Alberto Pasolini
Zanelli
La sirena suona
per Donald Trump. Da diversi giorni, dai diversi angoli di una di inquietudine.
In certi giorni e ore pare che gli allarmi vengano da tutta l’America. Alla Casa
Bianca regna nervosismo accompagnato dalla fretta di affrontare le cose più
difficili. Però non c’è panico e le preoccupazioni sono ammesse apertamente o
quasi e trovano risposte immediate e in molti casi altrettanto sonore e anch’esse
esagerate. Negli ultimi tre o quattro giorni gli americani hanno avuto l’occasione
di sbirciare la paginetta degli appunti più urgenti sul tavolo con le notizie
per il Presidente. Vengono un po’ dappertutto. Dalla Cina con la quale un
confronto e un compromesso si fanno sempre più urgenti e allo stesso tempo più
difficili. È la cosa cui l’inquilino della Casa Bianca tiene di più e
presumibilmente anche di più preoccupa ma è anche quel che accumula le difficoltà
di cui Trump si sforza di parlare il meno possibile.
A preoccuparlo, e
ad angosciare i suoi sudditi, è l’impressione che questa volta l’accordo si
faccia più difficile e più lontano, proprio adesso che non ha molto di militare
e tutto di finanziario. Da quando questo presidente repubblicano siede alla
Casa Bianca, le cose sono andate molto bene per i portafogli dei suoi cittadini,
quelli da cui tradizionalmente gli americani guardano quando si devono decidere
per chi votare. Era boom o quasi e adesso si balenano delle incrinature, più
spesso nate da un inquietante ritardo nelle trattative fra Washington e Pechino,
quelle necessarie per il ristabilimento dell’equilibrio fra due “giganti” che
scoprono un mondo troppo lento a decidere e incamminato nella direzione più
scomoda. Un bell’accordo fra Trump e Xi Jingping alleggerirebbe le altre “crisi”
del pianeta, grandi e piccole, le une e le altre maledettamente scomode durante
una campagna elettorale. Non solo i cinesi, ma anche gli afghani che sono stati
fino a pochi giorni fa sull’orlo di un pacifico compromesso fra due fazioni
tutt’altro che pacifiche: i “gerarchi” che aiutarono Bin Laden e quelli ancora
più estremisti che si cerca di ammansire ma che passano le giornate a
organizzare stragi.
Notizie inquietanti
da Hong Kong, da ormai un mese in rivolta con il timore che il potere di
Pechino perda la pazienza e reinstauri i metodi di piazza Tienanmen. Notizie imbarazzanti
da un Paese amico come Israele il cui primo ministro, anche lui in fase
preelettorale, è costretto a vietare a una neodeputata di Washington il permesso
per andare a salutare una nonna palestinese vecchia e malata. Pare che a
consigliarlo non siano stati i suoi, ma proprio Donald Trump dalla Casa Bianca
che con Netanyahu ha incrociato per giorni i sì e i no, le raccomandazioni e
gli ordini. Notizie preoccupanti dall’Europa, proprio sull’economia e proprio
dalla Germania che da tanti anni è stata la prima della classe e adesso fa i
conti, si preoccupa e preoccupa i vicini.
Brutte notizie,
infine, dal Paese più eccezionale del pianeta, il regno dei ghiacci, quella Groenlandia
di cui la diplomazia internazionale si sente autorizzata a dimenticarsi per
decenni. Cinquantamila abitanti in tutto, abituati a farsi gli affari propri
sono stati svegliati e messi in allarme proprio dal presidente americano con la
sua idea più originale: un’offerta di vendita, magari anche a una buona cifra,
ma sempre nelle proporzioni del Paese degli orsi bianchi. Che è stato gelido
nel suo no e si è anche offeso. Il microgoverno di un Paese gigantesco. Un “no”
rapido ed esplicito, dai governanti con meno sudditi al mondo e che non ha
realmente sciolto i legami con la sua antica patria, la Danimarca, che un tempo
dominava il mondo scandinavo e polare e se lo è visto sottrarre pezzo per pezzo
fin dai tempi di Napoleone. Le è rimasto però un re, la cui risposta all’offerta
“indecorosa” è stata addirittura sdegnosa e spazientita: “Ci hanno già portato
via la Norvegia e l’Islanda e adesso volete derubarmi del mio ghiacciaio?”
Mercati, tariffe,
annessioni fallite, ansietà, sospetti di fragilità economica nel momento più
scomodo. Quello in cui si cominciano a fare i conti per la prossima elezione
presidenziale. Manca più di un anno, certo. Però non è piacevole per nessun
leader politico, soprattutto della Superpotenza, doversi leggere l’ultima
raccolta di dati, proprio da parte della rete televisiva tradizionalmente più
amica: se si votasse domani mattina, Trump potrebbe contare solo su circa il 40
per cento dei “sì”. Il 60 per cento andrebbe al candidato democratico, ancora
lungi dall’essere scelto, in una sfida mai tanto affollata. Vincerebbe Bernie Sanders
(l’unico politico americano che si proclama socialista) o Elizabeth Warren (che
deve ancora farsi perdonare del tutto l’essersi spacciata, per suscitare interesse,
come discendente di un pellerossa) una giovane femminista arrabbiata e Joe Biden,
che per otto anni ha fatto di mestiere il “vice” di Barack Obama.