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Cesare Palandri, la mitica 'voce' della radio italiana ci ha lasciato

Carissimo Cesare:
Max, mio figlio, mi ha appena telefonato dall’Italia, Te ne sei andato in una calda sera di autunno romano, inebetito dalla morfina per attenuare il dolore causato dalla malattia che ti straziava pezzo per pezzo.
Cesare: so bene che le rimembranze a te non sono mai andate a genio. A noi fiorentini di un certo tipo le lacrime a comando, gli occhiali scuri dei funerali, le omelie della cerimonia pagata, i conciliaboli di quelli che seguono la bara ci vanno di traverso.
Ma la tua morte annunciata è una pagina che si chiude della tua e della mia vita. Per tanti anni insieme con le nostre famiglie, i viaggi in camper, le cene nelle quali scandalizzavamo ignari commensali inventando sordide storie nelle quali Gilberto Fabretti, altro nostro grande amico sparito anzitempo, recitava la parte dell’eroe remissivo.
E poi, dopo il mio trasferimento in America le settimane di vacanze passate insieme a Baia Sardinia, le schitarrate cantando le canzoni degli anni ’60, i lunghi bagni alla scoperta dei fondali con il tuo nipotino per il quale stravedevi e che ti adorava perché, con la sua istintiva innocenza, vedeva nel Nonno quelle qualità che tutti noi che ti conosciamo da tanto tempo abbiamo sempre apprezzato.
A cominciare dalla tua bontà che in un ambiente come quello della RAI non è certo un talento. Quante volte commentando i repentini balzi di carriera di tuoi colleghi ti abbiamo accusato di essere troppo Buono, di non adeguarti agli stili di vita di quell’ambiente che esigevano schieramenti partigiani prima ancora che una seria professionalità.
Tu ci ascoltavi sorridendo e fumando l’ennesima sigaretta Nazionale senza filtro. E rispondevi che se uno è bravo alla fine viene apprezzato.
Per anni hai gestito le trasmissioni del primo mattino della radio. Andavi a lavorare alle quattro e mezzo in via del Babuino e poi a Saxa Rubra. Era un gran sacrificio personale e familiare. Ma poi ci confidavi che vedevi una Roma che pochi altri immaginavano.
Quante volte, Cesare, abbiamo spazzolato i nostri ricordi di goliardi. La tua gigantografia di quando durante una festa delle matricole eri stato immortalato nelle vesti di una ballerina hawaiana. E la tua mamma a pregare quel negozio di fotoottica di piazza della Libertà a Firenze perché togliessero di mezzo quella foto.
E poi le auto da corsa. Che passione in comune. Tu che avevi fatto alcune gare con una mitica OSCA.
Ma soprattutto il tuo lavoro. La tua voce conosciuta da milioni di ascoltatori. Entravi nelle nostre case al mattino, quando appena risvegliati ci facevamo la barba o stavamo per andare in ufficio. E ti sentivamo dalla macchina. Ed era un modo per cominciare bene la giornata.
E la malattia che si è manifestata qualche anno fa colpendoti in varie parti del corpo. Al tuo fianco Renata, raro esempio di moglie che rinnova il suo amore attraverso i decenni, le gioie e le avversità della vita. Conosciuta proprio in una lontana festa delle matricole e poi sempre vicina a te sino all’ultimo momento. Lucida, forte, animata da una fede religiosa inossidabile che ti aiutava a non perdere la tua di fede, nei momenti tragici e dolorosi del tuo calvario. I figli vicini anche se distanti fisicamente: Lello con le sue splendide figlie ed Eleonora che al Nonno aveva regalato di recente il secondo amato nipotino.
Caro Cesare: in RAI hai lasciato allievi diventati veri amici che ora piangono lacrime vere.
Io non so piangere, scusami. Ma ti stringo forte in un abbraccio, come quelli che ci siamo sempre scambiati quando dopo mesi di forzata assenza ci siamo rivisti in qualche parte del mondo. Trovando nel tuo sorriso e nel tuo corrosivo modo di commentare tra noi i fatti del giorno un comune legame spirituale, io liberale laico e tu cattolico praticante.
Da dove sei ora, carissimo Cesare, prova a mettere una buona parola a favore di questo mondo che va a catafascio.
Con tanto affetto,
Oscar

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