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Tre esempi di politica industriale

di Guido Colomba

(The Financial Review) Tre esempi di politica industriale che riguardano Londra, Washington e l'Italia. Londra, in competizione con Italia e Germania, ha aperto sei nuove ambasciate e sette consolati in gran parte presso i Paesi emergenti con l'obiettivo di favorire le esportazioni delle Pmi. Il target ambizioso è di ottenere una trentina di miliardi all'economia del Paese facendo leva sulla straordinaria capacità britannica di fare sistema. Dunque la "diplomazia economica" è la nuova trincea della dottrina del primo ministro David Cameron. Una società di consulenza, Yell, è chiamata ad "allenare" 3500 piccole imprese a misurarsi con le opportunità della globalizzazione. Gli strumenti previsti sono molteplici (accesso ai finanziamenti, snellimento delle pratiche burocratiche, know how tecnologico, aiuto in loco della diplomazia british) e vedranno banche e associazioni industriali fortemente coinvolte per approfittare del "boom dei Brics". Questa è una prima risposta del Governo di Londra al rifiuto di aderire al patto europeo "fiscal compact". Il secondo esempio viene dagli Usa. Washington ha dimostrato - dati alla mano - che gli aiuti per l 'industria dell'auto erano giusti. Così come lo sono stati quelli riservati alle banche e alle assicurazioni. Gli "indignati" hanno ragione sul piano etico, non su quello dello sviluppo economico. Le economie di agglomerazione dimostrano la loro validità quando si afferma che il tutto è più grande della somma delle parti. La parte negativa di questa teoria sta nel rischio sistemico. Il terzo esempio è il ritardo dell'Europa, con l'Italia in prima fila, dove è molto intenso il dibattito sulla crescita. Atteso che l'aumento della pressione fiscale non può produrre crescita, tutta l'attenzione si sposta sulla riduzione del costo del lavoro. In assenza della leva sui cambi, la battaglia si concentra sulla produttività. Sul proscenio vi è la riforma del welfare. Ammesso che entro il 23 marzo, come ha annunciato il ministro Elsa Fornero, si concluda la riforma del lavoro resta la seguente domanda di fondo: quale sarà la qualità della spesa destinata agli ammortizzatori sociali? Finora è mancato l'anello di congiunzione tra colui che percepisce un sostegno (ammortizzatore) sociale e l'impegno pubblico per il suo reinserimento nel lavoro attivo, previo percorso di riqualificazione. Se ne parla inutilmente da dieci anni. Un deficit che si misura con la caduta inesorabile e progressiva della competitività nel mondo globalizzato. Il merito del governo Monti nell'affrontare questo problema è proprio quello di aver posto sul tappeto problemi strutturali che tagliano orizzontalmente una serie di interessi precostituiti che spesso hanno visto Confindustria e sindacati sulla stessa parte della barricata. Il governo punta molto sulla formazione ricorrendo anche all'utilizzo della certificazione. Di qui il rush finale sull'apprendistato che diverrà il canale d'ingresso principale dei giovani nel mercato del lavoro. La nuova impalcatura, che impatterà su 12 milioni di lavoratori, prevede una cassa integrazione rafforzata per le crisi temporanee e un sussidio universale di disoccupazione. Il nodo-risorse già poggia su una crescita drammatica, negli ultimi due anni, della spesa per gli ammortizzatori superiore ai 90 miliardi di euro. Occorre un miglior utilizzo. I sindacati e Confindustria alla fine dovranno aderire anche perché l'impegno assunto da Monti è quello di presentare a Bruxelles ad aprile il piano nazionale di riforme. Un appuntamento non rinviabile. (Guido Colomba)

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