Questione cinese – La dipendenza energetica che l’Europa deve superare
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
Dopo la diminuzione del prezzo del metano e il balzo del prezzo del petrolio, in conseguenza del taglio dell’offerta deciso dai paesi dell’OPEC Plus, il dibattito su queste “energie tradizionali” è quasi scomparso. La nostra attenzione, in modo peraltro corretto, si concentra soprattutto sulle “nuove energie”.
Non stiamo tuttavia prestando abbastanza attenzione agli squilibri geopolitici e geoeconomici che questo cambiamento sta portando e porterà in futuro.
Non solo il Covid e la guerra di Ucraina hanno sconvolto i mercati e creato imprevedibili scarsità, ma nuove alleanze e nuovi rapporti politici stanno rendendo più complicato il raggiungimento della necessaria neutralità climatica e sicurezza energetica.
La stessa Agenzia Internazionale per l’Energia (la più rigorosa autorità in materia ) prevede infatti che, per il lungo periodo di transizione verso il nuovo, il petrolio e il gas saranno ancora indispensabili, mentre una rivoluzione geopolitica è già in corso o, per essere più precisi, è in molta parte già avvenuta, compromettendo i cammini che pensavamo facilmente percorribili.
Il mercato del petrolio, tradizionale simbolo della potenza delle imprese multinazionali, è infatti nelle mani degli imperi statali rappresentati dall’OPEC. Tutte insieme le grandi compagnie occidentali producono solo un decimo della produzione mondiale di petrolio, mentre la parte dominante proviene dai giacimenti dei grandi stati produttori, dall’Arabia Saudita alla Russia, dal Venezuela all’Iran, passando per gli Stati del Golfo.
Senza indugiare troppo sui dati analitici, è sufficiente riflettere sul fatto che le cinque più grandi imprese occidentali (in parte eredi delle famose sette sorelle) producono tutte assieme 8,5 milioni di barili di petrolio al giorno, mentre Aramco Saudita ne produce da sola 9 milioni. A cui si aggiunge il fatto che, mentre gli investimenti nelle grandi imprese private continuano ad essere inferiori a quelli di un decennio fa, gli investimenti degli stati sovrani continuano a crescere.
Se dai dati economici passiamo alle considerazioni politiche, è doveroso notare che, intorno al petrolio, si sta formando un impressionante blocco politico, esteso dalla Russia all’Asia e al Medio Oriente. Un’alleanza recentemente rafforzata dal riavvicinamento fra Iran e Arabia Saudita, riavvicinamento patrocinato dalla Cina che, importando 11 milioni di barili al giorno, è diventato il più grande acquirente di petrolio del mondo e sta persino sostituendo il petrodollaro con il petroyuan.
E’ ormai chiaro che questi “petro-Stati”, prima che il mondo passi alle nuove energie, godranno di un lungo periodo di tempo nel quale eserciteranno, con la protezione della Cina e in conseguenza dei sempre minori investimenti delle imprese occidentali, un potere dominante sul petrolio. Non molto diversa è la situazione del mercato del gas, anche se gli Stati Uniti (insieme al Qatar) possono trarre notevoli profitti dalla transizione in corso, soprattutto favoriti dalla rapida capacità di espansione della produzione dello Shale Gas.
Se passiamo al possibile ruolo del nucleare dobbiamo solo constatare che i 72 impianti in costruzione, o in progetto prima del Covid, erano per il 50% in mano alle imprese russe e per il 20% alle imprese cinesi.
Ancora più critica è la situazione dei materiali strategici impiegati nei prodotti che stanno alla base delle attuali nuove energie. Sappiamo tutti quanto la Cina controlli il mercato delle così dette terre rare, ma ancora più impressionante è il fatto che il 90% dei semiconduttori necessari per le celle solari e una quota altrettanto elevata dei pannelli solari proviene dalle fabbriche cinesi.
Se la Cina (come ipotizzano Jason Bordoff e Meghan L. O’Sullivan in un recente articolo su Foreign Affairs) decidesse di mettere sotto embargo le terre rare o i pannelli solari, come ha fatto recentemente la Russia nel caso del gas, il mondo “dovrebbe spegnere la luce”.
Per affrontare questo lungo e complicato periodo di transizione occorre quindi rifondare la politica energetica, soprattutto ed in primo luogo da parte dell’Europa. Dobbiamo infatti tenere conto della nostra debolezza non solo nei confronti del petrolio, quasi interamente importato, ma anche del gas, riguardo al quale le produzioni norvegese e algerina non sono in grado di crescere, mentre continua ad essere in calo quella olandese.
A questo si aggiunge che il nucleare è escluso dalle scelte della maggior parte dei governi europei e i pannelli solari sono importati quasi tutti dalla Cina. La crescita dell’importazione di gas liquefatto (GNL), che in Europa ha raggiunto il 40% dell’import, non può certo riequilibrare la situazione, dato il suo costo molto elevato.
Non ci troviamo quindi di fronte a un’involuzione annunciata, ma a una rivoluzione già in corso, in una totale incertezza sui modi e sui tempi necessari per superarla. Un’incertezza che rende sostanzialmente impossibile al settore privato compiere i necessari investimenti senza precise assicurazioni politiche ed enormi sussidi pubblici.
Le risorse necessarie per affrontare la transizione possono essere quindi reperite solo costruendo un grande progetto europeo comune in grado di rispondere alle sfide del futuro.
Grande, anzi enorme, nella dimensione e assolutamente unitario negli obiettivi e nel processo organizzativo: entrambi traguardi non certo facilmente raggiungibili nell’Europa di oggi. Penso però che sia almeno il caso di provarci, dato che è in gioco la nostra stessa sopravvivenza.
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