Alberto Pasolini
Zanelli
La campagna
presidenziale americana sembra continuare al suo ritmo di quest’anno, accanito ma
impostato sulla lunga distanza e soprattutto su problemi di politica interna,
che nei giorni scorsi si sono come isolati sulle conseguenze politiche del
dramma della morte “misteriosa” di un personaggio importante per le sue supposte
connessioni passate con Donald Trump. Ma è un’apparenza dietro la quale
continua il contrasto su un avvenimento molto più aggressivo e approfondito:
quello delle due stragi, quella dell’Ohio e soprattutto quella del Texas, di
cui si conosce il colpevole, le sue intenzioni, il suo odio perverso contro
quelli che lui chiamava “immigrati” anche se le sue vittime non lo erano dal momento
che si è trattato non solo di cittadini le cui radici sono americane ma anche,
soprattutto nel caso di El Paso, si tratta di discendenti di americani di molte
generazioni.
In attesa di una
soluzione che quasi certamente non verrà, comincia però ad affiorare un nuovo
problema possibilmente decisivo dal giorno in cui esso dovesse venire in
superficie e metterebbe in difficoltà l’attuale inquilino della Casa Bianca più
di qualsiasi altro. E questo perché non riguarderebbe i numerosi punti deboli
di Trump ma perché investirebbe un problema centrale e il suo punto di forza: l’economia.
Il suo stato
attuale non consentirebbe dubbi: questo presidente aveva promesso molto e molto
ha fatto. Lo indicano solidi e compatti i dati dei sondaggi. L’ultimo conferma:
sui temi economici l’attuale presidente batterebbe qualsiasi degli oltre venti
aspiranti democratici al suo seggio. La cifra è indiscutibile. Alla domanda “siete
soddisfatti dell’andamento economico durante la conduzione di Trump?”, rispondono
“sì” 51 americani su cento, mentre i “no” non vanno più su del 42 per cento. Ai
quesiti sull’immigrazione, il rapporto è capovolto: 57 per cento “no”, 40 per
cento “sì”. I dati di cui sopra sono isolati, questi ultimi sono confortati
dalle risposte su altri temi considerati centrali. Cominciando dalle tasse: 49
per cento scontenti, 42 per cento soddisfatti. Sulle riforme sanitarie: 38 per
cento di “sì”, 54 per cento di “no”. Sul tema, quest’anno scottante, della
condizione femminile, i giudizi negativi sono addirittura del 56 per cento
contro il 32 per cento. Su quello dell’aborto, 56 per cento di scontenti. Sulla
violenza e il controllo delle armi, 36 americani su cento sono soddisfatti, 52
su cento scontenti.
Il dato più negativo
riguarda il tema più difficile e “astratto”: il “cambio di clima”. Il 62 per
cento prevede ulteriore “brutto tempo”, gli ottimisti non vanno più su del 29
per cento. È un dato totale? Quarantaquattro americani su cento sono intenzionati
a rieleggere Trump, il 53 per cento inclinano a sostituirlo con un candidato
democratico, quasi chiunque dell’abbondante dozzina degli aspiranti.
Il rapporto di
forze è però in realtà meno schiacciante di quanto appaia da questa raffica di
cifre, perché non tutte hanno lo stesso peso e quelle più fortemente e “stabilmente”
negative non sono poi le principali e quasi tutti i candidati democratici hanno
meritato finora “voti” alquanto più bassi di quanto possa derivare la “pagella”
di Trump. Una cosa è trovare insufficiente la conduzione del Paese del
presidente attuale e altra nutrire fiducia su chi lo sfida. Anche e forse soprattutto
perché nel campo dell’opposizione siamo ancora molto lontani da una scelta e
quindi i candidati democratici sono costretti a concentrare tempo ed energie
per scoprire e sottolineare i punti deboli dei compagni di partito. Più netto
ed evidente è il peso di questo contrasto sulle proposte in campo economico, da
cui emerge che almeno per ora di partiti democratici ce ne sono almeno due: quello
tradizionale, moderato nelle parole e ancora di più nei fatti, che propongono un’America
sostanzialmente simile a quella attuale con correzioni di numeri e soprattutto
di stile. Se la nomination andrà al “favorito” attuale, l’ex vicepresidente Joe
Biden, il “numero due” negli otto anni di Obama, potrebbero prevalere le scontentezze
marginali per Trump e quindi potrebbe prevalere, magari di stretto margine, la
somma dei piccoli malcontenti e quindi la sconfitta per Trump.
Ma di partiti
democratici ce ne sono invece due e il secondo è probabilmente il più attraente
per una buona parte degli elettori ma inquietante per altri. Se un moderato
come Biden difenderà il suo primo posto nella scala dei candidati democratici, la
“temperatura” della campagna scenderà e ai motivi di scontento si contrapporrebbero
quelli di paura del buio. Ma se prevalesse uno dei candidati più forti nella
minaccia a Biden, allora il discorso sarebbe diverso. Perché se sulla scheda
del novembre 2020 comparisse Bernie Sanders o Elizabeth Warren, a proporsi sarebbero
portavoce di una trasformazione fondamentale dell’America in un Paese con una più
forte componente “socialista” o almeno socialdemocratica dell’intera storia
degli Stati Uniti e del rapporto “ideologico” di tutto il pianeta. E anche di
questo molti americani avrebbero almeno un po’ di paura. Forse fino al punto di
gettarsi di nuovo fra le braccia di Donald Trump.