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«Nel 1960 morivano ogni anno 20 milioni di bambini sotto l'età di cinque anni.

Federico Rampini per il “Corriere della Sera”

«Nel 1960 morivano ogni anno 20 milioni di bambini sotto l'età di cinque anni. Nel 2012 ne sono morti 6,6 milioni, e in percentuale sulla popolazione l'ecatombe si è ridotta a un quinto. Sono ancora troppi. Abbiamo gli strumenti per scendere sotto i tre milioni in 15 anni.

I costi per il trattamento dell'Hiv-Aids sono stati ridotti del 99%, da più di 10.000 dollari a meno di 200 dollari all'anno. In molti paesi l'incidenza dell'Hiv-Aids è scesa oltre il 50%, e il regresso riguarda anche l'Africa sub-sahariana. Le morti per malaria in Africa sono diminuite del 33%.

Questa battaglia va fatta, con più risorse di prima, anzitutto per ragioni umanitarie. Ma è un investimento intelligente perché è la risposta migliore ai flussi migratori: un miglioramento delle condizioni di salute, delle opportunità di sviluppo umano, contribuisce a far restare le persone nei loro Paesi d'origine. Rallenta anche l'esplosione demografica, perché l'eccesso di natalità purtroppo è una risposta perversa alle decimazioni inflitte dalle epidemie».

Così Bill Gates mi esponeva il suo «ottimismo lucido e razionale», in una camera del Willard Hotel di Washington: quello dove nell'Ottocento nacque l'attività del lobbismo.

Era il 2 dicembre 2013. Pochi minuti prima Gates era uscito dalla Casa Bianca al termine di un lungo e proficuo incontro con Barack Obama, uno dei leader con cui ha creato un solido rapporto di collaborazione.

Ma nel lungo colloquio con Gates la parte che mi colpì come più innovativa non era il suo discorso umanitario, per quanto importante.

Il co-fondatore della Microsoft, protagonista della rivoluzione informatica degli anni Settanta e Ottanta, per 22 anni consecutivi l'uomo più ricco del mondo, aveva da poco lanciato con la moglie Melinda e con l'amico Warren Buffett The Giving Pledge , l'impegno a donare: una dichiarazione d'intenti che i tre avrebbero proposto a tutti i miliardari del mondo per diffondere le nuove regole della filantropia.

Da un altro punto di vista era una solenne promessa di diseredare i propri figli e nipoti. Quel giorno di dieci anni fa lui mi spiegò così la sua filosofia: «Penso che dal punto di vista dell'uso delle risorse di una nazione, non sia ideale lasciare i grandi patrimoni in eredità. Quando vuoi vincere le prossime Olimpiadi, non selezioni per la tua squadra nazionale i figli dei vecchi campioni olimpici.

Dal punto di vista della società, è sbagliato che una minoranza di privilegiati abbiano tanti mezzi senza dovere lavorare per meritarseli. Non si fa un favore ai propri figli lasciandogli tanto, è demotivante». Coerente con l'annuncio di allora, oggi all'età di 67 anni Gates ha già versato in beneficienza 50 miliardi di dollari, e continuerà a devolvere così la stragrande maggioranza del suo patrimonio.

Quel capitalista che mi spiegava un decennio fa la sua decisione di diseredare i tre figli, mi riconciliava con l'etica protestante del capitalismo.

Non ci sarà mai un Gates junior alla guida di Microsoft dopo il fondatore Bill, così come non c'è un Jobs junior alla guida di Apple dopo la scomparsa di Steve. Per essere sicuri di non affidare l'azienda in mani sbagliate, i più iconici capitalisti americani diseredano i figli alla nascita. Mi ha sempre colpito la distanza con i nostri capitalisti: parlano di meritocrazia ai convegni della Confindustria, poi guardi i loro cognomi e le loro storie, molti sono rampolli ereditari, figli di papà o nipoti del nonno fondatore.

L'immagine pubblica di Gates è passata attraverso cicli estremi, alternando trionfi e controversie. Per me e per due o tre generazioni di occidentali, così come per tanti Baby-Boomer e Millennial cinesi indiani russi, lui era stato in gara con Steve Jobs per l'Oscar dell'imprenditore più autorevole e carismatico dell'era digitale. La mia prima traversata coast-to-coast degli Stati Uniti, nel 1979, aveva coinciso con l'avvio della primissima transizione verso un'era digitale.

All'epoca avevo appena cominciato a lavorare come giornalista del Partito comunista italiano, guidato da Enrico Berlinguer: scrivevo sul settimanale Rinascita . Quell'America aveva due facce per noi ventenni della sinistra europea: da un lato ci spalancava la visione di un'economia post industriale, una visione di modernità e integrazione, di ecologia, di rispetto delle diversità.

Gates, allora ventenne, era il pioniere di una rivoluzione tecnologica democratica: mettere un personal computer su ogni scrivania.

Oggi sembra banale e il computer è già stato sostituito da tablet e smartphone - ma allora non lo era affatto.

Poi subentrò la disillusione. Su Gates e non solo. I ragazzi rivoluzionari, una volta create delle imprese straordinariamente avanzate e competitive, si trasformavano in aspiranti monopolisti, ostacolavano la concorrenza, fino a costruire dei colossi dominanti. Erano stati hippy, figli dei fiori, o comunque idealisti e sovversivi da giovani. Per poi diventare dei Robber Baron («baroni ladri») trasferendo nell'era digitale il modello che i Rockefeller avevano incarnato nel capitalismo delle banche e del petrolio. Dopo Gates, anche Jobs con Apple, i fondatori di Google Larry Page e Sergei Brin, Mark Zuckerberg con Facebook, avrebbero vissuto la stessa metamorfosi.

Gates fu il primo in ordine cronologico, come dimostrò la causa antitrust lanciata contro Microsoft da Mario Monti commissario europeo.

Nel nostro incontro di un decennio fa Gates si era messo alle spalle la prima battaglia antitrust contro Bruxelles. Era impegnato in una sua transizione personale: una dopo l'altra abbandonava le cariche societarie, nella Microsoft e in altre aziende, indirizzandosi verso l'impegno a tempo pieno come filantropo (la Bill & Melinda Gates Foundation divenne la sua unica attività dal 2020). Non era un percorso tranquillo. Al nuovo traguardo lo attendevano altre polemiche.

Come paladino delle campagne di vaccinazioni in Africa e in tutto il mondo, e della lotta al cambiamento climatico, Bill si è attirato sospetti e accuse, in particolare dal mondo della destra sovranista. Almeno quanto George Soros - altro miliardario filantropo e progressista - Gates è diventato protagonista designato delle teorie del complotto. Lo si è accusato di esercitare uno strapotere nel business dei vaccini, tema che ha acquistato una visibilità enorme durante la pandemia. È diventato il globalista per antonomasia, grande capo di tutte le cospirazioni ordite da un'élite finanziaria onnipotente, un establishment determinato a calpestare gli interessi dei popoli.

Poi c'è stato il divorzio da Melinda French. Dopo 27 anni di matrimonio e 34 anni vissuti insieme, la separazione ebbe inizio in modo soft, consensuale e amichevole. Fino a quando la stampa americana rivelò che la causa scatenante era l'amicizia passata di Bill con Jeffrey Epstein, condannato per stupri e pedofilia, morto suicida in carcere.

Un'altra discesa agli inferi per Gates.

Più di recente, un riscatto è venuto sul fronte geopolitico: Microsoft è stata applaudita per il ruolo determinante che svolge nel difendere l'Ucraina dai cyber-attacchi della Russia. Un esperto come Ian Bremmer ha stilato questa classifica peculiare delle potenze che aiutano di più la resistenza di Kiev: al primo posto gli Stati Uniti, al secondo l'Inghilterra, al terzo Microsoft, al quarto la Polonia. Può aver pesato l'eredità dell'atteggiamento «filo-governativo» di Gates su molti dossier del passato, e fors' anche un suo ruolo personale dietro le quinte.

Una rivincita di fatto se la prende anche contro i no-vax, in questi giorni in cui l'Occidente segue con apprensione l'arrivo di viaggiatori cinesi, positivi al Covid, vaccinati poco e male. Le accuse contro il Grande Vecchio che trama per vaccinare l'intero pianeta forse appaiono finalmente assurde?

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