Translate

Il presidente è partito al contrattacco con durezza, intransigenza e uno spirito “di guerra”.


Alberto Pasolini Zanelli
Molti, non soltanto in America, avevano ricavato dalla prima serie di dibattiti per la scelta dei due partiti per la candidatura alla Casa Bianca e l’impressione era stata notevolmente favorevole allo sfidante democratico Joe Biden nei confronti dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Impressioni coerenti con gli ultimi risultati resi noti dai sondaggi, che davano lo sfidante in vantaggio di almeno il 5 per cento ma in qualche caso vicini al 10. Quasi unanime, inoltre, era la spiegazione di questo rapporto di forze. Prima di tutto essa sembrava essere coerente con la maggior parte di “conteggi” negli ultimi mesi e le spiegazioni parevano combaciare: in tutti gli “scontri” finora era stato Biden ad attaccare con il compatto rinforzo dei suoi compagni di partito, mentre Trump e i repubblicani si limitavano a fornire “spiegazioni” piuttosto pacatamente e lasciando l’impressione che si stavano limitando a distribuire dichiarazioni “leggere” e in qualche caso fragili.
Due giorni dopo toccava a Trump e tutto è cambiato, capovolto. Il presidente è partito al contrattacco con durezza, intransigenza e uno spirito “di guerra”. Ha raccolto tutti o quasi gli argomenti a cui gli avversari si erano apparentemente aggrappati. E non si è limitato a cercare di indebolire i punti che parevano più deboli. Al contrario egli è invece partito all’attacco fin dal primo minuto, seguito compattamente dal suo “stato maggiore” e, ancora di più, dalla “flotta” dei fedeli prima di tutto convinti della loro posizione nella sfida, ma con ancora più vigore: non limitando a difendersi ma inaugurato, condotto e portato al successo una controffensiva solida e anche “violenta”. Trump ha condotto la sua polemica con un vigore e una convinzione al cui confronto il suo appello nelle elezioni di quattro anni fa era parso a molti (anche fra i repubblicani) poco convinta e ancor meno convincente, aggrappandosi ai suoi previsti punti di forza: un orgoglioso patriottismo e i dati convincenti dell’economia. Ha detto e ripetuto senza essere smentito che la “potenza” degli Stati Uniti, finanziaria e militare, che si era affievolita sotto la direzione dei due predecessori, si è ripresa, soprattutto in campo economico, a livelli quasi mai attinti nell’ultimo secolo del confronto fra l’America e il resto del pianeta. Trump voleva, ci è riuscito, “schiacciare” i concorrenti con questi dati. Ma poi subito dopo ha “offerto” i motivi più profondi del “declino” nazionale nel terreno politico, strategico e anche “morale”. “L’America è in declino, ma la colpa è dei suoi avversari, che egli non ha nominato con il loro nome storico (“democratici”), ma con una combinazione molto più aggressiva culminata nella ribadita accusa di essere non solo e non soltanto “populisti” ma anche, con maggiore vis polemica, “marxisti”, con conseguenze non soltanto di declino economico, ma anche nel livello economico e politico e soprattutto militare e ancor di più di vigore della combinazione politico-economica. Senza nominarlo esplicitamente, ma “raccontandolo” egli si è rifatto a Ronald Reagan, il candidato repubblicano che ha guadagnato in due elezioni consecutive (negli anni Ottanta) oltre l’80 per cento del voto popolare e condotto a termine la più difficile, importante e considerata irraggiungibile, cioè il crollo dell’Unione Sovietica e di conseguenza la fine della Guerra Fredda. Non se ne è avocato il merito personale, ma ha ricordato agli americani che cos’era successo: una vittoria senza precedenti i cui frutti vanno custoditi e nutriti senza indebolirli e in parte contraddirli. E non è il solo: in occasione di questo dibattito due organi di stampa autorevoli e famosi negli anni Ottanta (Time e Newsweek) ha “resuscitato” i numeri delle settimane decisive, dedicando oltre alle considerazioni e applausi nei commenti, in ogni numero la foto di Reagan a tutta prima pagina. Non è chiaro di chi sia stata l’idea. Non è detto che si tratti di Trump, ma è stata una sorpresa significativa. Egli ha rilanciato e “costruito” diversi argomenti per imitare anch’egli quel bis. Non è detto che ci riesca completamente il 3 novembre, giorno del voto. La legge elettorale americana è sempre stata complessa e confusa, ma è inchiodata nella Costituzione e non si cambia, adattandosi alla semplicità europea. Però offre occasioni in genere impreviste. L’ultimo esempio è di quattro anni fa, allorché la democratica Hillary Clinton assommò tre milioni di voti popolari più di Trump, ma quest’ultimo prevalse negli Stati che decidono. La Casa Bianca se la conquistò lui e adesso ce la metta tutta per fare il bis. Arduo ma, dallo “spettacolo” dell’altra sera, non impossibile.