Corriere della Sera
Un’America fortissima e sfiduciata, è quella che tra un anno si appresta – forse – a rivivere la sfida tra Joe Biden e Donald Trump per la Casa Bianca. È il paradosso di oggi.
Il
«sogno americano» è vivo e vegeto in gran parte del pianeta – lo dicono
i flussi migratori – ma perde colpi all’interno degli Stati Uniti. E
questo nonostante il benessere senza precedenti che premia le attuali generazioni di americani.
Con l’annuncio ufficiale della ricandidatura del presidente in carica, che segue quello dell’ex presidente, la storia ci promette uno scenario inaudito. Anzitutto per l’età avanzata di entrambi gli sfidanti:
se davvero nel novembre 2024 saranno loro due a contendersi i voti
della nazione (manca un anno e mezzo, può ancora succedere di tutto), non ci sarà mai stata un’elezione con due candidati così anziani.
Inoltre,
solo una volta nella storia (nell’immediato dopoguerra,
Eisenhower-Stevenson) accadde che per due volte di seguito sia
democratici che repubblicani candidassero gli stessi due uomini.
Il paradosso più sconcertante riguarda lo stato della nazione: gli americani sono convinti che la loro economia sia in declino, mentre non lo è affatto. Un recente rapporto dell’Economist ha messo insieme tutte le contraddizioni. L’80% dei cittadini americani pensano che i propri figli staranno peggio. Eppure il primato degli Stati Uniti è solido. Il Pil americano era un quarto di quello mondiale nel 1990 e trent’anni dopo lo è ancora, malgrado l’ascesa della Cina. Il Pil Usa era il 40% di quello del G7 nel 1990, oggi è salito al 58%.
Il reddito medio dei suoi abitanti è cresciuto più di quello degli
europei e dei giapponesi. Nel più povero degli Stati Usa, il
Mississippi, il reddito pro capite è di 50.000 dollari, superiore a
quello dei francesi a parità di potere d’acquisto.
L’energia è
un settore dove la rinascita Usa ha consolidato le ragioni strutturali
di un primato. La rivoluzione tecnologica dello shale gas ha chiuso un’era in cui l’America doveva importare energia fossile dal mondo arabo.
Nel 1973 l’embargo voluto dai paesi arabi dell’Opec scatenò la
stagflazione, in America e in tutto l’Occidente. Nel 1979 la rivoluzione
iraniana provocò un secondo shock petrolifero, code e risse dai
benzinai in America, nonché la caduta di un presidente (Jimmy Carter)
umiliato dalla presa di ostaggi a Teheran. Nel 2022 il mondo si è
capovolto: dopo che la riduzione delle forniture di gas russo ha
determinato un’altra crisi energetica, abbiamo visto navi di gas liquido venire in soccorso dagli Stati Uniti all’Europa.
Moneta:
ancora oggi la maggior parte degli scambi internazionali vengono pagati
in dollari; i prezzi delle materie prime vengono quotati in dollari.
Quando si sono verificate crisi bancarie, dal crac del 2008 al
fallimento della Silicon Valley Bank nel 2023, la Federal Reserve ha
aiutato anche le banche centrali di altri Paesi, come prestatrice di
ultima istanza. La stessa Cina deve tenere la maggior parte delle sue riserve valutarie in dollari,
la moneta in cui si svolge la quota più importante del suo commercio
estero. Dietro il ruolo del dollaro, c’è il mercato finanziario più
vasto e liquido del mondo, ma anche uno Stato di diritto che tutela gli investitori.
Macron e Lula si sono allineati di recente con Xi Jinping contro
l’egemonia del dollaro, ma le loro aziende e risparmiatori non sono
pronti a convertirsi al renminbi cinese, nome ufficiale della valuta
cinese.
La superiorità tecnologica la si è vista di recente nella gara sui vaccini, e poi nella guerra in Ucraina.
Le aziende americane possiedono più brevetti tecnologici di quelle
cinesi e tedesche messe assieme. Chi ha investito nel 1990 nella Borsa
americana oggi ha guadagnato il quadruplo di chi ha investito negli
altri paesi ricchi.
La forza lavoro americana è cresciuta del 30% dal 1990 mentre negli altri paesi avanzati è aumentata solo del 10%. La popolazione cresce perché ancora esiste un «sogno americano» che attira immigrati da quattro continenti: il 17% della manodopera Usa è fatta di stranieri. Mentre non esistono né un sogno russo né un sogno cinese per compensare la denatalità di quei paesi.
Infine la pandemia, e le manovre di spesa pubblica
decise sia da Trump che da Biden per aiutare la popolazione Usa, hanno
sortito un effetto benefico al di là di ogni previsione: una riduzione delle diseguaglianze.
I ceti medio-bassi hanno ricevuto una tale iniezione di potere
d’acquisto che tuttora molti conservano un cuscinetto di risparmi.
Inoltre le dinamiche del mercato del lavoro rafforzate dalla pandemia
hanno premiato soprattutto i salari più bassi. Il tasso di disoccupazione ai minimi storici (3,5%)
è anch’esso un aiuto per le fasce meno ricche: la disoccupazione tra
gli afroamericani è scesa in modo estremo, quasi eguaglia quella dei
bianchi.
Gli 800.000 posti di lavoro ri-localizzati dai paesi emergenti all’America sono un altro segnale positivo: è in atto una reindustrializzazione alla quale pochi credevano.
Va ricordato anche quanto il miracolo americano attuale sia figlio di una convergenza bipartisan, che nella sostanza contraddice la retorica infuocata di una politica polarizzata.
Fra Trump e Biden la continuità è evidente su diversi terreni cruciali: la risposta muscolosa alla competizione cinese;
le restrizioni all’immigrazione clandestina (che hanno contribuito a
sollevare i salari più bassi fra la popolazione residente); le generose
manovre di sussidi durante la pandemia. Trump e Biden si descrivono l’un
l’altro come una sciagura, un disastro, un nemico dell’America, eppure
su quegli aspetti qualificanti hanno applicato politiche molto simili.
La
narrazione conta, però, e quindi il discorso politico influisce sulla
percezione che gli americani hanno sullo stato del Paese. Destra e sinistra descrivono un’America allo sbando: gli elettori finiscono per crederci.
Il resto del mondo pure. Con un’eccezione importante: tutti coloro che
continuano a cercare di raggiungerla, l’America, facendo le valigie per
traslocare. E non solo da Paesi poveri: l’immigrazione continua anche da
Italia, Francia, Germania, Inghilterra.
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