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Federico Rampini cambia casa, da Repubblica al Corriere


La decisione di Xi Jinping di partecipare solo a distanza ai vertici globali di Roma e Glasgow è gravida di conseguenze per il resto del mondo. Per decifrarne i significati va ricordato che il presidente cinese non viaggia all'estero da 21 mesi. Si autoinfligge una delle restrizioni che cambiano la vita dei cinesi. La Cina è ormai l'unica grande nazione a inseguire l'obiettivo irrealistico del «Covid zero», l'eliminazione totale del virus. I metodi sono estremi.

È bastato che una sola visitatrice di Disneyland-Shanghai risultasse positiva al test, per costruire attorno al parco divertimenti un cordone sanitario che ha bloccato decine di migliaia di persone. Pochissimi viaggiatori positivi hanno relegato in una quarantena dura tutti i passeggeri di due treni ad alta velocità. Xi Jinping vuole mostrare di non essere al di sopra delle regole.

Il Covid è diventato l'occasione per sospendere a tempo indefinito una delle libertà di cui godevano i cinesi: viaggiare all'estero. È uno dei segnali che questa Cina si ripiega su se stessa, o quantomeno vuole ridefinire le condizioni della sua partecipazione all'economia globale: ci sta solo alle sue condizioni e con le sue regole. La partecipazione a distanza al G20 e alla Cop26 rientra in questa logica.

La diplomazia della sedia vuota e del videostreaming coincide con una battuta d'arresto nella transizione cinese verso un'economia a zero emissioni. Sul cambiamento climatico Xi non vuole rendere conti a nessuno. A casa sua affronta una crisi energetica ancora più grave di quella che colpisce l'Europa. La ripresa dell'economia cinese e il boom delle esportazioni verso il resto del mondo si sono scontrati con il vincolo dei carburanti e della corrente. Penurie di benzina e gasolio hanno provocato i primi razionamenti. Dei blackout elettrici hanno costretto a chiudere fabbriche, e da due mesi la produzione industriale cala.

Xi cerca aiuto dalla più inquinante di tutte le fonti: il carbone. Ha rimesso in servizio miniere di carbone dismesse, al punto che questa produzione aggiuntiva supera tutto il carbone estratto in un anno in Europa occidentale. Già prima di queste misure di emergenza la Cina con il 60% del suo fabbisogno energetico legato a questa fonte consumava da sola più carbone di tutto il resto del mondo. Xi non rinuncia ai suoi piani sulle tecnologie sostenibili. La sfida ambientalista lui la interpreta in chiave geostrategica, come la competizione per dominare le tecnologie del futuro.

La Cina ha già conquistato una supremazia mondiale nei pannelli solari (dove le sue esportazioni sottocosto hanno fatto fallire tanti concorrenti occidentali), nell'eolico, nelle batterie; punta verso un semi-monopolio nelle terre rare e nei metalli indispensabili alla produzione di auto elettriche. Prosegue con i suoi piani ambiziosi nel nucleare che considera a pieno titolo come una fonte rinnovabile. Ma Xi non è disposto a bruciare le tappe nell'abbandono delle energie fossili, se questo implica delle rinunce sulla crescita economica, il benessere, la stabilità sociale del suo Paese.

La sua assenza fisica dal G20 e da Glasgow tradisce anche l'insofferenza verso le prediche dei governi occidentali o gli slogan apocalittici. Questa presa di distanza ha un peso sostanziale perché la lotta all'inquinamento si decide in Cina, già oggi responsabile per il 28% delle emissioni planetarie di CO2, più di Europa e America messe insieme. Nell'immediato la posizione di Xi ha creato un'opportunità per Joe Biden. Nel sospendere i dazi contro l'acciaio e l'alluminio europeo, Biden ha introdotto il principio di una tassazione ambientalista contro «l'acciaio sporco», quello prodotto in Cina con altiforni a carbone. L'idea di una carbon tax alla frontiera, un dazio verde, circolava già in Europa.

La Cina produce il 56% dell'acciaio mondiale, anche in questo settore ha conquistato un ruolo soverchiante. Le convergenze atlantiche prefigurano un nuovo protezionismo che viene incontro a una richiesta ambientalista: l'esigenza di fermare quella corsa al ribasso per cui il commercio internazionale ha consentito di aggirare le regole contro l'inquinamento. Come la global minimum tax vuole invertire decenni di favori alle multinazionali nei paradisi fiscali, così il dazio verde si candida a ostacolare la delocalizzazione delle produzioni sporche negli inferni ambientali.

La diplomazia a distanza di Xi segna un'era diversa rispetto a cinque anni fa, quando al World Economic Forum di Davos il presidente cinese era parso l'anti-Trump, il difensore della globalizzazione contro i sovranismi. Però il suo «realismo ambientalista», che rifiuta di sacrificare la crescita economica, ha una risonanza ampia, si candida a raccogliere consensi fra le nazioni emergenti, e nei ceti medio-bassi dei Paesi occidentali.

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