Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
La maggior parte delle analisi sull’economia europea non fa che sottolineare, a volte con dispiacere e a volte con una certa soddisfazione, che la Germania, dopo essere stata per gli ultimi vent’anni la locomotiva del continente, è da molti mesi entrata in una fase negativa, con la produzione industriale in inesorabile declino. I dati degli ultimi trimestri segnano infatti una caduta che molti ritengono lunga e inevitabile, in quanto frutto di cambiamenti strutturali.
L’elenco degli eventi negativi inizia con la fine del lungo periodo di energia a basso costo su cui si era costruita una parte notevole del suo vantaggio competitivo, a cui si aggiunge un sostanziale crollo degli investimenti e delle esportazioni verso la Russia e la Cina, dovuti al deterioramento della situazione politica mondiale. A tutto questo si sommano ulteriori elementi negativi, in gran parte comuni agli altri paesi europei, come la scarsità di mano d’opera, l’invecchiamento della popolazione, i costi del cambiamento climatico e, infine, la lentezza della burocrazia nell’ adeguarsi alla rapidità dei mutamenti in corso.
A questo si aggiungono i problemi derivanti dalle differenze tra i diversi partiti che formano la coalizione del governo in carica. Non si può infine sottovalutare che, in un paese abituato, come la Germania, ad una crescita regolare e continua, una situazione di incertezza si traduca in un eccessivo pessimismo.
In effetti i dati di luglio della produzione industriale mostrano un calo del 2,1% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e alcune grandi imprese hanno deciso di localizzare all’estero investimenti prima destinati alla Germania.
A dispetto di tutti questi elementi, ritengo che il futuro dell’economia tedesca debba essere dipinto con colori più positivi, nonostante gli alti costi del lavoro e le basse ore lavorate, che si collocano al minimo tra tutti i grandi paesi del pianeta.
Non bisogna inoltre dimenticare che, per attrarre nuovi investimenti, sono diventati di importanza fondamentale gli incentivi pubblici. In questa componente della concorrenza, divenuta non solo legittima, ma determinante, le risorse tedesche non hanno uguali in Europa. I settori di nuovo grande sviluppo come le auto elettriche, le batterie e i semiconduttori si stanno quindi massicciamente localizzando in Germania con la creazione di poli produttivi specializzati, che saranno in futuro il punto di riferimento europeo.
Per fare un esempio concreto, i nuovi investimenti in corso o programmati porteranno in Sassonia un terzo della produzione dei semiconduttori di tutta Europa, con l’obiettivo di passare dai 70.000 addetti di oggi a una cifra intorno ai 200.000 entro il 2030, attraendo investimenti di aziende europee, americane e asiatiche. Riflessioni analoghe debbono essere portate avanti nei riguardi della produzione di auto elettriche e di batterie.
Il maggiore ostacolo alla completa messa in atto di questo disegno non è dato dalla mancanza di risorse, ma dalla scarsità di mano d’opera, vero punto debole di molta parte del sistema produttivo europeo. A questo si cerca di porre rimedio non solo con un ulteriore aumento dell’istruzione tecnica, ma con disposizioni che facilitano l’inserimento di immigrati ad elevato livello di specializzazione.
Si sottovalutano infine, le conseguenze dell’ingente aumento delle spese militari, come effetto delle decisioni prese dopo lo scoppio della guerra d’Ucraina.
Resta infine da notare che la strategia europea sulle nuove politiche ambientali si orienta verso direzioni non certo sfavorevoli alla Germania, come ad esempio riguardo ai carburanti compatibili con le nuove norme e al ruolo marginale del nucleare, che tanto ha irritato molti ambienti francesi.
Tuttavia la nostra disattenzione sui nuovi obiettivi della politica europea non ci permette nemmeno di utilizzare gli elementi vantaggiosi che pure esistono nel sistema industriale italiano, ancora il secondo in Europa, dopo la Germania. Questo, però, è un altro discorso.
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