possibile riguardo a quello che ci accade intorno. Quindi ritengo che sarebbe riduttivo se io leggessi solo coloro che sono vicini al mio pensiero. Ora a parte l'inutile prologo ti scrivo - per la prima volta dopo anni nel corso dei quali ricevo regolarmente la tua posta- poichè racconti dei tuoi guai di salute. E su questo non si scherza. Ecco perchè ti auguro con tutto il cuore di riprendere le forze.
Buon anno a te e a tutta la tua famiglia
m.albertoni   
_____________________________________________________

Carissimo Oscar,

Mi  dispiace  immensamente, apprendere la lunga  lista delle  tue  problematiche.

  Capisco  il  tuo stato d'animo!

Ti  sono  vicino e ti faccio i Migliori Auguri per il 2024 !

Un  abbraccio !

Andrea  M.

Economie mondiali pigre e la variabile elezioni in Europa e USA


L’andamento pigro mondiale e la variabile elezioni in Europa e USA

Articolo di Romano Prodi nello speciale “L’Italia che Verrà” su Il Messaggero del 22 dicembre 2023

Abbiamo di fronte a noi un anno del tutto particolare. L’economia mondiale continuerà nel suo leggero declino, ma a dominare sarà la politica. Il quadro economico non ci porterà quindi verso una recessione, come molti prevedevano, ma verso un prolungamento dell’andamento pigro oggi presente sia a livello mondiale che in tutti i grandi protagonisti dell’economia globale. A livello mondiale la crescita sarà leggermente inferiore al 3%, con una differenza, spiegabile e logica, fra i paesi più sviluppati che si limiteranno a crescere intorno all’1,4% e i paesi invia di sviluppo che arriveranno vicino al 4%.

Quest’ultimo è un livello appena inferiore a quello dell’anno in corso e quindi apparentemente discreto, ma non certo in grado di venire incontro alle loro necessità, soprattutto in considerazione dell’aumento demografico che, seppure in calo, manifesta in questi paesi livelli di crescita ancora molto elevati.

Ritornando alle economie sviluppate, si tratta di una situazione che gli economisti, per evitare la parola recessione o stagnazione, chiamano di “atterraggio morbido”. Il che si traduce in un po’ meno dell’1,5% di crescita negli Stati Uniti e un’Europa che arranca al di sotto dell’1%, soprattutto perché la Germania tarda ancora a riprendersi. Non ci si deve quindi sorprende che, in questo quadro, la Banca d’Italia abbia abbassato le previsioni di crescita del nostro paese per il 2024, portandole dallo 0,8 allo 0,6%. La buona notizia è che i tassi di interesse hanno finito di aumentare e sembrano preparare una leggera tendenza alla diminuzione, prima negli Stati Uniti e, in seguito, in Europa. Questo in conseguenza del fatto che l’inflazione appare maggiormente sotto controllo, anche se in tempi più lunghi rispetto a quelli previsti.

Tuttavia è meglio toglierci per sempre dalla testa l’illusione che i tassi di interesse possano ritornare a orientarsi verso lo zero. Il lungo periodo di tassi minimi, se non addirittura negativi, è un evento assolutamente anomalo, che non ha alcuna possibilità di ripetersi, almeno per un periodo di tempo molto lungo.

Il quadro che abbiamo di fronte presenta quindi prospettive non favorevoli all’aumento degli investimenti che sono necessari per tenere il passo con le nuove tecnologie che, a partire dall’Intelligenza Artificiale, stanno sconvolgendo i modelli produttivi sia nel settore industriale che nei servizi. La politica industriale di tutti i grandi paesi si orienterà quindi sempre più verso l’aumento degli incentivi pubblici alle imprese. Una politica destinata non solo ad attirare le iniziative generate dai cambiamenti della concorrenza e dal “reshoring”, ma dedicata soprattutto a promuovere l’applicazione delle nuove tecnologie che stanno riorganizzando l’intera società, dalle attività produttive alla Pubblica Amministrazione, dall’insegnamento alla ricerca. Si tratta di una nuova fase nella quale la concorrenza fra i diversi paesi si affiancherà, con importanza sempre maggiore, alla concorrenza fra le imprese. Una fase quindi nella quale le nazioni che hanno le tasche più profonde hanno maggiori possibilità di successo. Il che costituisce un problema di non scarsa importanza per il nostro paese che dispone di risorse non solo non paragonabili alle risorse cinesi e americane, ma anche a quelle della maggioranza dei paesi europei.



Assai più variegato ed imprevedibile si presenta invece il quadro politico, in cui si dovrebbe finalmente porre termine ai due grandi conflitti in corso. L’anno prossimo sarà però un anno di elezioni e questo renderà ancora più difficile il raggiungimento degli accordi necessari per iniziare gli attesi processi di pace. Avremo infatti elezioni in una sessantina di paesi, che raggiungono i quattro miliardi di abitanti, cioè esattamente la metà dell’umanità. Non solo noi europei voteremo per eleggere il nuovo Parlamento, ma voterà anche l’India e soprattutto gli Stati Uniti, paese determinante per gli equilibri mondiali. Se i due candidati che, molto probabilmente, si contenderanno la presidenza americana si presentano uniti nel sostenere la politica di Israele nei confronti della Palestina, le differenze di veduta fra Trump e Biden e fra democratici e repubblicani, riguardo alla guerra di Ucraina, appaiono sempre più evidenti. Le decisioni prese nelle scorse settimane dimostrano che, nella politica americana, è molto più facile trovare un accordo per aumentare le risorse dedicate a Israele che non la proposta di accrescere i finanziamenti all’Ucraina. Il tutto mentre gli impegni del bilancio federale destano sempre maggiori preoccupazioni proprio nell’anno preelettorale, nel quale i governi sono soliti dirigere le risorse nella direzione che porta consensi tra gli elettori che, in generale, non ritengono certo prioritari gli aiuti a paesi lontani. Dato che le elezioni americane si svolgeranno solo nel prossimo novembre, e che quindi il nuovo presidente si insedierà nel gennaio del 2025, si potrebbe pensare che l’appuntamento elettorale dovrebbe avere una scarsa influenza sugli eventi del prossimo anno. La realtà è invece del tutto diversa.

La campagna elettorale comincerà fra poche settimane e le analisi sulle previsioni di voto influenzano già da ora i comportamenti dei parlamentari che debbono decidere sui finanziamenti all’Ucraina. Bisogna inoltre tenere conto che quest’incertezza americana non può che rafforzare le posizioni politiche che, in Europa, sono riluttanti a sostituire le esitazioni americane con un crescente sostegno economico e militare all’Ucraina da parte dei paesi europei. Senza contare che molti osservatori pensano che un maggiore sforzo in favore dell’Ucraina potrebbe incidere direttamente sulle elezioni europee, favorendo le forze politiche che esprimono una crescente avversità nei confronti di un aumento dell’impegno militare ed economico nel conflitto in corso.

Intanto la guerra di Ucraina si sta trasformando sempre più in una guerra di trincea, con morti e feriti che si contano ormai in centinaia di migliaia e con devastazioni che vanno oltre ogni possibile calcolo. Le incertezze politiche dell’anno elettorale rendono quindi sempre meno possibili i pur timidi tentativi di mediazione dei quali si era ripetutamente parlato in passato. La fine della guerra è diventata solo una speranza, senza alcuna concreta prospettiva di una soluzione politica.

Il quadro economico del prossimo anno, certamente non brillante, offre tuttavia un orizzonte in qualche modo gestibile. Il quadro politico appare invece sempre più incerto e quindi pericoloso. Le previsioni sull’economia del 2024 non sono quelle che speravamo, ma tendono a rendere improbabili eventi pesantemente negativi. La politica del prossimo anno appare invece sempre più incerta, come un grande punto interrogativo, al quale i grandi protagonisti sono sempre meno in grado di dare una risposta.



Be Sociable, Share!

Rispunta il fascista americano

(TWP)
Over the weekend, former president Donald Trump conjured a new metaphor in his anti-migrant demagoguery. He said undocumented migrants were “poisoning the blood” of the United States, in language critics immediately associated with the ideological worldview and obsessions with racial purity of earlier 20th-century fascists. Despite a backlash, Trump doubled down later in the week, repeating the line at another Iowa campaign event that those participating in illegal border crossings are “destroying the blood of our country.”

This is, on one level, familiar terrain for Trump. In 2015, he launched his first presidential bid by casting Mexican migrants crossing the U.S. southern border as “rapists.” He then moved on to suggesting all potential Muslim refugees were terrorist threats and called for a ban on Islamic immigration. The rhetoric appalled many but played to a galvanized far-right base that helped bring him to power.


In office, Trump attempted to follow through on his campaign promises with a limited travel ban on a few Muslim majority nations, a costly and dubiously effective border wall and harsh policies on asylum seekers. Some of those measures were thrown out by President Biden, who has tried to take a more humane approach while enforcing border laws and deporting hundreds of thousands of people over the course of the year.

But the Democratic administration faces a desperate political battle in 2024 during which Republicans are expected to leverage anxiety over major recent influxes of undocumented migrants crossing the border. Trump will be leading the attacks and, no matter his extremism, will have plenty of Americans on his side.

In this maelstrom, the United States is hardly alone. In Europe, too, fears over migration are morphing the political landscape and boosting right-wing parties. It loomed over the results of recent elections in the Netherlands (where the far right came shockingly first) and is contributing to the steady rise of Germany’s far-right AfD party in the polls.

It also saw France’s centrist President Emmanuel Macron join forces with parliamentarians on the right to push through legislation on migration this week that, among other things, would set quotas limiting arrivals to France and curtail benefits and state support to foreign-born migrants. The bill, parts of which were deemed by Macron’s own prime minister as unconstitutional, was hailed as an “ideological victory” by French far-right leader Marine Le Pen. She remains a strong contender to be France’s next president after Macron’s term ends.

On Wednesday, E.U. leaders in Brussels announced the clinching of a major package of reforms on migration after years of disagreements within the bloc. “The deal, which must still be formally ratified, aims, among other things, to share the costs associated with new arrivals more evenly between member states, to stem new arrivals and to make it possible to deport people more quickly,” my colleagues reported.

Politicians in the continent’s liberal establishment and the technocrats recognize the urgency in these measures, as far-right parties seek to exploit widespread anxieties ahead of E.U. parliamentary elections next year. “In a big election year — in the U.S., the E.U. and the U.K. — migration is shaping up to be a big issue,” Catherine Barnard, a professor at the University of Cambridge who specializes in European politics, told my colleagues.

In both the United States and Europe, the data points to significant increases in arrivals of those seeking asylum. “EU border agency Frontex said this month there were more undocumented arrivals into the bloc so far this year than in any year since 2015, over one million migrants and refugees arrived at the EU borders, many fleeing wars in Syria, Iraq and Afghanistan,” Politico noted. “In 2022, nearly one million people applied for asylum in Europe.”

In the United States, officials are reckoning with a pre-holiday surge in undocumented arrivals. “The broader U.S. immigration system is in similar tattered shape after decades of congressional inaction and recurring migration spikes — including record numbers of illegal crossings this month,” my colleague Nick Miroff wrote on Wednesday. “U.S. Customs and Border Protection is surpassing 10,000 encounters with migrants along the southern border per day, an influx likely to exacerbate strains on New York, Chicago and other cities already swamped by newcomers seeking shelter, food and assistance.”

The sense of crisis inflaming the political conversation on both sides of the pond is inescapable. Rights groups and immigration reform advocates lament what gets tossed aside in the process, in an age when natural disasters and social instability may become all the more common in parts of Africa and Latin America.

“This agreement will set back European asylum law for decades to come,” said Amnesty International in a statement about the E.U. reform. “Its likely outcome is a surge in suffering on every step of a person’s journey to seek asylum in the E.U.”

“There is nothing humane about turning back asylum seekers at the border, and deterrence policies have long been known for their deadliness,” Human Rights Watch said in a statement this year, after the White House tightened policies on asylum seekers. “Biden should stop copying Trump at the border and finally follow through on his promises to create rights-respecting border policies.”

But, as in Europe, the right is winning the conversation, as a complex matrix of border protocols struggles to cope with the numbers of arrivals. No matter the real need for immigrant labor in many nations in the West, the sense of anxiety over the influxes obscures all else. And so “poisoning the blood” can go from sounding like a Nazi echo to a potential winning slogan.

Some Republican politicians brushed off Trump’s language as just “talk.” My colleague Philip Bump parsed its power and ahistoricism. “The most obvious and immediate response to the idea that immigrants are ‘poisoning the blood’ of the country is to point out that the United States is inextricably constituted of immigrants and their children,” Bump wrote.

Trump’s intent, he added, is not complicated: “He’s simply amplifying his base’s fears of the perceived decline of traditional White Christian America.”

In Europe, it’s the same story.

"Merry Christmas to you"

 


And so I'm offering this simple phrase
To kids from one to ninety-two
Although its been said many times,
Many ways: "Merry Christmas to you"
(by Mel Torme')

Milei “il matto”, l’Argentina e i nodi da sciogliere in Europa



L’ascesa di Milei – L’Argentina e i nodi da sciogliere in Europa


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Il nuovo presidente argentino Javier Milei ha iniziato domenica scorsa il suo difficile compito, dopo una vittoria elettorale tanto netta quanto inaspettata. Il suo ingresso in politica è infatti recentissimo e il suo successo fondato su programmi opposti a tutto quanto era avvenuto in passato in un paese che ha visto la sua economia e il suo livello di benessere arretrare di anno in anno.

L’originalità dei suoi comportamenti, in molti casi spiazzanti, per usare un eufemismo, e l’estremismo delle sue proposte, comprendenti l’immediata adozione del dollaro americano al posto della moneta nazionale, l’abolizione della Banca Centrale e la riduzione al minimo di ogni presenza statuale, in un paese in cui lo stato provvede a tutto, gli avevano provocato il soprannome di “El loco” che in italiano si traduce “il matto”.


Ebbene “il matto” ha vinto contro ogni aspettativa, contro la quasi totalità dei media più autorevoli e contro la disapprovazione dell’establishment internazionale, portando avanti un programma di feroce austerity.

Un successo che ha avuto la sua espressione più significativa nel favorevole voto giovanile e nell’incredibile nuovo ruolo giocato dalla Rete e che, nella sostanza, non si è fondato sull’adesione ad un programma, ma sulla diffusa insoddisfazione per la situazione esistente.

Gli studenti che ho incontrato a Buenos Aires mi hanno sottolineato di avere votato per Javier Milei non in approvazione dei suoi programmi, ma come reazione ad un progressivo degrado che, nell’ultimo anno, ha portato il livello di inflazione al 140%, ha ridotto in povertà oltre il 40% della popolazione, ha aumentato la già impressionante differenza fra ricchi e poveri e ha totalmente svuotato le casse dello Stato, indebitando il paese in modo sostanzialmente irrimediabile.


Una situazione che, facendo perdere ogni credibilità al governo esistente, rendeva quasi fatale il prevalere di un voto in favore di tesi radicali, anche se quasi impossibili da realizzare.

Da domenica scorsa, giorno dell’insediamento, sono iniziate le difficoltà e i cambiamenti della politica governativa, anche perché il nuovo presidente, pur avendo estesi poteri, non può governare senza l’appoggio del Parlamento. Il suo partito (La Libertad Avanza) conta solo 39 deputati sui 129 necessari per formare la maggioranza e 7 senatori sui 72 componenti del Senato.

Tutto questo ha obbligato Javier Milei a stringere un’alleanza con il partito conservatore dell’ex presidente Macri e altre forze politiche meno radicali ma, soprattutto, a scegliere un ministro dell’economia che già aveva ricoperto questo ruolo nello stesso governo Macri e che viene perciò ritenuto in grado di dialogare positivamente con il mondo produttivo argentino, con il Fondo Monetario e con la finanza internazionale.

Il programma del “matto” ha quindi presto abbandonato la “dollarizzazione” dell’economia e gli altri estremismi e si sta rapidamente trasformando in un progetto di liberalizzazione e di austerità, progetto certamente meno dirompente ma ugualmente di difficilissima attuazione in un paese come l’Argentina.

Per mettere in ordine tutte le situazioni dissestate, sono infatti necessari anni di duri sacrifici. Nello stesso tempo, tuttavia, per adempiere alle promesse elettorali e per conquistare la risposta positiva da parte dei mercati internazionali, bisogna agire in tempi rapidissimi.

Per dare un esempio della ricerca di un faticoso compromesso e con l’obiettivo di non provocare immediate reazioni sindacali e popolari, l’insediamento del presidente è stato accompagnato, oltre che dalla inevitabile svalutazione della moneta nazionale, dalla promessa di tagliare sussidi alle provincie e ai trasporti pubblici.


Come decisione concreta è stato ridotto il numero dei Ministeri da diciannove a otto, misura di forte significato emotivo, ma certamente meno dirompente delle molte decine di migliaia di licenziamenti del settore pubblico preannunciati nella campagna elettorale.

Come possa poi operare in modo efficiente un ministero che comprende in una sola persona la competenza sulla Pubblica Istruzione, la Sanità, il Lavoro, la Sicurezza Sociale, i Trasporti, l’Energia e le Telecomunicazioni è un teorema tutto da dimostrare, ma è un messaggio certamente forte e popolare nell’immediato.

I problemi che il nuovo presidente argentino dovrà affrontare fanno quindi tremare le vene ai polsi, anche perché si dovranno rivedere tutti i rapporti internazionali che l’irruente campagna elettorale aveva compromesso.


In primo luogo le relazioni con il Brasile, paese gigante del Sud America, non saranno facili da riaggiustare dopo i ripetuti insulti lanciati al presidente brasiliano Luiz Inacio Lula, insulti resi più pesanti dalle relazioni quasi fraterne tenute da Milei con Bolsonaro, predecessore e avversario mortale di Lula.

Appena concluso il conteggio dei voti, è inoltre iniziato un veloce avvicinamento verso i collaboratori di Joe Biden per tentare di riequilibrare i numerosi e calorosi scambi di reciproca vicinanza politica con Donald Trump.

Allo stesso modo è subito iniziato l’ammorbidimento delle relazioni con la Cina. Con l’Europa i nodi da sciogliere non saranno pochi.


E’ infatti significativo che l’unico primo ministro dell’Unione Europea presente al giuramento di Milei sia stato Viktor Orban, non certamente l’uomo più popolare a Bruxelles.

A questo punto dovremmo però aprire un capitolo assai delicato perché ormai da troppo tempo l’Europa non dedica all’Argentina (e a tutta l’America Latina) l’attenzione che essa merita.

Dopo vent’anni di trattative non è ancora entrato in vigore il trattato commerciale fra Unione Europea e Mercosur.

Anche i rapporti culturali si sono via via affievoliti. Fino a trent’anni fa i leader politici latino-americani (fossero essi democristiani o socialisti) erano, nella quasi totalità, strettamente legati alle loro radici europee.

Oggi il loro riferimento è il mondo degli affari, della politica e delle Università degli Stati Uniti. Insieme al “potere duro” noi europei stiamo perdendo anche il “potere dolce”.

Quella maledetta 'vis grata puellae' di Publio Ovidio Nasone

Io sono cresciuto nel clima e nella cultura del patriarcato.

Anche se in pratica mio padre non l'ho conosciuto perche' era in guerra e poi per sei anni in prigionia.

Ho vissuto in una famiglia di donne che mi hanno assistito, curato e salvato dalle funeste peripezie della guerra e mi hanno dato un futuro.

Oggi che sono super anziano ripenso ogni tanto ai numerosi incontri femminili che ho avuto, specialmente quando facevo (nonostante la laurea in giurisprudenza) come mestiere principale il cantante, chitarrista nei night clubs, balere, radio e TV.

E devo ammettere, che provo molta vergogna, perche' i miei comportamenti nei confronti delle ragazze che volevano stare con me erano intrisi di aridita', solo interesse personale, talvolta violenza verbale al limite di quella fisica, scarsa considerazione per l'affetto (vero o fasullo) che mi veniva manifestato.

Come tanti maschi della mia generazione vivevo in una cultura che divideva il mondo femminile in due grandi categorie: quelle 'sante' come la mamma da esaltare e quelle da considerare poco piu' che un bene fungibile con rare eccezioni.

Una pseudocultura che, noi ragazzi di allora, respiravamo cercando di districarci e orientarci verso qualche modello di riferimento dopo essere sopravvissuti alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, ai bombardamenti, alla guerra civile, alla caduta di ogni principio di comportamento morale. 

Sapevamo delle oltre diecimila donne che affollavano la pineta di Tombolo per la soddisfazione delle truppe americane di colore e del fatto che per mangiare e dare da mangiare tante, troppe donne dovevano svendere il proprio corpo.

Ci dicevano e leggevamo che la fame del dopoguerra giustifica tutto. La donna come cosa, da usare e gettare.

Ma tutto questo aveva radici nel tempo, un tempo di oltre duemila anni prima e un nome; Publio Ovidio Nasone (43 aC- 18 dC).

A venti anni Ovidio diventa famoso nella Roma Augustea per la sua Ars amatoria. una sorta  di vademecum in terzine in cui descrive la molteplicita' dei rapporti sessuali tra uomo e donna avventurandosi in una ricerca dell'atteggiamento psicologico maschile e femminile.

La fama di questo poeta non e' solo dovuta a questo giovanile successo.

Fu autore di molte opere, il cui corpus è tradizionalmente suddiviso in tre sezioni. La prima sezione, che si colloca tra il 23 a.C. e il 2 d.C., è rappresentata dalle opere elegiache di argomento amoroso e comprende gli Amores, le Heroides (Epistulae heroidum) e il ciclo delle elegie a carattere erotico-didascalico.


La seconda sezione, tra il 2 d.C. e l'8 d.C, è caratterizzata dalle Metamorfosi (Metamorphōses o Metamorphosěon libri) e dai Fasti, di intonazione religiosa, mitologica e politica.


La terza e ultima sezione, compresa tra l'8 d.C. e la morte (17 o 18 d.C.), include le elegie dell'invettiva e del rimpianto: Tristia (Tristezze), Epistulae ex Ponto (Lettere dal Ponto[3]), Ibis

Fu autore anche di altre opere, andate oggi perdute, tra cui una Gigantomachia e una tragedia, la Medea. Di grande importanza sono le odi, di cui oggi ci restano solo piccoli frammenti.

La fama di Ovidio fu grande in vita quanto nelle epoche successive alla sua morte: ne riprendono i temi o ne imitano lo stile, tra gli altri, Dante AlighieriFrancesco PetrarcaGiovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto, William ShakespeareGiambattista Marino e Gabriele D'Annunzio

Inoltre, innumerevoli sono gli spunti che le Metamorfosi hanno fornito a pittori e scultori italiani ed europei.

Nell'8 d.C. Ovidio cade in disgrazia presso l'imperatore Augusto e viene relegato nella lontana Tomis (oggi Costanza), un piccolo centro portuale sul mar Nero, nell'attuale Romania Nel 18 Dc muore ancora in esilio.

Ma la storia di questo poeta va al di là della sua immensa produzione letteraria.

 La sua prima opera Ars amatoria ha plasmato  I comportamenti sessuali delle generazioni successive per migliaia di anni.

 A cominciare da quella frase entrata nella coscienza popolare secondo cui: "illa vis grata puellis" in cui vis deve intendersi non come violenza ma come comportamento forzoso del maschio nei confronti della femmina che gradisce.

Terribile per la nostra cultura, alla luce di tragici eventi molto recenti, la spiegazione di Ovidio della sua affermazione,

«Tu la chiami violenza? Ma se è questo che vuol la donna! Ciò che piace a loro è dar per forza ciò che vogliono dare. Colei che assali in impeto d’amore, chiunque ella sia, ne gode, e la violenza è per lei come un dono; [poiché] il pudore vieta alla fanciulla di agir per prima. Può darsi si rifiuti, e allora i baci prendili a forza. Se reagirà, se per la prima volta ti dirà che sei sfacciato, credi, non vuol altro che resistendo, essere vinta insieme»

Significativo quanto scritto da Graziella Priulla ( Vitamine Vaganti): «Per secoli il procedimento classico è stato che lui dovesse chiedere e lei dovesse dire no. Sembra un gioco, quel mercanteggiare; ma ha avuto conseguenze tragiche.

Alla base c’è la tradizione della passività femminile nel campo della seduzione: anche se innamorata la donna non poteva prendere l’iniziativa ma doveva presentarsi come pudica e ritrosa, predisponendosi, in virtù delle sue passività, a “sottostare” al desiderio del maschio in modo da non sembrare sfacciata. Il presupposto che lei non avesse desideri (“non lo fo per piacer mio …”) reggeva tutto il copione, l’ignoranza in campo sessuale completava il quadro.

Alla base ci sono i comodi equivoci maschili sul tema del consenso: vocabolo che in ogni rapporto umano — pensiamo ad esempio, per quanto sia triste il paragone, ai contratti commerciali — non significa “non dire di no”, bensì “dire esplicitamente di sì”.

Una cultura questa tramandata dal poeta romano, che ha impregnato tanta giurisprudenza e le sentenze della giustizia.

Per fare sesso bisogna essere certi che la persona con cui si desidera farlo voglia la stessa cosa. Sembra ovvio, eppure esistono molti equivoci sul significato della parola ‘consenso’.

Per dare l’idea dell’arretratezza in materia che caratterizzò la giurisprudenza italiana anche nel secondo dopoguerra basta riportare una sentenza della Cassazione datata 20 febbraio 1967: «Non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile, destinata a crollare al primo squillo di tromba come le mura di Gerico».

Concordava ancor più di recente (1982) il Tribunale di Bolzano, coniugando sessismo e classismo: «Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e scarso livello culturale vuole essere conquistata anche con le maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo».

Correva l’anno 1999 quando uscì un’altra sentenza della Cassazione: ribaltando la sentenza d’Appello che lo aveva condannato a due anni e mezzo di carcere, i giudici assolsero un 40enne istruttore di guida dall’accusa di stupro ai danni di un’allieva 18enne. 

La ragazza indossava un paio di jeans, indumento che per la Suprema Corte risulta — per «dato di comune esperienza — quasi impossibile sfilare anche in parte dalle gambe di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa».

Leggiamo identica sostanza nell’articolo di Massimo Fini pubblicato sul Fatto Quotidiano del 17 ottobre 2017 col titolo elegante “Fica Power colpisce ancora”: «A complicare le cose c’è l’eterna ambiguità della donna. Perché i suoi primi no possono essere di pura parata e nascondere un sostanziale sì».

Non hai colpa se la tua vittima non si oppone abbastanza allo stupro: questo quanto stabilito nello stesso anno dai giudici torinesi, che hanno assolto «perché il fatto non sussiste» un dipendente della Croce Rossa accusato nel 2011 da una giovane collega precaria poiché la donna non ha gridato, non ha chiesto aiuto e non ha «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona». (Vitamine Vaganti).

Di strada ne aveva fatta quel "Vis grata puellae" del poeta romano che fu 'relegato' in uno sperduto villaggio della Romania fino alla morte perche' aveva tradito la fiducia dell'imperatore. Tra le varie ipotesi sembra ci fosse la figlia Giulia di cui Ovidio avrebbe abusato.

Oggi in Italia si vive nella psicosi determinata dalla tragica morte di Giulia Cecchettin, al punto che il direttore di un quotidiano nazionale ha dichiarato in TV di non sentirsi colpevole perche' uomo.

Circa 150 casi di femminicidio all'anno in Italia [157 nel 2012, 179 nel 2013, 152 nel 2014, 141 nel 2015, 145 nel 2016], un totale di circa 600 omicidi negli ultimi quattro anni

110 nel momento in cui scriviamo. Significa che in Italia ogni due giorni (circa) viene uccisa una donna. Se ne contano migliaia nel mondo. 

Negli Stati Uniti, paese nel quale il femminismo si e' sviluppato con il massimo potere, al punto di mettere a rischio la convivenza di genere sul luogo di lavoro, una donna e' assassinata ogni cinque ore.

Nel mondo occidentale la donna è una antagonista. Perché sia sul piano intellettivo che della sopravvivenza la donna e' superiore all'uomo, mettendo a rischio la presunta supremazia fisica e intellettuale del maschio.

Che viene a trovarsi immerso in una cultura, quella derivata dalla Ars amatoria di Ovidio, che non funziona piu' e lascia disorientato l'uomo, convinto che la soluzione di questa grottesca situazione sia far contare la sua prevalenza fisica.

Soluzione questa che ad esempio negli USA comincia a valere poco vista la diffusione delle armi anche tra le donne.

Come uscirne? Si parla molto in Italia della istituzione sin dalle prime classi delle scuole elementari di corsi orientati alla conoscenza affettiva dei maschi nei confronti delle femmine. 

Un programma di largo respiro e di grande impegno temporale che non potrà certo comprimere le pulsioni adolescenziali dei giovani e che potra' avere qualche effetto di qui a venti anni.

Siamo 8 miliardi su questo pianeta.

4 miliardi sono donne.

Circa 3 Miliardi vivono in aree del globo che sono avvolte da culture basate in prevalenza su credi religiosi che considerano la donna un essere inferiore sottoposto all'autorita' maschile.

Nel mondo occidentale (fatto di 450 milioni di europei, 323 milioni di americani, 150 milioni Messico e America centrale, 423 milioni dell'America del sud, 38 milioni del Canada), grazie ai movimenti femministi la donna ha raggiunto una posizione di larga autonomia (con l'eccezione del Messico e America del centro  sud dove il machismo la fa da padrone con alte punte di femminicidio).

Si perpetua anche nel mondo occidentale la cultura della donna come macchina da procreazione, badante tutto fare non retribuita.

Mentre se si ha la fortuna di condividere la nostra vita con una compagna che ci comprende, nonostante i tortuosi percorsi della psiche del maschio, che allevia la tensione del vivere in una societa' "homo homini lupus", che ci da' vero affetto, la figura della donna risalta in tutta la sua meravigliosa dimensione.

Oscar
_________________________________________________________

rpaolieri

5:10 PM (3 hours ago)
erudita, ben detta,  bravo Oscar
Te lo dice un vecchio amico estremamente fortunato; ne ho viste tante. 
Molte persone si sono rovinate la vita per non aver avuto le occasioni e la fortuna di capire quanto valga la liberta' di decidere e pensare  di una donna.

Paesi in guerra: l’instabilità che favorisce i mercanti di armi



Paesi in guerra – L’instabilità che favorisce i mercanti di armi


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Siamo sempre più angosciati dalle tensioni della politica mondiale e dal crescente numero dei conflitti che oggi trovano, nella guerra di Ucraina, la loro espressione più lunga nel tempo. Il conflitto russo ucraino sta infatti entrando nel suo terzo inverno e lascia alle sue spalle centinaia di migliaia di morti e distruzioni inimmaginabili. E non se ne vede ancora la fine.


Questa pur esile prospettiva si è dissolta da oltre un quinquennio e, come riferisce il rapporto annuale del SIPRI (l’Istituto Svedese che fornisce i dati più autorevoli e credibili in materia di armamenti) nello scorso anno si è verificata un’impennata nella vendita delle armi e ancora più negli ordinativi per gli anni futuri.

Pur con una capacità produttiva ancora limitata dagli esiti del Covid, nel 2022 le spese militari mondiali hanno infatti raggiunto i 2240 miliardi di dollari, con un aumento del 3.7% rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta la spesa militare dell’ultimo anno di guerra fredda.


Una spesa che si va sempre più orientando verso una crescente intensità di ricerca per produrre armi sempre più raffinate, pur tenendo conto che la guerra di Ucraina ha aumentato anche la richiesta di armi e di munizioni in uso da parecchi anni.

Suscita certamente grande impressione constatare che è persino aumentato il numero delle testate nucleari che ammontano a oltre le 12.000.

Di queste almeno 2000, equamente divise fra Stati Uniti e Russia, sono ritenute pronte per la “massima allerta operativa”.


Il che significa che sono montate sui missili e hanno solo bisogno di un ordine per esercitare la loro potenza distruttiva che, nelle ultime loro edizioni, è stimata essere venti volte superiore rispetto alla bomba sganciata su Hiroshima.

Tutto questo a dispetto del trattato sulla proibizione delle armi nucleari, visto come una speranza da tanti popoli, ma che non ha trovato alcuna accoglienza da parte dei tredici paesi che posseggono un armamento atomico.


Le spese militari sono naturalmente correlate al livello economico e al ruolo politico dei diversi paesi. Non ci sorprendiamo quindi che il bilancio della difesa degli Stati Uniti abbia raggiunto, nell’ultimo quinquennio, il 40% del totale mondiale e che il secondo posto sia ricoperto dalla Cina.

Essa, pur spendendo in termini nominali un terzo rispetto agli Stati Uniti, ha aumentato ininterrottamente il proprio impegno per la difesa durante tutti gli ultimi ventotto anni e non sembra avere progetti di un cambiamento di linea per il futuro.

Anche se partendo da livelli quantitativi più modesti, la crescita maggiore dell’impegno militare si è verificato in Europa, dove nell’ultimo anno, soprattutto per effetto della guerra di Ucraina, la spesa è cresciuta del 13%.


A questo bisogna aggiungere che le previsioni per i prossimi anni sono di un’ulteriore lievitazione, soprattutto in conseguenza dell’ingente aumento del bilancio della difesa della Germania e dei paesi confinanti con la Russia.

Siamo arrivati all’assurdo che, pur avendo raggiunto una spesa di 480 miliardi, quindi oltre la metà degli Stati Uniti e ben oltre i 292 miliardi della Cina, la capacità militare europea viene ritenuta fragilissima, in quanto frammentata e senza una vera strategia comune sotto l’aspetto produttivo e di efficacia in caso di conflitto.

Da parte americana la pressione per un aumento dell’impegno militare europeo viene abitualmente accompagnata da una pesante, ma giustificata, ironia sulla nostra efficienza.


Tutto questo ci obbliga a concludere che un eventuale crescente aumento delle spese militari europee dovrebbe essere preceduto, o almeno accompagnato, da una politica estera e di difesa comune.

Quanto alle esportazioni delle armi, esse vedono evidentemente gli Stati Uniti in posizione di leadership, con una quota crescente e con un forte bilancio attivo nei confronti dell’Europa, mentre è progressivamente diminuito l’export della Russia, essendo la sua industria militare indirizzata a produrre soprattutto in funzione del rafforzamento dell’esercito nazionale, impegnato prima in Crimea e poi in Ucraina.

Riguardo all’importazione, fa certamente riflettere che, tra i maggiori importatori di sistemi d’arma, troviamo in primo luogo l’India, seguita dall’Arabia Saudita e dal Qatar.

Questo è lo stato del presente, analiticamente descritto dal SIPRI (a cui in Italia collabora il Torino World Affairs Institute).


Sul futuro possiamo solo constatare che le difficoltà del bilancio pubblico e le conseguenze negative sugli altri capitoli di spesa, a partire dalla spesa sociale, stanno creando ovunque una sempre maggiore resistenza alla dilatazione degli impegni per la difesa.

Non è facile prevedere quale tendenza finirà per prevalere, anche perché negli Stati Uniti, che ancora hanno il maggiore peso e la maggiore responsabilità in materia, si sta aprendo una campagna elettorale nella quale il capitolo delle spese militari (e dell’impegno in Ucraina e in Israele) verrà usato nella ristretta prospettiva della politica interna e non nel quadro di una strategia globale.

"Capitali Coraggiosi "(Armando Editore)

Grande successo al Circolo degli Esteri (Roma) per la presentazione del libro di Bepi Pezzulli "Capitali Coraggiosi "(Armando Editore). Posti in piedi e la presenza di testimonianze quali quelle di Paolo Savona, presidente Consob, e dell'ambasciatore Vento. Consigliamo l'acquisto di questo libro che è molto utile In quanto offre una visione dell'economia internazionale di grande interesse

_______________________________________________________

Presentazione del libro Capitali Coraggiosi fatta dal Prof, Paolo Savona, Professore emerito di Politica economica e Presidente CONSOB; già Ministro dell’industria e Ministro degli affari europei

Some men see things as they are and ask why. I dream things that never were and ask why not 

George Bernard Shaw (Dublin 1856 – Ayot St. Lawrence 1950)

___________________________________________________

Prefazione di Paolo Savona

Questo nuovo lavoro di Bepi Pezzulli è un manuale delle forme e delle prescrizioni che accompagnano la vita del venture capital, efficacemente presentata come una storia dei Capitali coraggiosi nell’intraprendere investimenti indispensabili per lo sviluppo di nuove iniziative che tramutano le innovazioni tecnologiche e manageriali in un accrescimento di ricchezza e benessere. Parimenti significativa è la citazione di George Bernard Show che sottolinea l’importanza di porsi il problema “perché no?”, invece del più classico problema di spiegare il “perché” delle cose. Il venture capital è una tecnica di finanziamento di nuove iniziative rischiose, e Pezzulli istruisce su come affrontare questa caratteristica dell’investimento. Il lettore che intende prepararsi a leggere il testo perché vuol capire questo congegno finanziario per sua cultura o perché intende intraprendere una nuova attività può scorrere attentamente l’indice; si accorgerà della precisione e multiformità con cui l’argomento viene presentato. Uno studioso alle prime armi lo userà come manuale di formazione e un operatore finanziario come manuale di istruzione per consigliare chi possiede capitali coraggiosi o, se lui stesso li possiede, per investirli. Molto utile il glossario dei termini usati nel settore.  Poiché la mia posizione è prossima al primo gruppo di lettori, anche se non proprio alle prime armi, mi trovo in bilico tra la posizione dell’autore che, giustamente, considera lo strumento un viatico importante per lo sviluppo di nuove imprese e quella dell’esperienza di osservatore vissuto che non lo considera un fattore trainante della crescita produttiva vissuta negli ultimi decenni; il motivo può essere visto nel fatto che esistono operatori che valutano i rischi in forme tradizionali, ma con molto fiuto (gli “oracoli”), e altri che si basano sempre più sulle nuove tecniche di intelligenza artificiale, con la conseguenza che la frontiera tra il venture capital e le altre forme di valutazione del rischio risultano molto sfumate. L’autore ricorda che questo strumento ha avuto successo soprattutto negli Stati Uniti, attribuendolo soprattutto, anche se non esclusivamente, al fatto che l’architettura istituzionale anglosassone è del tipo “romano” (in inglese, common law), mentre quella europea è di tipo “francese” (civil law), inevitabilmente più rigida nell’accogliere le novità finanziarie. Questo è certamente un fattore importante nella finanza per il formalismo del secondo assetto nella normativa della supervisione, ma questa “pesantezza” ha modesti effetti discriminanti nella gestione del mercato finanziario, mentre conta nella distribuzione geografica dei flussi di capitali. Va infine osservato che uno dei cardini delle scelte in condizioni di rischio e incertezza è che il saggio di coraggio dei capitali è proporzionale al saggio di diversificazione delle iniziative aventi caratteristiche venture. Pezzulli affronta questo argomento nel capitolo IV quando parla dei fondi di venture capital sottolineando le differenze tra Stati Uniti ed Europa. 11 Questi fondi hanno un vantaggio rispetto alle intraprese individuali in questa forma perché i successi nei singoli investimenti compensano gli insuccessi, con riflessi positivi anche sul trattamento tributario. Un’utile bibliografia completa questa importante pubblicazione.

COP28: Il mondo (dis)unito in difesa del clima


Interessi diversi – Il mondo (dis)unito in difesa del clima


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

La Conferenza mondiale sul clima e l’ambiente (comunemente nota con l’acronimo COP28) è in corso da un paio di giorni a Dubai.

La partecipazione è corale da parte di tutti i paesi del mondo, molti dei quali si sono presentati con elevate ambizioni e nobili obiettivi.

Il confronto durerà fino al 12 dicembre, snodandosi attraverso una procedura complessa, riguardo alla quale non è facile comprendere le diverse tappe del percorso.

D’altra parte non può essere semplice seguire la trama di un evento mondiale, nel quale agiscono 197 paesi e saranno presenti quasi settantamila partecipanti, a loro volta portatori di diversi valori e diversi interessi.

Nel primo atto di questo confronto, che si concluderà oggi, sono stati protagonisti i capi di stato e di governo che, naturalmente, hanno tutti espresso i nobili e coraggiosi obiettivi dei loro paesi per migliorare le prospettive del nostro pianeta.

Nel corso della prossima settimana seguiranno i dibattiti tecnico-politici, per dedicare gli ultimi due giorni al difficile compito di trarre le conclusioni e le possibili linee di azione per fermare il surriscaldamento globale.

Già prima che il summit cominciasse, sono tuttavia nate feroci polemiche sul fatto che si svolge negli Emirati Arabi, un paese con meno di dieci milioni di abitanti, che produce oltre quattro milioni di barili di petrolio al giorno e una quantità di anidride carbonica superiore a quanta ne producono i 241 milioni cittadini del Pakistan.

Resta inoltre un indiscutibile paradosso che il presidente della COP 28 sia, nello stesso tempo, presidente di una delle più grandi imprese petrolifere mondiali. Si tratta, quindi, di una localizzazione del summit certamente criticabile.

Essa, tuttavia, non deriva dal caso, ma dal fatto che tutte le grandi convenzioni internazionali, a partire da quelle politiche per finire a quelle sportive, sono diventate estremamente costose e, nello stesso tempo, molto importanti sotto il profilo economico e politico.

Come si è visto nel recente caso dell’assegnazione dell’Expo all’Arabia Saudita, la capacità finanziaria dei grandi paesi petroliferi li pone in una posizione di vantaggio tale per cui, continuando in questa direzione, all’Italia resterà solo la possibilità di ospitare l’Anno Santo, dato che è assai improbabile che, almeno allo stato attuale, possa essere oggetto di attrazione da parte di un paese arabo.

Entrando nei contenuti del summit, il dibattito in corso si concentrerà sulla differenza di prospettiva fra i paesi che hanno già intrapreso il cammino verso le nuove energie, soprattutto generate dal vento e dal sole, e quelli che invece rimangono totalmente ancorati al consumo di combustibili fossili.

Il quadro mondiale presenta grandi differenze e vi sono concrete prospettive che queste differenze rimarranno tali per lungo tempo. In Europa il vento e il sole hanno generato intorno al 20% dell’elettricità prodotta e, seppure più lentamente rispetto alle previsioni e con ancora costi elevati, la loro quota continua ad aumentare.

Riguardo al nucleare, come è caratteristica comune dell’Europa di oggi, la politica diverge da paese a paese. La Francia vi punta per il futuro, la Germania chiude anche le centrali esistenti e l’Italia non si sa bene cosa pensi. Anche se noi europei siamo all’avanguardia della transizione energetica e la quota di energia non inquinante cresce più della domanda, rimaniamo comunque grandi consumatori di petrolio e di gas (circa il 70% del totale dei consumi) e lo rimarremo ancora a lungo.

A loro volta gli Stati Uniti stanno diventando più “virtuosi” semplicemente perché, insieme a un po’ di sole e un po’ di vento, sostituiscono il carbone con il gas, che è meno inquinante. In Cina, anche se meno del vento e del sole, il consumo di carbone (54% del totale) continua a crescere e continuerà a crescere per ancora qualche anno. In India e in tutti i paesi con basse risorse economiche prevale il carbone che rimane la fonte di energia dominante nei paesi poveri.

Ad essi non viene oggi offerta alcuna concreta alternativa, per cui il loro consumo di carbone aumenterà enormemente.

In un mondo ideale, dovrebbe essere interesse condiviso l’organizzazione di un grande programma di investimenti per aiutare tutti i paesi a mettere in atto la necessaria transizione verso le nuove energie che esigono un ingente quantità di risorse.

I numerosi progetti in materia sono fino ad ora risultati senza seguito per la mancanza di un accordo e, quando accordi parziali sono stati conclusi, non sono poi stati messi in atto per la mancanza delle necessarie risorse finanziarie.

Le tensioni internazionali in corso aggiungono inoltre un’ulteriore difficoltà a un’intesa globale sul clima, che dovrebbe necessariamente partire da una volontà di azione comune fra gli Stati Uniti e la Cina. Di questa comune volontà, nonostante le generiche convergenze emerse nel recente colloquio fra Biden e Xi Jinping, non vi è alcuna prospettiva concreta.

A meno che non accadano eventi straordinari e oggi imprevedibili, dalla Conferenza globale sul clima non potranno quindi essere prese decisioni di grande portata per una sostanziale riduzione dei combustibili fossili a livello mondiale.

Non si pensi comunque che questi summit siano inutili. Dalla firma del protocollo di Kyoto in poi hanno infatti contribuito a creare una coscienza comune sulla gravità del problema e sulla necessità di porvi rimedio.

Anche se queste grandi Conferenze non sono in grado di prendere altrettanto grandi decisioni, è un bene che esistano perché, senza di esse, le prospettive per il futuro sarebbero ancora peggiori.