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Auto elettriche dalla Cina, Europa che fai?


Le auto dalla Cina, Europa che fai?


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 maggio 2024

La globalizzazione non è defunta, come da più parti si scrive, ma non gode certo di buona salute. Non è defunta perché, se è vero che il commercio internazionale non trascina più la crescita mondiale, i legami economici fra i diversi paesi e i diversi continenti sono così profondi che non possono essere interrotti senza provocare danni irreparabili.

E’ tuttavia innegabile che il classico libero mercato sia in continua ritirata e i rapporti fra i maggiori protagonisti della politica mondiale sempre più deteriorati. Gli strumenti di questo progressivo isolamento non sono certo nuovi. Essi si fondano sui due tradizionali pilastri del protezionismo: i sussidi pubblici alla produzione e le tariffe doganali.

Già il Presidente Trump aveva iniziato una selettiva politica di dazi nei confronti delle importazioni cinesi. Selettiva in quanto teneva conto del fatto che quasi un terzo delle esportazioni cinesi provenivano da imprese multinazionali americane e, inoltre, che le importazioni a basso costo contribuivano a moderare l’inflazione interna.

A spingere l’opinione pubblica verso il protezionismo si aggiungeva il fatto che, per effetto della concorrenza cinese, le aziende americane avevano perduto quasi tre milioni di posti di lavoro.

Biden non ha per nulla cambiato questa politica, ma l’ha rafforzata, aggiungendovi l’IRA, poderoso programma di aiuti alla produzione. Nello scorso mese, avvicinandosi le elezioni, le norme di protezione si sono ulteriormente moltiplicate.

Tra queste la decisione più discussa è l’introduzione di una tariffa del 100% all’importazione di automobili elettriche, in modo da riservare il mercato ai produttori nazionali, cominciando da Tesla, tradizionale leader del settore.

A questo si sono aggiunti nuovi dazi sull’acciaio e su altri prodotti particolarmente importanti negli Stati decisivi per l’esito delle prossime elezioni, come la Pennsylvania, il Michigan e il Wisconsin.

Naturalmente Trump, nella sua abrasiva campagna elettorale, sta andando oltre, promettendo ai suoi elettori l’introduzione di un dazio del 10% su tutte le importazioni e del 60% su ogni prodotto proveniente dalla Cina.

Il grande paese asiatico, a sua volta, prosegue nella sua tradizionale politica di barriere all’importazione, di condizioni di lavoro del tutto concorrenziali e di sistematici sussidi pubblici.

A tutto questo aggiunge la minaccia di prossime non facili risposte all’aumento dei dazi americani, alla quale accompagna, come nel nuovo settore dell’auto elettrica, un’inaspettata crescita del livello tecnologico e della produttività.

Non è un bel quadro anche se l’inno alla passata globalizzazione è anch’esso fuori posto, date le disparità e le ingiustizie che il suo uso incontrollato ha provocato.

Difficile è il ruolo europeo in questo contesto. La misura degli incentivi dipende infatti dalla profondità del portafoglio di chi li concede.

Il grande portafoglio americano, unito ai bassi costi dell’energia, sta spostando verso gli USA numerose aziende europee mentre, in mancanza di una politica comune, le multinazionali americane investono nel mercato europeo attratte soprattutto dai robusti sussidi pubblici dei paesi più capienti, a partire quindi dalla Germania e dalla Francia.

Ancora più complicata è l’evoluzione dei rapporti economici europei con la Cina. Gli interessi dei paesi europei sono, come al solito, diversi. Se prendiamo in considerazione il grande settore dell’auto, le imprese tedesche coprono da molti anni una quota considerevole del mercato cinese.

La Volkswagen, per anni leader in Cina e, insieme a Mercedes e BMW, dominante nel mercato di lusso, ha quindi deciso di cooperare per costruire nuovi modelli con grandi produttori locali, potenziando i centri di ricerca, di sviluppo, di progettazione e di produzione di auto elettriche nella stessa Cina.

Naturalmente l’intensità dei rapporti fra Cina e Germania non si limita a questo campo, ma si fonda su investimenti in tanti altri settori e su un poderoso flusso del commercio internazionale che, a differenza degli altri paesi europei, vede la Germania in posizione di forza.

Per questo motivo il Cancelliere tedesco, nonostante le tensioni politiche, si è dimostrato favorevole ad imporre barriere molto modeste alle auto cinesi, in modo da fare prosperare le collaborazioni esistenti.

Allo stesso modo si è pronunciata la francese Stellantis. Gli altri governi, compreso quello francese, propendono invece per barriere più elevate, in modo da spingere le imprese cinesi a localizzarsi in Europa.

Prendendo atto della chiusura americana e delle divergenze fra europei, la Presidente della Commissione ha preferito non entrare in guerra con la Cina e si è limitata, per ora, a richiedere una serie di analisi sui sussidi cinesi alla produzione.

Vedremo quindi a settembre se sarà imposta una protezione doganale sufficientemente elevata da mettere fuori mercato l’importazione di automobili cinesi, obbligando le imprese del Celeste Impero a fabbricare le nuove vetture in Europa.

Questo per evitare di ripetere quanto è avvenuto con i pannelli solari che, data la superiorità tecnica e i bassi costi, sono ormai fabbricati esclusivamente in Cina.

In questo quadro di incertezza si sta evidentemente preparando una dura concorrenza fra i paesi europei per attirare i possibili investimenti cinesi.

Riguardo alla loro localizzazione, come è emerso nei colloqui in Ungheria fra Orban e Xi Jinping, il governo cinese si prepara ad usare, con grande avvedutezza, la leva economica insieme alla leva politica.

Si profila così una battaglia alla quale anche l’Italia sarebbe obbligata a partecipare, sperando che sia in grado di fare scelte oculate.

Non tutte le troppo numerose imprese cinesi che producono automobili sono infatti uguali.

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