Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 giugno 2021
Gli otto giorni di Joe Biden in Europa sono stati spesi bene. La prima ragione del viaggio era la riunione del G7 in Cornovaglia e, a mio parere, è stata la tappa meno produttiva. D’altra parte è lo stesso G7 che ha perduto progressivamente di importanza. Quando, nei lontani anni ‘70, si decise di dare vita a questo appuntamento annuale, i sette paesi membri (Stati Uniti, Canada, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia) rappresentavano oltre il 50% dell’economia mondiale.
Ora arrivano appena al 30%, mentre l’economia asiatica raggiunge il 33%. È quindi sempre più difficile che i G7 prendano decisioni importanti per il destino di tutto il mondo. Così è stato anche in Cornovaglia.
È rimasto infine ancora vago il programma di massicci investimenti in infrastrutture da realizzare nel terzo mondo come alternativa rispetto agli impegni cinesi programmati nell’ambito della via della seta. Più importanti, e portatrici di nuovi segnali politici, sono state le tappe di Biden a Bruxelles con i vertici dell’Unione Europea e della Nato e il suo incontro con Vladimir Putin a Ginevra.
A Bruxelles è stato riannodato il legame fra gli Stati Uniti e l’Europa, legame che era stato violentemente interrotto dal presidente Trump. Non ci si è limitati a dichiarazioni di amicizia, che pure erano necessarie, ma si sono chiusi contenziosi che duravano da tempo infinito (e che si erano induriti negli ultimi anni) come il conflitto fra Airbus e Boeing. Si sono inoltre tolte barriere daziarie (che in alcuni casi danneggiavano l’Italia) e Biden ha offerto un concreto ramo d’ulivo alla Germania, concedendo il semaforo verde al completamento del gasdotto Nord Stream2, che tanto preme sia ai russi che ai tedeschi, anche se non certamente agli italiani.
Il riavvicinamento all’Europa e le prospettive di cooperazioni future non possono essere sottostimate, anche perché costituiscono parte integrante della politica globale di Biden, volta a costruire un’alleanza democratica mondiale, vista soprattutto come contrapposizione alla Cina.
Trovare un compromesso fra la crescente durezza del confronto politico-militare e gli esistenti intrecci economici non è certo un problema di facile soluzione, anche se le possibilità di tale compromesso appaiono maggiormente possibili con l’empirismo di Biden che con l’intransigenza verbale di Trump.
Anche nell’incontro fra Biden e Putin a Ginevra si è aperto un colloquio prima interrotto, si è creato un clima di minore tensione e si è raggiunto qualche risultato concreto.
Si tratta di passi in avanti non definitivi e non certo rivoluzionari, ma che denotano un miglioramento di clima che, per diversi motivi, conviene sia a Mosca che a Washington.
Alle ragioni di convenienza diretta si aggiunge naturalmente l’ipotesi che questo cambiamento sia messo in atto per rendere meno stretto il rapporto fra la Cina e la Russia.
La Cina è infatti il riferimento di tutta la politica americana e il rafforzamento del fronte anticinese è stato una motivazione non secondaria del viaggio di Biden in Europa. Nell’analisi complessiva della missione del Presidente Americano si può quindi convenire che gli obiettivi che essa si proponeva siano stati in buona parte raggiunti, pur nei limiti sollevati in precedenza.
Non costituisce perciò eccesso di retorica definire questo viaggio come molto importante e complessivamente positivo, soprattutto perché denota un cambiamento di metodo che, certamente, contribuirà al contenimento dei conflitti e a una migliore collaborazione globale, almeno in settori particolari come il cambiamento climatico.
Mi auguro tuttavia che questa visita non tarderà nel tempo e che vedremo presto il presidente americano non solo in Vaticano ma anche a Roma.
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