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Toto nomina per la vicepresidente democratica



Alberto Pasolini Zanelli
Ci sono modi diversi di preparare e condurre le elezioni, tanto più regolate e rapide quanto più importanti. Questa premessa è completamente sbagliata per quello che riguarda l’America, che il suo test elettorale (che è il più importante del mondo) è tutto fuori che rapido e semplice. Ormai il resto del mondo ne ha imparato le particolarità e le apparenti contraddittorietà. Nel 2020 non c’è, da questo punto di vista, niente di nuovo oppure niente di imprevisto e, allo stesso tempo, vario e, come la pensa la maggior parte degli europei, incoerente. Il regolamento è, in teoria, pittato sul calendario: gli americani sono chiamati a rinnovare l’inquilino della Casa Bianca una volta ogni quattro anni, il secondo martedì di novembre. Tutti assieme: Presidenza, Senato, Camera dei deputati, numero di eletti ritagliato sulle particolarità politiche e aritmetiche dei diversi Stati e “collegi”.
Tutto logico. E niente di vero. Gli americani votano già, da un pezzo. I candidati sono in giro da mesi, senza che decisioni siano prese. Quest’anno è teoricamente tutto simile, ma in realtà senza precedenti. Ci sono i soliti due partiti, repubblicano e democratico, che dal diciottesimo secolo si alternano regolarmente e cronometricamente fra vincitori e vinti. I primi mesi di quell’anno (ma anche un paio in anticipo) si eliminano più gradatamente. Il loro “cronometro” quest’anno ha già mostrato i protagonisti che più contano: si chiamano Donald Trump e Joe Biden. Lo sanciranno le rispettive assemblee, ma quest’anno (vale a dire l’anno prossimo) non ci dovrebbero essere sorprese. Per diversi motivi, il principale dei quali è che non esistono candidati di “centro” e che all’interno del Partito repubblicano quella che conta è Trump, che è riuscito a coalizzare tutte le ricette di destra, dalla politica estera, all’economia, ai problemi razziali, all’impetuosa avanzata dell’elettorato femminile. Fra i democratici la certezza verrà un po’ più tardi, non tanto perché Joe Biden sia un “rivoluzionario”: è stato vicepresidente per otto anni, come numero due di Barack Obama, il primo presidente di colore). Trump è “durato” finora un solo quadriennio, ma con ritmi, coerenza e stile nettamente superiori. L’uno e l’altro si sono allevati sostenitori entusiasti e hanno dovuto a poco a poco constatare la crescita di “legioni” di nemici. Nel caso dell’attuale inquilino della Casa Bianca non ci sono dubbi: da oggi al giorno dell’acclamazione (a metà ottobre) e al “conto” di novembre. Lo dimostra quello che la gente dice, che giornali e televisioni proclamano. E, intanto, il voto di quelli che possono (e debbono) fare la loro scelta in anticipo. E Stato per Stato, partito per partito. L’altro giorno gli ultimi sono stati i cittadini del Missouri, che se ne è scelto già, in un giorno e poche ore, cinque democratici ciascuno più di sinistra dell’altro, con un “cambio della guardia” di rara compattezza e con una forte presenza femminile. La loro ricetta è parità dei diritti e dei poteri fra i due sessi, anticipo dell’età per il diritto al voto, forte ostilità alla polizia acuita dai recenti gesti di violenza, che ha causato morti nelle strade e nelle piazze.
Un programma insolitamente compatto per quanto riguarda i democratici, completato dalla richiesta più calda, accesa e compatta: in quasi tutti gli Stati la maggioranza dei candidati prescelti o desiderati è formata da donne, estremamente visibili in quasi tutte le manifestazioni politiche, soprattutto nelle piazze, estesa ora anche al Senato. Il partito che dodici anni fa portò alla Casa Bianca Barack Obama ha messo in luce quattro suoi eredi: il vice del primo candidato “nero” e tre donne: una colta e anziana docente universitaria che propone l’aumento delle tasse ai ricchi e una forte diminuzione dei costi per l’istruzione in modo da “aprire” la scuola a tutti. Si chiama Elizabeth Warren, ha 71 anni, è da tempo senatrice. Le altre due sono molto più giovani, amate dalla piazza, di pelle di diverso colore. Si chiamano Kamala Harris, è stata eletta a New York ma viene dal più lontano Ovest. La terza, Amy Klobuchar, è la più europea. La sua famiglia è arrivata da poco dalla Lettonia, da quel Baltico, che fino a poco tempo fa era suddita sovietica. Entrambe – non dovrebbe entrarci – sono giovani, molto avvenenti e dall’eloquio molto spiritoso ma anche e soprattutto aggressivo. Non sono finora favorite, ma sono le prime della classe. In attesa di altre valanghe di primarie e di altre scelte clamorose del comune nemico: Donald Trump. Nei dibattiti quando parlano molti le ascoltano. E moltissimi le guardano.