Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 18 maggio 2024
L’immigrazione rimane centrale nella campagna elettorale delle ormai vicine elezioni europee e addirittura già infuoca i dibattiti di quella americana, che pure si concluderà solo a a novembre. Non si tratta certo di un fatto nuovo: l’immigrazione è ormai da decenni il test cruciale per la conquista dei consensi.
Anche se su questo tema vi sono posizioni diversificate, esiste tuttavia una collaudata dottrina sul fatto che più si esercita una politica dura e severa nei confronti degli immigrati, migliori sono i risultati elettorali, sia che si tratti della concessione del diritto d’asilo, dei processi di accoglienza o delle politiche di concessione della cittadinanza.
In particolare non si registrano passi in avanti nell’introduzione di elementi di solidarietà nei confronti dei paesi geograficamente più esposti ai flussi migratori, tra i quali vi è, evidentemente, l’Italia. Ancora più nette sono le prese di posizione anti immigrati negli Stati Uniti, dove si assiste ad una vera e propria gara su chi è più efficiente nel chiudere le frontiere meridionali.
Eppure siamo già entrati in una fase di cambiamento del mondo del lavoro che presto sarà seguita da un nuovo orientamento dell’opinione pubblica. In tutti i paesi industrializzati, anche dove il tasso di crescita è modesto, la disoccupazione è crollata negli ultimi dieci anni.
I motivi sono tanti ma, pur colpendo in modo non omogeneo tutti i settori economici, sono tuttavia comuni all’intero mondo produttivo: dall’agricoltura all’industria e a tutte le sfumature del terziario, dai servizi alla persona all’immenso comparto del turismo.
Non si tratta soltanto di mansioni particolarmente faticose o usuranti, ma di un cambiamento strutturale del mondo del lavoro. Il tutto è aggravato dalla progressiva diminuzione delle classi in età lavorativa.
Il calo demografico dura infatti da diverso tempo e l’offerta di lavoro continuerà a calare molto a lungo. Un crollo già garantito almeno per vent’anni, dato che i non nati non possono certo presentarsi al mondo produttivo.
Per essere ancora più chiari: entro pochissimi anni comincerà la concorrenza non solo fra imprese, ma anche fra gli stessi paesi. Una gara che non sarà decisa solo dal livello salariale, ma anche dalle strutture abitative, dalle occasioni di crescita professionale, dall’apprendimento della lingua e dalla possibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei nuclei familiari.
È infatti incomprensibile che nel nostro paese non sia stato possibile approvare un testo di riforma sulla cittadinanza almeno legato al compimento di un ciclo di studi. Altri paesi, a cominciare dalla Germania, hanno invece percorso un cammino diverso arrivando persino, con una decisione allora controversa, ma oggi rivelatasi provvidenziale, ad attrarre centinaia di migliaia di cittadini siriani forniti di cultura e di capacità professionali certamente superiori rispetto alla media degli immigrati.
Un paese saggio e preveggenti partiti politici dovrebbero quindi riflettere sul fatto che questa evoluzione è inevitabile e che bisogna perciò preparare già da ora i necessari strumenti per provvedervi. Si può, e forse si deve, cominciare con sperimentazioni di carattere locale e settoriale, ma è necessario capire in tempo in che direzione sta andando il mondo, senza perdere ancora una volta l’appuntamento con la storia. In fondo, in modo silenzioso e senza dirlo, lo stesso nostro governo, così ferocemente schierato contro l’immigrazione, è stato costretto ad aumentare il numero degli ingressi. Guidarli e regolarli è un interesse nazionale, certo più conveniente rispetto al denaro buttato via per costruire improbabili presidi in Albania.
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