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Diminuire le imposte sul lavoro per aumentare i salari
Futuri obbiettivi: la ripresa e le imposte sul lavoro da rivedere
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 06 giugno 2021
L’improvvisa presa d’atto che, pur essendo ancora in un pallido inizio di ripresa e con un tasso di disoccupazione ancora elevatissimo, abbiamo già problemi di scarsità di mano d’opera, ha ovviamente destato una certa sorpresa.
Un primo dibattito si è concentrato su settori particolari come la sanità, la ristorazione e il turismo, ma in alcune regioni del Nord, come Lombardia, Emilia e Veneto, lo squilibrio, che aveva già fatto la sua comparsa ancora prima dell’attenuazione del lockdown, si è manifestato anche al di fuori di questi settori, comprendendo diversi comparti della meccanica e interessando tutta l’edilizia.
Se la pallida ripresa assumerà, come penso, un colorito più marcato, i problemi della scarsità di offerta di lavoro si faranno ancora più gravi, con un conseguente oggettivo ostacolo alla crescita.
Come evitare questa tendenza negativa? Partiamo da una breve analisi. In primo luogo si tratta di segnali di scarsità che colpiscono i più diversi livelli di specializzazione.
Al piano più elevato non sono disponibili né ingegneri, né esperti di computer, né operatori sanitari, né specialisti di tanti altri settori. Le imprese del nord continuano a rivolgersi alle Università del sud ma, in molte specializzazioni, anche questa risorsa sta dimostrando i suoi limiti.
Ancora più problematica appare la situazione occupazionale del grande settore dell’edilizia, dove incentivi troppo generosi e di troppo breve durata stanno producendo un boom senza precedenti, mentre gli immigrati romeni, albanesi o marocchini faticano a ritornare e la mobilità interna è resa più difficile da un combinato disposto di alti costi di trasferimento, di bassi salari e di sussidi pubblici che rendono meno conveniente rientrare nel mercato del lavoro.
Nello stesso tempo, quasi nessuno dei nostri emigranti ritorna in Italia dall’estero: non gli scienziati o i medici, ma nemmeno i cuochi o i baristi.
La ragione è assai semplice: in Germania, Svizzera e Francia essi hanno migliori possibilità di carriera e, soprattutto, sono pagati molto di più. I lavoratori, infatti, emigrano per mantenere se stessi e le proprie famiglie e non per migliorare il bilancio di un affittacamere.
Questo problema riguarda tutti i settori della società italiana, dagli impieghi privati a quelli pubblici.
Pensiamo alle decine di migliaia di docenti meridionali che insegnano al Nord e che da sempre premono per ritornare nelle loro regioni di residenza. Lo fanno anche per ragioni personali, ma soprattutto perché, sommando le spese dell’alloggio e dei trasferimenti, non rimane denaro sufficiente per mantenersi e, ancora meno, per mantenere la famiglia.
Non si vive con decoro con gli otto o novecento euro al mese che rimangono in tasca dopo le spese sostenute per lavorare. Ancora più problematico si presenta il quadro quando parliamo dei milioni di persone che operano con contratti precari nei settori nettamente sottopagati, come i servizi alle persone, le pulizie o le altre infinite mansioni ausiliarie. Non è pensabile che una persona faccia un lavoro il cui salario non gli permette nemmeno di uscire dalla lista dì povertà.
Il problema dei lavoratori sottopagati e degli squilibri salariali esiste quasi ovunque nel mondo e ovunque si è aggravato negli ultimi tempi, ma in Italia ha assunto una dimensione e una pesantezza molto superiore a quella dei paesi con i quali dobbiamo confrontarci, come la Francia, la Germania o la Gran Bretagna.
Eppure i livelli salariali non in grado di fare uscire i lavoratori dalla soglia della povertà e crescenti squilibri dei redditi sono sempre più accettati, come una necessaria conseguenza della società in cui viviamo.
Mi viene alla mente, a questo proposito quando, nei lontani anni ’70, ebbi occasione di scrivere, dopo accurata analisi del bilancio di una media impresa, che ritenevo eccessiva la differenza di salario da trenta a uno fra il direttore generale e gli operai della linea di montaggio. A seguito di questa pubblicazione ebbi una valanga di lettere di approvazione. Quando, dopo molti decenni, ho messo in rilievo che, nella stessa impresa, anche se cresciuta di dimensioni, la differenza si stava avvicinando a trecento a uno, non ho avuto alcuna reazione. Come se la cosa fosse scontata.
È chiaro che non possiamo certo ricomporre in un breve lasso di tempo questi rapporti così deteriorati, ma dobbiamo prenderne coscienza, dibatterne e trarne anche qualche conseguenza, come la necessità di diminuire le imposte sul lavoro, in modo da lasciare ai lavoratori stessi qualche soldo in più. Decisione che attrae un consenso totalitario ma che, per avere una certa efficacia, deve raggiungere una misura elevata e richiede quindi un aumento di altre imposte.
Questa logica decisione, in un paese in cui solo il parlare di imposte ti fa perdere le elezioni, trasforma un obiettivo doveroso in un traguardo quasi impossibile.
Al termine di queste pur limitate riflessioni, mi rendo conto di quanto sia difficile intervenire anche nei confronti delle più inaccettabili ingiustizie del mercato del lavoro, ma sono anche consapevole che si può almeno cominciare a procedere in questa direzione solo se si entra in una fase di crescita economica.
Ora tutti gli elementi ci spingono a concludere che questa fase stia cominciando.
Non si tratterà di una crescita capace di farci recuperare in breve tempo il terreno perduto, ma se la politica mondiale si comporterà come nelle previsioni, la fase positiva avrà tuttavia una durata temporale sufficientemente lunga.
È perciò ora di cominciare a riflettere sugli strumenti da adottare perché questa ripresa si sposi con un progressivo miglioramento della giustizia distributiva.
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