Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
I saggi, le conferenze e le solenni dichiarazioni sull’imperioso ritorno del potere dello Stato nell’economia si sprecano. Una nuova dottrina, originata dal diminuito ruolo della globalizzazione e dal ritorno imperioso del nazionalismo economico.
Non c’è dubbio che questa tendenza sia in atto ovunque. Se il simbolo premonitore è stato l'”America First” del Presidente Trump, l’importanza dell’intervento pubblico nell’economia è cresciuta ovunque, a Est e a Ovest, anche se con differenti modalità.
In Cina, nonostante le liberalizzazioni del mercato, che dal 1978 in poi hanno fatto grande il paese, il ruolo dello Stato ha sempre dominato. La presenza privata ha tuttavia accresciuto la sua importanza, fino a diventare uno dei simboli della nuova Cina. La situazione è drasticamente cambiata da quando Xi Jinping è diventato Presidente, accentrando nel vertice dello Stato non solo la direzione del Partito, del Governo e dell’Esercito, ma comandando in presa diretta anche sull’economia, con un comprensibile disorientamento anche da parte degli stessi imprenditori che hanno fatto grande la Cina.
Altamente simbolico di questo cambiamento è stato l’intervento diretto del Presidente nei confronti di AliBaba, la colossale impresa che, pur con modalità differenti, rivaleggia con Amazon per il primato mondiale delle vendite a distanza.
Quando essa è diventata troppo potente, Xi Jinping si è trasformato in supremo arbitro della concorrenza e, anche se con metodi per noi inaccettabili, ha esautorato il proprietario dell’impresa e ha ridotto il potere di AliBaba, obbligandola a disfarsi di importantissime attività, tra le quali il suo braccio finanziario.
Così ha ulteriormente accresciuto il ruolo dello Stato nel controllo dell’economia, richiamando il principio che la politica comanda sull’economia e non l’economia sulla politica. In un certo senso Xi Jinping ha assunto anche il ruolo di autorità antimonopolistica, un ruolo certamente improprio per la suprema autorità di governo ma, in ogni caso, un avvertimento di cui ogni impresa cinese deve tenere conto.
Nelle grandi economie di mercato stiamo invece assistendo ad un processo contraddittorio. Da un lato lo Stato ha ripreso il ruolo che aveva perduto a partire dagli anni ottanta, nei quali era proibita qualsiasi interferenza nella vita delle imprese: niente aiuti di Stato, niente politica industriale e diminuzione progressiva delle dogane e degli ostacoli al commercio.
Da quando Trump ha lanciato l’obiettivo del primato americano a ogni costo (America First) sono invece ritornate le dogane, gli interventi pubblici e gli aiuti di Stato, fino al grande provvedimento di Biden che, con la dichiarata motivazione di rimediare ai guai dell’inflazione (si chiama infatti Inflation Reduction Act) ha reso ancora più organico e sistematico il cambiamento della politica voluta da Trump, fornendo una cospicua mole di aiuti ai nuovi settori e alle imprese tecnologicamente più avanzate.
In fondo sembrerebbe una semplice evoluzione della politica descritta in precedenza ma, nel caso americano, il potere della politica sull’economia è solo parziale: agisce pesantemente dal lato dei sussidi e degli incentivi pubblici, ma non nel campo della concorrenza.
Dobbiamo infatti ricordare che la politica antitrust era sempre stata un pilastro della democrazia americana, capace di colpire non solo gli abusi delle imprese dominanti, ma anche di stabilire che l’eccessiva dimensione delle aziende era di per se stessa un pericolo per la democrazia e doveva essere quindi controllata e limitata.
Una politica che era arrivata a colpire anche giganti all’avanguardia della tecnologia come la IBM e la ATT.
Le cose stanno oggi in modo differente: lo Stato aiuta le imprese ma, come ci insegna Orwell nella Fattoria degli Animali, vi sono imprese più uguali delle altre.
Per essere concreti, i grandi giganti della Rete hanno raggiunto dimensioni, capitalizzazione, potere di mercato e di influenza decine di volte superiori a quelle dei precedenti oligopolisti, ma il controllo pubblico si limita a toccarle soltanto su aspetti marginali. Nei confronti di Google, Apple, Amazon e compagnia non si prospettano provvedimenti che mettano a rischio l’impressionante potere raggiunto dalla loro presenza economica e politica.
Le spiegazioni possono essere tante: dal ruolo dominante che hanno assunto in ambito mondiale (diventando più importanti del petrolio) al fatto che raggiungono il consumatore in modo prevalentemente gratuito (e quindi assai popolare), fino al loro contributo determinante alla concretizzazione dell’ “America First”.
A queste ragioni ne potremmo aggiungere tante altre, ma il fatto essenziale è che, nelle economie di mercato, il governo da un lato è ritornato ad essere un grande sostenitore delle imprese attraverso i sussidi e la politica commerciale ma, dall’altro, il settore più importante e di maggiore crescita è al di sopra di ogni limite e di ogni controllo pubblico.
Mentre, correttamente, viene messo in rilievo il nuovo ruolo dello Stato in aiuto all’economia, si dimentica che si è creata una situazione di dipendenza di tutta la politica e di tutta l’economia dagli interessi di un ristretto gruppo di imprese che hanno ora un ruolo dominante nel mondo.
Si tratta di un’evoluzione non senza conseguenze per gli equilibri indispensabili per la vita delle democrazie di tutti i paesi. Per quanto riguarda noi europei, si tratta anche di un ulteriore regresso del nostro ruolo, dato che siamo solo consumatori e non creatori di questi grandi giganti della Rete, divenuti gli incontrastati padroni anche del nostro futuro.
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