Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
L’insoddisfazione nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale si è trasformata in un coro generale. L’allungamento ormai patologico delle liste d’attesa per le diagnosi e le cure è così diffuso da essere ritenuto un evento inevitabile, fatalmente destinato a crescere nel tempo, provocando la progressiva emarginazione dello stesso Servizio Sanitario Nazionale.
Non voglio qui ripetere i ben noti dati analitici per patologia e per località di queste maledette liste d’attesa, ma mettere semplicemente in rilievo le conseguenze di tutto questo. Basti riflettere sul fatto che, nel breve spazio di tempo che intercorre fra il 2019 e il 2022, la quota di chi paga integralmente le spese per gli accertamenti diagnostici è passata dal 23% al 27,6%, mentre la quota di coloro che pagano integralmente le visite mediche è cresciuta dal 37% al 42%, per non parlare dei troppi italiani obbligati a rinunciare alle cure per mancanza di mezzi.
Quando si raggiungono queste percentuali di presenza e di crescita del privato, si intravvede un cambiamento radicale del concetto di protezione sanitaria garantita ad ogni cittadino, come fondamenta della nostra Costituzione e patrimonio condiviso dell’Europa: esempio unico a livello mondiale. Stiamo cioè silenziosamente scivolando da un sistema fondato sulla difesa dei diritti ad un assetto di libero mercato.
E’ certamente vero che il “Welfare State”, e la sanità in particolare, sono in difficoltà in tutti i paesi europei, ma la crisi italiana appare superiore ad ogni altra. Il livello di finanziamento della nostra sanità pubblica si colloca infatti attorno al 6,7% del PIL, a fronte del 7,8% della Spagna, del 10,3% della Francia e del 10,9% della Germania. In termini assoluti la spesa sanitaria pro-capite tedesca è addirittura il doppio di quella italiana. Anche le prospettive non sono incoraggianti, dato che lo stesso DEF prevede che la spesa per la sanità pubblica si riduca al 6,3% del PIL nel 2024 e al 6,2% nel 2025.
Tutto questo si traduce naturalmente in una restrizione degli investimenti per le nuove tecnologie e le nuove strutture, oltre che in un livello di remunerazione del tutto insufficiente per i professionisti della sanità pubblica. Di qui la continua fuga dei medici e degli infermieri verso l’estero o verso il settore privato, dove le retribuzioni sono incomparabilmente più elevate.
A questo si accompagna una crescita anomala della libera professione “intramoenia”, esercitata dai medici all’interno delle strutture pubbliche, ma al di fuori dell’orario di lavoro.
Un sistema che permette, con regole prestabilite, una maggiore libertà di scelta da parte del paziente ma che, esteso oltre misura, causa un ulteriore allungamento delle liste d’attesa, addirittura con lo stesso medico e lo stesso ospedale.
Siamo quindi di fronte a un quadro che necessita una riforma di carattere globale, iniziando proprio dalla necessità di reperire le risorse destinate alla remunerazione di tutti i professionisti della sanità pubblica.
Il necessario riassetto salariale si deve naturalmente accompagnare agli altri necessari cambiamenti, a partire dall’improprio rapporto con il potere politico, a cui si aggiunge la riorganizzazione della medicina di base, sempre più dedicata a indirizzare il paziente verso gli specialisti.
Anche in questo caso si tratta di un processo organizzativo complesso, come si evince dalle difficoltà che si frappongono alla creazione delle Case della comunità, teoricamente previste anche dal PNRR per offrire al cittadino un livello di assistenza più efficiente e più vicino.
Queste scarne riflessioni non sono certo sufficienti per affrontare il problema dei cambiamenti necessari perché ogni cittadino possa godere di un autentico diritto alle cure sanitarie, ma sono sufficienti per mettere in guardia sul fatto che l’indebolimento delle strutture pubbliche sta progressivamente portandole verso il ruolo residuale di provvedere alle funzioni alle quali il mercato non è in grado, o non vuole, fare fronte.
Siamo quindi non dinnanzi alla necessità di semplici aggiustamenti, ma all’urgenza di decidere la direzione verso cui dobbiamo indirizzare la nostra sanità.
Preoccupa, a questo proposito, la proposta di procedere ad un’autonomia differenziata anche nel settore sanitario, aumentando e legittimando normativamente il divario che già oggi esiste fra il Nord e il Sud. Avanza infatti l’ipotesi che vengano demandati alle Regioni anche i contratti del personale, con remunerazioni ovviamente legate alle possibilità finanziarie delle Regioni stesse.
Con questa innovazione, oltre alla violazione del fondamentale diritto alla tutela della salute, assisteremo all’esplosione della già esistente migrazione di medici e infermieri, facendo delle Regioni più povere un vero e proprio deserto sanitario.
Ricordiamo, a questo proposito, che a fondamento del funzionamento della nostra sanità esistono i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), ovvero i servizi che lo Stato deve obbligatoriamente fornire in modo omogeneo in tutto il paese, ovviamente con adeguati finanziamenti. Perché sono un diritto e non un’opzione.
Credo quindi che, prima di prendere provvedimenti che scardinano ulteriormente il Servizio Sanitario Nazionale, sia necessario stabilire come intendiamo mettere in pratica l’Articolo 32 della Costituzione che, con parole semplici e inequivocabili ci dice che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività“.
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